Divine Comedy

Divine Comedy

La rivincita dei dandy

T(r)ombeur de femmes aristocratico ma socialmente inetto, affascinato dal mito dell'artista "maledetto ma con garbo", Neil Hannon è l'ultimo dandy del pop britannico. Fra orpelli rococò e citazioni letterarie, i suoi Divine Comedy hanno saputo rielaborare gli stilemi del baroque pop, copulando col minimalismo orchestrale di Nyman e sguazzando in oltre 40 anni di scibile popular

di Matteo Losi

Già s'inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: "Frate,
non far, che tu se ombra e ombra vedi".
Ed ei surgendo: "Or puoi la quantitate
comprender de l'amor ch'a te mi scalda,
quand'io dismento nostra vanitate,
trattando l'ombre come cosa salda".
(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXI, vv. 130-136)

Perché ho scelto il nome Divine Comedy? Stavo bazzicando nella libreria dei miei genitori quando mi sono imbattuto nel poema di Dante e... boh, mi sembrava suonasse bene.
(Neil Hannon)

Prologo fasullo

La notte del suo trentacinquesimo compleanno Neil Hannon ha fatto un sogno. Era un Dante in giacca e cravatta che, scortato dal Virgilio personale (Scott Walker), visitava i recessi del Purgatorio ove soggiornavano tutti i nomi ostentati dal suo vizioso pedigree intellettuale. Di volta in volta, ecco presentarsi innanzi ai suoi occhialoni da sole i volti di F. Scott Fitzgerald, Noel Coward, William Wordsworth, Michael Nyman, Anton Chekhov, Burt Bacharach, E. M. Forster, Jacques Brel: alcuni effettivamente trapassati, altri un po' meno, ma ciascuno impegnato a gestire un supplizio (Nyman, in particolare, era condannato a visionare, secondo i dettami della "Cura Ludovico", "Il Cuoco, Il Ladro, Sua Moglie e L'Amante" fino alla completa espiazione del suo peccato: la "prezzemolaggine"). Poi, in un angolino, il più amareggiato dei penitenti: il poeta latino Stazio, che non è fra i "protetti" di Hannon ma in quel Purgatorio ci stava ugualmente (strani che sono, i sogni...). Incuriosito, il popsinger s'avvicinò al letterato e, nel tentativo di carpir parola del suo mugolio, sbirciò il di lui viso per un istante. Sommo raccapriccio: erano suoi gli occhi e il nasone che stazionavano su quella faccia; anzi, quella faccia era identica alla sua in ogni dettaglio. Hannon era Stazio (ma non era anche Dante?), Stazio era Hannon. Come se non bastasse, ad aggravare lo shock giunsero puntuali il terremoto e il "gloria" intonato all'unisono dal coro di voci bianche - una delle quali era Neil stesso da bambino, ma questa è un'altra storia. Sul punto di cader "come corpo morto cade", volse il capo al Maestro - anch'egli prodigo di ray-ban, ma un paio molto più cool - e lo supplicò: "La prego, mi dica cosa sta accadendo! Chi è costui che usurpa i tratti longilinei del mio viso? E codesto tripudio nei cieli? Oh, qual trambusto!". In cuor suo, sperava che gli giungesse all'orecchio il rassicurante accento yankee di Walker, ma nulla udì. "Ehm... maestro?", chiese di nuovo, con un filo di voce. Niente da fare: l'autore di "Ashes To Ashes" e "The Seventh Seal" aveva nel frattempo fatto amicizia con Jean Seberg e se l'era svignata a tradimento, lasciando Neil solo a crogiolarsi nel dubbio. Al risveglio era madido di sudore, confuso e probabilmente dell'umore giusto per scrivere "Snowball In Negative". Sogno proficuo, verrebbe da pensare...

I - Abbandonate ogni speranza, o voi ch'entrate…

Dirlo o non dirlo? Ma sì, diciamolo. Però sottovoce, così nessuno ci sente: Neil Hannon è un autentico genio del pop britannico. Un trovatore affascinato dal mito dell'artista "maledetto ma con garbo", t(r)ombeur de femmes aristocratico ma "socialmente inetto", perso in una porzione di celluloide a firma Truffaut e pronto a sollazzarsi nella "melancholia" di un pomeriggio uggioso che fa tanto British. Dandismo per giovani marmotte, all'inizio; poi laconica ma disciplinata - e percorsa da sprazzi di sottile, irresistibile humour - riflessione sul proprio ruolo artistico.
L'immaginario prescelto? Un raduno insperato di numi, figure del passato cui chiedere udienza. Un portfolio (in pelle di coccodrillo?) da cui spuntano santini da omaggiare e/o irridere con affetto, tipo il "porcellesco" Michael Kane di "Alfie". I fondali oceanici di quell'Europa immortalata dalla Nouvelle Vague e, ancor prima, stuprata con dolcezza da Sua Maestà Jacques Brel.

"È qualcosa che si è perso", dice lui. "La tradizione dei realisti francesi, gente che canta appassionatamente canzoni dai temi squallidi. Temi che non fanno più capolino nelle canzoni a causa dell'influenza americana". In risposta al trend, ecco il suo accatastamento di architetture orchestrali e scorie pop d'alta/altissima fattura, tanto volutamente passatista quanto baldanzosamente specchio di una poetica che è distacco dalla materia, dalla tangibilità del nostro tempo. Allora via con barocchismi a profusione, cedimenti al verbo lounge, sublime drammaturgia, citazioni più o meno dotte (memorabile, fra le tante, il velvettiano "I thank your God that I'm not aware" nel synth-disco di "Europop") sparse lungo il sentiero: una, nessuna, centomila realtà da coltivare come sparuti bonsai di un tragitto alternativo della storia. Poi, in mezzo a tutto questo, Scott Walker. "È proprio quando provo a cantare come Scott che, paradossalmente, mi avvicino a me stesso; anzi, sono me stesso". Parole dello "Stazio" Hannon, per cui c'è da fidarsi. Più o meno. Il rapporto confidenziale col guru ha assunto negli anni una piega a dir poco comica: non solo ogni disco dei Divine Comedy viene puntualmente spedito anche a Walker - che, a quanto pare, apprezza il gesto - ma persino la voce dello stesso Hannon, con l'andare degli anni, si è fatta morfologicamente sempre più affine al baritono vellutato del "progenitore anziano", quasi a conferma di quell'improbabile contiguità fra chimica dell'inconscio e mutazioni biologiche teorizzata da David Byrne in "Seen And Not Seen". Sarebbe scontato, e molto poco poetico, intravedere in quei minuscoli aggiustamenti di timbro e flessione il pedaggio del tempo (e delle sigarette) sull'organismo. No, non ci sto. Immedesimazione in un ideale, piuttosto; che non significa copiare, nossignori, bensì aderire a un progetto di continuità.

Dall'alto del suo pulpito Hannon ha concluso che, giusto o sbagliato che sia, inserirsi nella tradizione ha più valore dello scardinarne i paradigmi. D'altronde, per lui che fa parte di una generazione di auteurs (Eric Matthews, Babybird etc.) capitata quasi per caso nel bel mezzo del britpop ma restia a ogni catalogazione temporale, la nostalgia è una vera canaglia. Una canaglia da coccolare con tenerezza, come recepito dalle nuove leve del cantautorato barocco (i vari Rufus Wainwright, Andrew Bird, Duke Magic, Sufjan Stevens), o magari da svergognare in pubblico, ghigliottinare per inerzia. E poi dove sta scritto che l'arrendersi al passato equivale irrimediabilmente al subirne ogni angheria, senza nemmeno cercare di divincolarsi? "Se prendi i pezzi migliori del passato e punti risolutamente al futuro, finisci con l'avere qualcosa che vive del e nel presente", sostiene lui. "Dopo tutto, nessuno vuole della volgare spazzatura retrò, o sbaglio?". Ecco, di questo non sarei così convinto.

II - "When I was just a little boy…"

Neil Hannon - Divine Comedy"Sono nato nel 1970, ho avuto la pertosse e sono quasi morto. La gente continua a menarsela con la storia della 'classe media' quando in realtà io provengo da una famiglia clericale, che sta al di fuori da ogni logica classista in modo da potersi relazionare con chiunque". Così Hannon, interrogato sulle sue origini. Certo si potrebbe disquisire a lungo su quanto abbia fatto, il biondo Neil, per sfatare il suo status di middle class hero e su quanto, invece, si sia adoperato nel cementarne la consistenza, ma sorvoliamo. Quel che importa è che non ci sono rivendicazioni sociali nel background di questo gracile ragazzetto di Enniskillen, Irlanda del Nord: bensì un padre pastore anglicano della diocesi di Clogher, un posto fisso nel coro della chiesa e una carriera scolastica nella prestigiosa Portora Royal Grammar School (Oscar Wilde e Samuel Beckett fra gli alunni storici). Una condizione quasi "elitaria", la sua, considerato che l'anglicanesimo nel paese conta soltanto un 10% di aderenti e, dall'alto della sua puntigliosa nozione di decenza, si pone all'opposto del corpulento, vigoroso cattolicesimo "masticato" dai più.

"I miei genitori erano incredibilmente tolleranti", ricorderà Hannon. "A volte pensavo che a loro non importasse di me, ma poi ho capito che mi stavano lasciando libero di trovare la mia strada nel mondo. Il che mi ha reso enormemente egocentrico, dato che ora ho la convinzione di poter fare più o meno qualsiasi cosa. Ecco, in fondo non è stata poi una buona idea: a volte ti serve un po' di disciplina". In realtà "un po' di disciplina" mamma e papà gliela impartiscono in occasione del suo primo incontro con la musica: sorpreso a piantare chiodi nei tasti del pianoforte del salotto, il cinquenne Hannon viene spedito per punizione a imparare solfeggio, ed è proprio durante questo "lavoro socialmente (in)utile" che scopre d'avere "un buon orecchio, ma scarsa propensione all'impegno" (parole del suo insegnante).
Una manciata d'influenze dichiarate (Rem, Electric Light Orchestra, U2) e il figliol prodigo comincia, appena tredicenne, a strimpellare amatorialmente. Per il momento - siamo nel 1984 - i soci sono il chitarrista Lawrence Hoy e il bassista David Graham, entrambi suoi compagni di scuola, ma al trio si aggiungerà pochi mesi più tardi un certo Darren Flanagan alle tastiere. Presenza sporadica la sua, rintracciabile soltanto nell'Ep "October", realizzato su cassetta nel dicembre 1987 e venduto ad amici e parenti al modico prezzo di tre sterline. October è anche il nome della band, la cui prima esibizione in pubblico risale all'anno precedente, con Hannon a spartirsi equamente fra chitarra, tastiere e drum machine, e un sound che sguazza placidamente nell'epos marzial-sentimentale dei quattro di Dublino. Nemmeno l'estetica li aiuta: chi li ha visti dal vivo se li ricorda come un imbarazzante ibrido fra le capigliature naif del primo Bono e il mortificante stile casual da new wave troppo educata e assai poco "malata".

C'è ancora un bel po' di strada da fare, insomma. Eppure "Exposition" (Febbraio 1989, ancora su cassetta), spedito alla rivista Hot Press, fa immediatamente guadagnare al duo - Graham aveva nel frattempo deciso di dedicarsi tout-court alla carriera universitaria - un posto alle finali del concorso "Carling/Hot Press Band of '89", tenutesi nella ridente cittadina di Cork. È giusto poco prima dell'esibizione, vedendo la sua drum machine volar giù dal palco ("Era stato un roadie a calciarla giù. Fortunatamente mi trovavo proprio in mezzo al pubblico e riuscii a prenderla al volo!"), che Hannon si rende finalmente conto d'aver bisogno di un batterista in carne e ossa. La scelta cade sul coetaneo Kevin Traynor il quale, trascinatosi dietro anche il bassista John "George" McCullagh (due fustini al prezzo di uno), riesce nell'impresa di "donare" alle ritmiche un minimo di organicità. Senza sintetizzatori fra i piedi, i ribattezzati Cherry Orchard esordiscono nel giugno dell'89 al pub "Vintage" di Enniskillen, azzeccando una nota su tre per tutta la serata (Hannon ha ancora problemi a suonare e cantare contemporaneamente) e concedendosi addirittura il lusso di coverizzare i Pixies. L'imperizia è alle stelle, ma la band si crede tanto sicura dei propri mezzi da cominciare a pensare in grande. Urge però un'aggiustatina al nome (una bruttura, in effetti...), e anche stavolta è Hannon a compiere il "miracolo": da provinciale prodigio di nozionistica, opta per il fascino arcano del poema dantesco e... puff! Nascono i Divine Comedy.

Il passo successivo è confrontarsi con uno studio di registrazione "professionale", nello specifico l'Active Studio di Banbridge. Di fronte a tanta grazia, Hannon è incredulo: "Davvero si può fare?". Il manager Gary McGrade annuisce, in lacrime, e dirotta i suoi protetti in sala per immortalare i frutti - acerbi a dir poco - del loro talento. Nascono così i demo di Fanfare For The Comic Muse, da subito impacchettati e spediti alle etichette discografiche della regione, quasi elemosinando un minimo d'attenzione. Paradossalmente, l'unica a notarli è la sola label a cui il nastro non sia stato inviato (non di proposito, almeno): trattasi della Setanta Records, etichetta indie con base a Londra, che decide di metterli sotto contratto perché graditi alla ragazza del boss ("That's the power of love!").
"Un disco degli Rem, anche se copiato, può sempre far gola al fan di nicchia", deve aver pensato il padrone Keith Cullen nell'affidare il trio - Lawrence Hoy non è più della partita - alle cure produttive di John O'Neill degli Undertones, anche se poi l'operato di quest'ultimo è tranquillamente assimilabile al tenero sonnecchiare di Zappa durante le session di "Trout Mask Replica". "Non è stata un'esperienza particolarmente felice", racconta lo stesso O'Neill. "Nessuno dei miei suggerimenti è stato preso in considerazione. Neil sapeva esattamente cosa voleva, e in pratica ha prodotto l'album da solo". Amen, fratello.
Pienamente in sintonia con le contemporanee (insomma...) pulsioni indie-pop, questi Divine Comedy non avrebbero sfigurato sull'ormai mitologica compilation "C86": registrazione approssimativa, cori ariosi stile primissimi Primal Scream, jingle jangle "sporco" di marca Pastels, attitudine intimista alla Field Mice; magari mancano raffinatezza e visione d'insieme, ma la capacità di scrittura è già al di sopra della media. Ecco perché questo Fanfare For The Comic Muse (Setanta, 1990) qualche lillipuziana soddisfazione la dà, e non solo con i rasserenanti aromi sixties di "Ignorance Is Bliss" o il girotondo in stile Paisley Underground "Tallspin", ma pure grazie ai chiaroscuri new wave di "Secret Garden" e della rurale "Bleak Landscape" (una bella copia di "The Flowers Of Guatemala" a firma Stipe & Co.). Nulla che riesca a indicare qualcosa del futuro prossimo della band, comunque.

Il primo mini-tour britannico procede in modo altalenante, fra défaillance di pubblico (Ben Wardle della Bmg giura d'aver contato sì e no una dozzina di spettatori durante un concerto allo "Shepherd's Bush Empire" di Londra) e accanimenti della mala sorte, come quando una ferita alla mano occorsa a Hannon impedisce ai tre di coprire il ruolo di headliner al "Belfast Rock Festival" di settembre (l'onore spetterà ai Therapy? che, quella stessa sera, guadagneranno un contratto nuovo di zecca con la A&M). Ancor peggio vanno le cose nell'aprile del 1991, in occasione di una "Battaglia delle Band" indetta di nuovo al "Vintage": accortosi che i Divine Comedy non sono indicati in cima alla lista dei partecipanti, Hannon va in escandescenze sul palco e si accanisce verbalmente su chiunque gli capiti a tiro, in quella che presto degenera in bieca rissa da saloon (mancano soltanto il pianoforte honky-tonk e le scazzottate "sonore"...).

L'anno nuovo porta consiglio: nel 1992 John Allen subentra a Hannon come cantante, consentendo al leader di dedicarsi esclusivamente alla chitarra e limitare così i danni durante i live show. Vengono quindi pubblicati i due Ep "Timewatch" (registrato nel 1990, con Neil ancora alla voce) ed "Europop" (gennaio 1992), quest'ultimo animato da una sei corde che ha fatto tesoro dello stile secco e vibrante di Graham Coxon dei Blur, nuovo "idolo" di Hannon. Parte anche una serie di date come supporto a Suede e My Bloody Valentine, ma proprio quando sembra che le cose inizino a girare, puntuale arriva la stangata: ad aprile Traynor e McCullagh decidono di riprendere gli studi, mettendo così la parola fine alle vicissitudini della band. Un bel pesce d'aprile, non c’è che dire.
I primi, dimenticabili Divine Comedy terminano qui, con Hannon solo soletto a raccogliere le briciole di un sogno che pare già sfumato. Eppure il Nostro non si da per vinto: "Vedrai che tornerò, e quando lo farò avrò pronto un album fantastico!", grida a Cullen, incamminandosi verso casa. "Suonava quasi come una minaccia" scherzerà, col senno di poi, il boss della Setanta.

III - "I expect your father has been reading Dante…"

Nell'autunno del 1993 compare sugli scaffali della Tower Records un disco piccino picciò intitolato Liberation. In copertina la foto giallo limone di un ragioniere ingiaccato e incravattato, dai cortissimi capelli biondo platino e mastodontici occhiali da sole: la quintessenza delle sobrietà e dell'understatement, insomma, ma con un pizzico di snobismo tutto English che grida vendetta. È il nuovo - il primo, via - album dei Divine Comedy, per l'occasione rappresentati dal solo Hannon (il ragioniere di cui sopra) che produce, compone, arrangia e, salvo rare eccezioni, suona tutto il materiale proposto.
Come si è arrivati a questo brusco cambio d'immagine e, come vedremo poi, di musica? Semplice: Neil ha passato l'ultimo anno chiuso nella mansarda della casa dei suoi genitori, a "rigenerarsi" con dosi massicce di Scott Walker, Kraftwerk e Michael Nyman (in particolare le sue soundtrack per i lungometraggi di Peter Greenaway). È stata però colpa della pellicola di Merchant -Ivory "A Room With A View" se il titolare del marchio Divine Comedy ha maturato una così decisa sterzata dal suo ego precedente. "E. M. Forster ha cambiato la mia vita al di là di ogni immaginazione", ammette. "Senza 'A Room With A View' probabilmente non avrei scritto nulla di quel che ho effettivamente scritto. Dopo aver visto quel film divorai ogni opera di Forster, gettai il guinzaglio dell'indie-pop e mi accorsi di saper comporre musica. È stata una liberazione di nome e di fatto."

Più di trenta le canzoni concepite in quel prolifico isolamento (basteranno a riempire anche il successivo Promenade): tutte espressioni della nuova infatuazione di Hannon per la polifonia e un pop "kinksiano" denso di preziosismi strumentali (la sonata "Festive Road", l'organetto baggy di "The Pop Singer's Fear Of The Pollen Count", le sviolinate lacrimevoli di "Timewatching"), che non disdegna le Rickenbacker corrosive dei Jam ("I Was Born Yesterday", la graziosissima "Bernice Bobs Her Hair") ma non esita neppure a rinverdire i fasti del techno-pop alla Pet Shop Boys nel restyling del singolo "Europop", tutto synth inebetiti e chitarre gracchianti che, per chi non se ne fosse accorto, anticipano di sei mesi buoni i Blur di "Girls & Boys".
Ancor più evidente è l'appropriazione (indebita?) del gesto "nymaniano", ossia di quel suggestivo trait d'union fra minimalismo "sessantino" e barocco seicentesco, rivoltato in salsa popular e inserito nel continuum della tradizione dei canzonieri baroque. "Death Of A Supernaturalist", contraltare per quartetto d'archi e clavicembalo ben temperato, è uno dei primi esempi in questo senso; ancor meglio fa "Your Daddy's Car", il primo, grande classico dei Divine Comedy, patibolo agrodolce dal quale s'irradia una gioia segreta, scintilla che invade il cuore e ne aumenta esponenzialmente i battiti non appena "la chiave gira e si accende il motore". "Can you feel the sadness in our love? It's the only kind we're worthy of", confessa Neil alla complice della sua "tresca alcolica" destinata a concludersi in tragedia, mentre attorno a loro è tutto un gracidare di tastiere soffici come petali di panna montata e profumati ricami in jingle jangle: è il climax di un disco intimamente artigianale e a tratti ancora un po' confuso, ma senza dubbio importante, forse più per Hannon che per il suo pubblico.
La critica però gradisce l'uscita e, in qualche caso, applaude convinta: Stuart Clark della patriottica Hot Press (sostenitore piuttosto prevedibile, nevvero?) ne decanta le lodi con trasporto, concludendo che "se questo Lp venderà anche soltanto mezza dozzina di copie, sarà ugualmente un trionfo". Non ha sbagliato di tantissimo: nei primi sei mesi, Liberation di copie ne vende quattrocento.

Assai meglio farà, in termini commerciali, il successivo Promenade (Setanta, marzo 1994), vera e propria novelty in cui Nyman e Schubert si prendono a braccetto. Diecimila i pezzi smerciati di questa - invero un po' pedante - trasposizione musicale di un immaginario nouvelle vague ove confluiscono, con scarso senso della misura, citazioni "godardiane" da ogni campo artistico e letterario ("The Booklovers" è, in pratica, un elenco di scrittori illustri: da Gogol a James Joyce, da William Faulkner a Virginia Woolf, da Thomas Mann a Umberto Eco) e "costrizioni" architettoniche di frigida voluminosità. Il plot si prefigge di rappresentare una giornata, il 31 dicembre 1999, nella vita di due innamorati, ma alla fin fine resta uno zibaldone colmo di pretenziosità gratuite in cui si fatica a trovare un senso.
"Ho letto soltanto il 20% degli autori presenti nella lista di The Booklovers", confessa Hannon, "ma chi avrebbe potuto leggerli tutti? Ero preparato ai rimproveri del tipo 'Ah, pretenzioso!', ed è precisamente il motivo per cui ho fatto questa canzone e questo disco: sono il picco assoluto della pretenziosità, il fare di essa una forma d'arte. Stranamente, ciò non annoia i continentali, ma solo i britannici e gli americani." Beh, nulla da dire, purché dietro le ambizioni ci sia della sostanza; qui, invece, i brani memorabili si contano sulle dita di una mano che di dita ne ha tre: "Neptune's Daughter", condotta fra cataclismi espressionisti alla Marc And The Mambas, cori di sirenette e delicatezze da chansonnier, il John Cale riesumato nello schizzo pianistico di "Ten Seconds To Midnight" e l'altro classicone "Tonight We Fly", trotterellante bijou di un'epoca perduta, fra fagotti borbottanti e corni francesi da caccia alla volpe. Sarà pure un must per molti fan, questo Promenade, ma per chi scrive resta uno dei pochi articoli scadenti del catalogo Divine Comedy. Uno sbadiglio, detta come va detta.

Nel frattempo, Hannon deve vedersela col pubblico e inizia, in sordina, a dispensare saggi della sua bravura live. Le prime apparizioni lo vedono impegnato a chitarra acustica e tastiere, con l'ausilio di un violinista (Joby Talbot, suo collaboratore fondamentale da quel momento in poi) a tessere arricciate trame barocche in sottofondo. Sembrerebbe un azzardo, vista la natura tutt'altro che intimista delle prove in studio, e invece... Bingo! "Touched by the presence of the touched", sentenzia il recensore di Nme trovatosi in mezzo a un'orda di duemila spettatori in estasi durante la performance del duo al London Highbury Garage.
Parte anche un lungo tour europeo, come spalla a Tori Amos, che terrà occupato Hannon per tutto il 1994 e darà ai Divine Comedy un minimo di notorietà sul suolo continentale. Neil però vuole un gruppo tutto suo, non ci sta a essere una two-men band anche on stage. Come fare per rinfoltire la line-up? Ma naturalmente sfruttando l'appeal del più portentoso "fluidificante sociale" in circolazione! È giustappunto ai tavoli di un pub, con qualche decina di pinte scure a lenire la sete degli astanti, che Hannon recluta vecchi compagni di scorribande studentesche (il bassista Bryan Mills, prima impegnato nei "Lady Macbeth"), amici di amici (il chitarrista Ivor Talbot - nessuna parentela con l'altro Talbot - già militante nella defunta band di Mills, il coinquilino di Joby e tastierista Stuart "Pinkie" Bates,) e perfetti sconosciuti un po' brilli, come il batterista Grant Gordon, sostituito nel '96 dal venezuelano Miggy Barradas. L'affiatamento della formazione così assemblata - durerà pressoché invariata sino al 2001 - conferma una semplice ma profonda verità: i Divine Comedy andrebbero promossi a bignamino perfetto su come si (ri)costruisce una band. Grazie, Bacco.

IV - "What we have here? Mmm, a young lady…"

"Wake up, America!", esclama uno strafottente Damon Albarn dal podio dei Brit Awards, dopo i ringraziamenti per le ben cinque statuette vinte. Attorno a lui il pubblico è in visibilio: striscioni, tifo calcistico, fanciulle ancora in odore di latte che stringono al petto orsacchiotti a cuoricini, giornalisti dai taccuini in fiamme pronti a decantare le gesta omeriche dei nuovi "Fantastici Quattro" del pop anglosassone.
Sarà anche vero che il trattamento riservato al britpop, a distanza di anni, apparirà tutt'altro che benevolo (l'ingiusta punizione per la sbruffonaggine di molti suoi adepti?), ma nel 1994, quando il nostro Hannon se ne esce con le passeggiate neoclassiche di Promenade, il fenomeno è già da tempo sulla bocca di tutti e occupa le colonne del Sun come e più degli ultimi scandali occorsi alle teste coronate. Ecco quindi l'elezione di una manciata di band-simbolo (gli epocali apripista Suede, i "rinati" Pulp, le Elastica, gli immancabili Blur e Oasis) a fissare l'immaginario di una "cool Britannia" che, prese le distanze sia dall'ecstasy culture di Madchester che dal pallore anemico dei "fissascarpe", grida finalmente vendetta e spernacchia gli scapigliati grunger d'oltreoceano.

Al centro della ribalta, nutrite schiere di common people tornano a sentirsi importanti non grazie all'escamotage della dissociazione dal reale, com'era invece regola per i new romantic, bensì sublimandosi prodotto - e non immagine distorta - dell'"English way of life" così tanto osteggiato in passato. Una generazione di gente per nulla speciale che "beve, balla e scopa perché non c'è nient'altro da fare", che fantastica sulle proprie miserie con narcisismo misto a celata autocompassione. La normalità, oserei dire la banalità del gesto ridiventa all'improvviso motivo d'orgoglio: da "out" che erano, tornano "in" i barbecue in famiglia, le mini dalla carrozzeria Union Jack, i cartocci unti di fish'n'chips, i weekend di "non stop-fun" dopo una dura settimana di lavoro, e tutti gli altri piccoli e grandi riti della working class di cui proprio i Blur sono stati forse gli interpreti più fedeli.
Naturalmente c'è pure chi si pone in un'ottica "altra", e ciò basterebbe a sancire la molteplicità di manifestazioni del fenomeno britpop: vedasi l'attitudine arty e filosofeggiante degli stessi Pulp, il prodigio di megalomania freak dei Super Furry Animals, lo space-synth-glam vagamente favolistico dei Mansun, l'astrazione atemporale e asessuata della coppia Anderson-Butler. Il succo, però, resta uno: riaffermare la propria "inglesità" su tutto e tutti.

Orbene, in questo sfavillante regno della classe lavoratrice, che parte recita il nostro Neil Hannon? Nessuna, per ora. O meglio, le linee ispiratrici non sono nemmeno così antitetiche ("Liberation", in fondo, era britpop allo stato puro), ma il "Signor Divine Comedy" preferisce ostentare distacco e vanesio disinteresse per il carrozzone: "La maggior parte delle band attualmente in circolazione sono imprigionate negli anni 60. Io sono imprigionato in altre ere". Beffardo, il ragazzo. Poco credibile, ma beffardo. In realtà, quel 1995 universalmente considerato apogeo del fermento "brit" è per Hannon annata di lavori su commissione (scrive infatti le musiche per la sit-com di successo "Father Ted", poi confluite nella ballata folkie "Songs Of Love"), nonché di giornate trascorse barricato in sala di registrazione assieme al co-produttore Darren Allison, per dar forma al nuovo album. Le aspettative sono alte: la Setanta dà a Hannon carta bianca (leggasi: credito illimitato) e lui si prende tutto il tempo e i soldi necessari per far le cose a regola d'arte. Le session, suddivise fra tre diversi studi, si protraggono per otto mesi, coinvolgendo valanghe di musicisti e orchestrali (tutti da stipendiare, of course). Alla fine dei lavori, il preventivo si aggira intorno alle 100.000 sterline e Cullen, rianimato coi sali dopo quello che, a prima vista, aveva tutta l'aria di un collasso cardiocircolatorio, giura che se l'album non gli garantirà almeno la copertura delle spese, per quel biondino sarà la fine.

Casanova (Setanta, 29 aprile 1996) è l'operetta carnale, quasi un "Don Giovanni" (il disco avrebbe dovuto intitolarsi proprio "Don Juan") su misura per la gioventù britannica. Il commento sonoro alle gesta di un raffinato spaccone che - perdonate il provincialismo - visita la riviera e gioca al seduttore da strapazzo con le svedesi in fuga dalle loro "tristezze artiche". Unica differenza: all'ostentazione di nobili ascendenze alla "Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare", subentra la fiera appartenenza a una middle class sospesa fra "l'aristocrazia dello spirito" di Jarvis Cocker e il populismo cockney di un Damon Albarn appena svezzato al pop. Il risultato è un cinismo di proporzioni immani, galante concentrato di misoginia e fiero libertinismo. Quasi il diario di un Momus eterosessuale, appena più garbato e meno necrofilo. "In realtà, è da tempo che ho l'ambizione di scrivere un album con cui eccitarsi, ma il punto è che non avevo frequentato molto 'il settore', almeno fino ai primi due album", sghignazza Hannon. "Poi sono arrivati il tour di 'Promenade' e le avances di tutte quelle donne francesi... lì c'è stato il cambiamento, diciamo. In linea di massima ho sempre voluto scrivere canzoni sulla mia vita personale, soltanto che fino a oggi la mia vita personale è sempre stata troppo dannatamente noiosa per permettermelo!".
In mezzo a cotanta pruriginosa allegria c'è anche - e soprattutto - un disco splendido. Pure stavolta lo snodo è un concept e parimenti salva è la sofisticatezza art-pop raggiunta nel lavoro precedente, ma tutto scorre in modo assai più sciolto verso un deciso riallineamento brit-centrico, permettendo così a Hannon di coltivare un personaggio che è sunto e rielaborazione di pose appartenute ai suoi progenitori. Eccolo, novello James Bond alle prese con la (octo)pussy di turno, sorpreso a destreggiarsi fra wha-wha slabbrati à-la Curtis Mayfield, echi di spy stories targate Lalo Schifrin e goticismi cari a Peter Hammill (la stupefacente mini-suite "Through A Long And Sleepless Night"). Eccolo di nuovo, nipotino terribile di Burt Bacharach, far capolino a mani conserte fra i fischiettii di "Woman Of The World" e perfezionare, nella guerriglia glam-orchestrale di "Charge", il suo "cartoonesco" piano di dominazione del genere femminile. Omaggia poi il grande Serge Gainsbourg e il suo blatericcio erotico-esistenziale ("Middle Class Heroes"), ma lo fa in una cornice tutta anglofona, ondeggiante d'archi obesi, chitarrine soul, kitsch d'annata e proclami da crooner che per un istante si è scordato le buone maniere ("Elegance against ignorance! Difference against indifference! Whit against shit!"). Soltanto il finale "The Dogs And The Horses", opportunamente scisso dal resto dell'opera mediante i titoli di coda (la micro-soundtrack "Theme From Casanova"), rigurgita tutto il malessere finora abilmente dissimulato: se prima era Dorian Gray a parlare, ora passa il testimone alla sua immagine decrepita attraverso lo specchio, intenta a sciorinare il solito rosario di morte, fato crudele e mal de vivre. Il tutto non può non far pensare a un Jacques Brel chino sulla propria tomba, con l'orchestra levitante (arrangiata per la prima volta da Joby Talbot) a formare una cappa di nero cielo.

Le reazioni al disco sono tiepide, almeno finché la Setanta non inizia a estrarre qualche singolo (sacrilegio!) e farlo girare. Il primo è "Something For The Weekend" che, pompato a dovere dal Dj Chris Evans di Radio One, fa il botto (13° posto in classifica): mirabolante spremuta di motivi ornamentali, rullanti metronomici e ottoni generosi, il brano rappresenta in toto il "nuovo mondo" di Hannon, la sua (ri)scoperta del sesso e della viziosità. La spedita "Becoming More Like Alfie" fa poco meno ed è un peccato, perché il suo ipotetico interscambio fra lounge music e la mattacchioneria sorniona di un Ray Davies è, se possibile, anche più esaltante.
Le quotazioni in borsa di Hannon risalgono quando "The Frog Princess", crudele serenata scandita da una drum machine tutta bollicine, esordisce direttamente al n. 15 della chart britannica, col pubblico che, ancora una volta, premia l'arguzia verbale del Casanova d'Irlanda - qui volenteroso apprendista di Bryan Ferry - pronto a baciare la sua principessa-rospo solo per poi sezionarla durante l'ora di scienze ("I met a girl, she was a frog princess/ Yes, I do regret it now/ But how was I to know that just one kiss/ could turn my frog into a cow?").

Con l'attenzione dei media alle stelle, Hannon si getta nella mischia per lasciare il segno. La sua faccia da schiaffi comparirà sulle copertine di Nme, Melody Maker, Sounds e... nominate a caso una rivista musicale britannica e ci sarà. Nelle interviste gioca poi la carta del "seduttore per caso" a fronte di domande indirizzate per lo più a carpire dettagli della sua vita sessuale (proprio lui, che fino a pochi mesi prima era percepito quasi come "asessuato"!). Al di là di scherzi e battutacce, Neil tiene a mettere in chiaro come la sua sia soprattutto un'autoparodia: "Liricamente, il tema centrale dell'album è mettere in luce, attraverso la caricatura e il paradosso, la natura risibile del 'machismo' maschile". Il tutto sa di giochetto ben costruito e condotto a meraviglia, ma è anche merito di quest'astuta strategia promozionale se Casanova arriverà a vendere 60.000 copie in sei mesi e finirà fra i primi quaranta album del 1996 nella classifica di Melody Maker, oltre a essere eletto album dell'anno dai lettori di Q Magazine.

A consolidare il seguito dei Comedy, una spettacolare data allo Shepherd's Bush Empire di Londra (20/10/1996) dove la band si fa accompagnare dai trenta elementi del Brunel Ensemble: primissimo (e riuscitissimo) tentativo live di vestire di "sinfonismo" - evitate, se possibile, parallelismi con New Trolls, Procol Harum e Moody Blues - la silhouette permeabile della loro musica. Poi ancora tour in terra inglese come spalla a Radiohead, Supergrass e Gene; ma anche in Francia, come headliner, onde meglio godersi le attenzioni delle assatanate fan transalpine e confermare il proprio status di band "divina" di nome ma, nei fatti, quantomai lontana dal concetto di santità. Hannon però replica a queste malignità con l'innocenza del pupo a cui perdoneresti qualsiasi cosa, anche la più eclatante delle sconcezze: "Al costo di sembrare un po' idiota, il vero significato del nome del gruppo è quel che adesso sto cercando di mettere su disco: ossia la battaglia fra sacro e profano che perdura in ciascuno di noi. Tutti aspiriamo a essere monaci, ma al tempo stesso vogliamo, ehm... fare i birichini, mi sono spiegato?". Altroché, signor Hannon. Altroché.

Le canzoni che trovo più interessanti toccano temi abbastanza insoliti. Anche se scrivi d'amore, devi arrivarci da una strana angolazione. Devi catapultarci dentro gli ascoltatori con qualcosa che arrivi a confonderli.
(Neil Hannon)

V - In heaven everything is fine

Neil Hannon - Divine ComedyIl concerto allo Shepherd's Bush Empire, oltre a coronare un'annata di per sé magica, è una ghiotta occasione di rivincita per i Divine Comedy: ben duemila gli spettatori accorsi in luogo della dozzina scarsa contata ai tempi dei Cherry Orchard, e tutto nel giro di soli (!) cinque anni. Come se non bastasse, la seconda parte dello show viene utilizzata per "rodare" una manciata di canzoni nuove di zecca, contraddistinte da una delicata, ironica e per nulla indigesta patina di sentimentalismo. Saranno proprio questi sei brani (più la revisione di "Timewatching") a costituire la scaletta di A Short Album About Love, registrato live durante il soundcheck pomeridiano allo Shepherd's - in realtà le parti vocali saranno reincise in un secondo momento - e pubblicato, con perfetto tempismo, il giorno di San Valentino del 1997.
Se "Casanova" era un'ode al sesso "di classe" (non nel senso di "raffinato", ma di "classista") o, in alternativa, l'equivalente di un idromassaggio afrodisiaco con "Svezia, Inferno e Paradiso" di Piero Umiliani a far da sottofondo, su A Short Album About Love i sensi si purificano nelle acque di un cantautorato orchestrale sempre più volto a guardarsi dietro le spalle con pacatezza e (udite, udite...) decoro. Ecco l'amor cortese che vince la lussuria, il puritanesimo che scaccia i peccati della carne. Pure Hannon, ora con barba e baffi, non è più lo stesso: al crooner sottilmente depravato subentra un trovatore medievale, nobile cavaliere pronto a difender di spada la virtù della sua dama. Non pensiamo però a un ravvedimento completo, ché qui dei dilemmi morali di un Kieslowski (esplicitamente omaggiato nel titolo) non v'è traccia; piuttosto un tuffo nei colori tenui, l'appassimento delle forme a fronte di una ritrovata sobrietà interiore. E il disco, va detto, funziona a meraviglia. Almeno tre i capolavori assoluti, più altri quattro brani di poco inferiori: tanto basta per cavarci fuori un 8 tondo tondo, se ancora ricordo come si fa di conto.

"Everybody Knows (Except You)" ruba il giro armonico a "Can't Get It Out Of My Head" degli Elo e su di esso imposta una di quelle melodie in grado di conciliarti col mondo (una semplicissima scala ascendente, addobbata dai coretti "bacharachiani" e i pa-pa-pa-pa stesi lungo l'asse da stiro, a bramare il vapore caldo degli archi), sottraendoti all'antica disarmonia. "If" prende invece in prestito titolo e impostazione dei versi dal Roger Waters di "Atom Heart Mother" per imbastire la love song anticonvenzionale per antonomasia. Se infatti il disegno armonico è un soffuso planare fra Neil Diamond e il miglior John Lennon solista, il registro lirico passa con sconcertante abilità dall'elegiaco al maniacale ("If you were a tree I could carve my name into your side and you would not cry, because trees don't cry"), sostando più volte nel farsesco ("If you were a horse I'd clean the crap out of your stable") e capitolando con uno dei versi più crudeli che un poeta abbia mai dedicato alla propria amata: "If you were a dog I'd feed you scraps from off the table, although my wife complains" (sublime, no?). Un improvviso moto di paranoia, sottolineato dal dissonante crescendo orchestrale - come una "A Day In The Life" elevata all'ennesima potenza - deturpa il finale e tronca ogni ragionevole tentativo d'analisi o di riconciliazione melodica, lasciando un gigantesco punto interrogativo su uno dei capolavori dell'intero decennio 90.
Per la nuova versione di "Timewatching" (brano già apparso su Liberation), Hannon chiude a chiave il minimalismo nello sgabuzzino e confeziona un lied post-romantico che neanche il Mahler "cameristico" dei "Kindertotenlieder" avrebbe orchestrato con più parsimonia e sentimento. Ora la metrica è elastica, non più l'orologio a cucù, e si distende e si ritira a seconda dell'incidere del canto, qui vagamente nasale di Hannon (forse la sua performance più magistrale). Emergono, una a una, le voci dell'ensemble, seguendone i moti ombrosi e accentuandone le ellissi, per poi sfaldarsi nel "pieno" come kamikaze ebbri d'amore, mentre da dietro le quinte, il fantasma di Nat "King" Cole s'arrabbia di brutto a sentire quel diavolo d'un irlandese che storpia a piacimento i versi della sua "When I Fall In Love" e li appiccica a un nuovo spartito. La qui presente "Timewatching" è l'essenza, il distillato di tutte le torch song scritte dall'umanità. Inarrivabile.
Come anticipato, questi soli tre pezzi meriterebbero d'esser valutati fra le più alte creazioni pop d'ogni tempo. Mezzo gradino sotto (ma solo mezzo, eh...) stanno il romanticismo noir di "Someone", impiastricciato degli archi sbrodolanti dei Tindersticks e chitarra twang, il tripudio cavalleresco (con echi di flamenco) di "In Pursuit Of Happiness", i Blue Nile virati baroque in "I'm All You Need" e, soprattutto, la bossa sorniona "If I Were You (I'd Be Through With Me)" addolcita dal "pio-pio" dei legni, pulcini bagnati che singhiozzano.

Sospinto dal clamore generato da Casanova, A Short Album About Love entra immediatamente al 13° posto della classifica britannica, ricevendo critiche a dir poco entusiastiche. Fra gli applausi a scena aperta ristagna, però, qualche dubbio, soprattutto in merito al mutamento di prospettiva lirica del leader: "Ma Hannon è il verme da strapazzo di 'Casanova' o il fine corteggiatore che troviamo qui?", si chiede perplesso il recensore di Nme. Impossibile rispondere, e probabilmente inutile; se è vero, come insegna Freud, che gli irlandesi sono l'unico popolo che non può essere psicanalizzato poiché "troppo incline alla fantasia", allora meglio chiudere un occhio e interpretare questo (relativo) voltafaccia come l'ennesima sfida, il perpetuo desiderio d'assorbire ogni istanza ancorché fasulla o improponibile sulla carta.

E quale sfida più ambita per Hannon del collaborare con Michael Nyman, sua antica fonte d'ispirazione? Leggenda narra che già nel 1994, dopo un concerto londinese del compositore, Neil gli abbia passato una copia di Promenade, premurandosi d'avvertire: "Ecco, questo è il mio disco. Se vuole farmi causa, qui c'è l'indirizzo". Nyman, intervistato nel '97, afferma di non ricordarsi dell'accaduto (e questo la dice lunga su quanto l'abbia ascoltato, quel disco), ma di apprezzare la musica dei Divine Comedy e voler lavorare a qualcosa con Hannon. Questo "qualcosa" si concretizza in tre "concerti edimburghesi" in cui la band e il quartetto d'archi del Maestro, fianco a fianco, saccheggiano con grazia i rispettivi repertori ("Your Daddy's Car" cantata dal soprano Hilary Summers sembra una goduria...) e concludono sfoggiando l'inedita "Grizzly Knife Attack", scritta a quattro mani dai due capibanda.
Di tutt'altro spessore sarà la scelta di fare comunella con Robbie Williams - conosciuto al party di presentazione per "Twentieth Century Blues", l'album-tributo a Noel Coward - e supportare il suo tour post-"Millennium" nel 1999, ma ormai è chiaro che Hannon le sfrutta tutte pur di divulgare il suo verbo alle genti. Ciò non significa che la sua arte vada confusa col bieco mercantilismo, giacché si sarebbe davvero fuori strada: "Non c'è stato un solo, isolato momento nella mia vita creativa in cui abbia composto una canzone apposta per ottenere successo", spiega. "C'è un'unica ragione che mi porta a creare musica ed è scrivere il miglior pezzo che le mie capacità mi consentono. È però altrettanto ovvio che, quando arriva l'ora di vendere quella canzone, farei tutto ciò che rientra nei confini della realtà per venderla. È una parte del mio lavoro: devo fare soldi per me, per la casa discografica e per la mia band". Senza peli sulla lingua, il nostro poeta dei ceti medi.

VI -  Intontimento, morte e pubblici trasporti


Alla fine del 1997, Casanova viene finalmente pubblicato negli Stati Uniti (sul primo singolo "Casanova 1" figurerà pure una deliziosa cover di "Love Is Lighter Than Air" dei Magnetic Fields), ma in Europa Hannon è già due passi avanti, avendo da poco messo mano al successore di A Short Album About Love. Le indiscrezioni che circolano sono piuttosto vaghe, ma si suppone che il disco segnerà l'ingresso di tematiche ancor più "impegnate" (urgh!) nel conciliabolo pop dei Comedy. I sospetti vengono confermati dalla pubblicazione di Fin De Siècle (Setanta, 31 agosto 1998), il loro album più osannato e venduto sino a quel momento ("A record dangerously close to being a masterpiece...", sentenzierà Melody Maker), non plus ultra di un curriculum vitae che consente al gruppo di presenziare, in qualità di mattatore, al festival estivo di Glastonbury.

Al tempo della sua uscita ricordo d'averlo approcciato con sommo timore. Del resto, già dal titolo viene spontaneo figurarsi un'overdose di lamé mitteleuropei ormai incartapecoriti; ma se a ciò s'aggiungono riflessioni sulla "fine del tempo" pronunciate a quattr'occhi con Charles Baudelaire, squarci di epos "jarmaniani" e sentori biblici di Armageddon, allora non resta che accendere un cero a San Patrizio e sperare che almeno il tutto stia alla larga dall'intellettualismo posticcio di Promenade. Stavolta, con sommo giubilo, le preghiere paiono esser state (parzialmente) esaudite: seppur ingolfato di concettualismi e ottenebrato dal timore di non trovare alcunché oltre il traguardo "cristiano" della storia, il disco si dimostra un sorprendente inventario di pot-pourri canzonettistici, come al solito oscenamente in bilico fra acutezza e cliché.

Si comincia con "Generation Sex" (il primo singolo, balzato agli onori delle cronache per il suo sprezzante cinismo sulla morte di Lady Diana), un up-tempo Motown abbellito da riccioli d'arpa e pizzicate di clavicembalo, ma subito si precipita nella schizofrenia di "Thrillerseeker" e in quel suo mescolare rifferama hard (echi degli Alice In Chains mi rimbalzano prepotenti nel cervello, non chiedetemi né come né perché...), vertigini space-rock e le partiture di un John Barry, finendo con l'assomigliare a certe visioni sci-fi dei Mansun. Da lì alle movenze da panzer di "Sweden" (Wagner über alles) il passo è breve, e ancor più prossima è la deriva emozionale di "Commuter Love", il cui delicato corpo di ballad è ripetutamente deflorato da intermezzi percussivi e chitarre "frippianamente" isteriche.
Il lasciapassare per le classifiche (un 6° posto nella chart nazionale: in assoluto il più alto piazzamento di Hannon) qui si chiama "National Express", locomotiva di cori kraftwerkiani passati al vocoder e flauti "swinganti" (una big band "dixieland" catapultata a Broadway durante una puntata di "Futurama"?), anche se la crème de la crème restano gli otto minuti di "Eric The Gardener", assurda ipotesi di techno orchestrale, con gli strumenti acustici a ricalcare gli idiomi di Detroit: grancassa in quattro e charleston sincopati, gli svolazzi degli archi a perdersi fra le volute celesti, i rosei vagiti di synth. Un improbabile quanto esaltante incrocio fra Carl Craig ed Ennio Morricone, nonché una delle cose più "sperimentali" presenti nel catalogo Divine Comedy.
A partire dalla settima traccia, però, qualcosa s'incrina. Forse è colpa del co-produttore Jon Jacobs (scelto per il suo lavoro con Jeff Lyne degli Elo), fino a quel momento peraltro efficace nello snellire le adiposità in eccesso; o forse nemmeno lui può tenere a freno la megalomania di Hannon, chi lo sa. Fatto sta che dagli ultimi quattro brani emergono pomposità davvero gratuite: tipo la banale chanson "Life On Earth", le ingombranti masse corali di "Here Comes The Flood" e la moscia - nonostante il Viagra di una produzione alla Bob Erzin - "The Certainty Of Chance". La stessa "Sunrise", a sorpresa il pezzo più gradito dai recensori britannici, resta una ballata appena passabile, lontana anni luce dai vertici di pathos toccati nell'album precedente.

Malgrado tutto, il triangolo (oops) è ora perfetto: si è partiti dall'operetta buffa (Casanova) e passando per la commedia amorosa (A Short Album About Love) si è giunti senza colpo ferire alla tragedia ("cyber-shakesperiana", nel nostro caso). Un itinerario sintomatico di un tedio fin troppo "manierato", con gli stilemi decadenti a sovrastare i contorni pastello e l'acciaio a far da telaio a un cuore prima avvolto da seta e organze.
Fin De Siècle è una pulsazione glaciale da cui si spande un metallico senso di estraneità. Un "Ok Computer" composto utilizzando il linguaggio di chi al pc preferisce la macchina da scrivere (per non dire la penna d'oca) e all'mdma antepone l'assenzio: stesso malessere, differente modalità estrinsecativa. Da leggersi in questo senso anche la collaborazione con la cantante teutonica Ute Lemper, per cui il dream team "Hannon & Talbot" scrive materiale e partecipa alle registrazioni dell'album "Punishing Kiss": un modo strampalato per resuscitare il cabaret della Repubblica di Weimar e sposarlo alla cialtroneria di Las Vegas, after all. Ma Fin De Siècle è, soprattutto, il punto di non ritorno per i Divine Comedy. Quasi il loro (nostro) funerale, ma un funerale da cui è possibile ritornare a vivere. Perché se è vero che l'Apocalisse è giunta e ha fatto piazza pulita, ora è davvero tempo di ripartire. Di rigenerarsi.

VII - "Be Kind Rewind"

Neil Hannon - Divine ComedyFortunatamente, la rigenerazione di Hannon non si traduce in flirt col buddhismo o inflazionatissimi viaggi in India: a lui non serve altro che la musica e la famiglia - nel settembre del '99 le nozze con la fidanzata Orla Little - per ritrovare se stesso. Accanto alla stabilità negli affari di cuore, l'oroscopo prevede grandi mutamenti in campo lavorativo: primo fra tutti il cambio d'etichetta, essendo i Comedy divenuti ormai ingestibili dalla "piccola" Setanta. È la Parlophone ad aggiudicarsi il lotto, ma prima di salutare il suo pupillo il volpone Keith Cullen non perde l'occasione d'ammucchiare singoli più due mediocri inediti ("Gin Soaked Boy" e "Too Young To Die") per confezionare A Secret History (Setanta, 30 agosto 1999), pregevole ma troppo succinto riassunto di sette anni trascorsi alla ricerca del Sacro Graal della perfetta pop song. La nuova "Too Young To Die" ha forse il testo più rivelatore di quelle che sono le priorità dell'ex-casanova in questo momento della sua vita: "I must break free from that part of me/ that values the art over the humanity". Cosa cosa? Ma che scherza? Gettare all'aria così il lavoro di anni e anni passati a estraniarsi dalla realtà, recluso in un magnifico scenario di cartapesta? Mah, questa gioventù...

A essere sinceri, l'irlandese ha in mente un piano. Il succo? Tornare alle radici, ma stavolta Scott Walker e gli chansonnier c'entrano come i cavoli a merenda. Hannon guarda ancora più indietro, a quando i Divine Comedy suonavano "come una band", ruvidi e privi di orpelli. Inutile sottolineare quanto i Radiohead siano stati decisivi nel fargli maturare questa svolta, specie se si considera che il produttore ventilato è proprio Nigel Godrich, il fachiro responsabile dei suoni di "Ok Computer". Le malelingue, ovviamente, si sprecano: c'è chi dice che Hannon abbia fiutato, da fine segugio, l'aria che tira e si sia comportato di conseguenza, prendendo la tangente per Oxford; chi ancora lo definisce un "venduto", a fronte del suo nuovo look trasandato (capelli lunghi, t-shirt e jeans) in verità più artefatto del ciuffo di Cristiano Malgioglio; infine, c'è chi dice no, come il sottoscritto.
Tolte infatti le più che plausibili analogie con la band di Thom Yorke, Regeneration (Parlophone, 2001) resta opera fascinosa, vieppiù personale laddove a farsi strada fra i solchi sono proprio rimembranze celebri (oltre ai "radioheadismi" sparsi un po' ovunque, la marmorea "Dumb It Down" e il suo "Is there anybody out there?" di watersiana memoria, o il neo-glam alla Suede di "Bad Ambassador"). A dirla tutta, più che donare ai Divine Comedy le fattezze di una vera rock band, il disco segna il consolidarsi di Hannon come songwriter dalla penna troppo ispirata per concedersi passi falsi o, al contrario, restare imbrigliato nel filo spinato di una "coerenza stilistica" francamente non necessaria (e quando mai lo è stata, in fondo?). In qualunque contesto lo si metta, questo qui fa la sua porca figura. Non è poco.

Parlando d'estetica produttiva, l'idea guida dell'album è semplice: isolare pochi strumenti da tenere in primo piano e lavorare di fino sui fondali, sfumandoli fino a renderli vaporosi e dreamy o, al contrario, decisamente plumbei. Un processo di epurazione che, manco a farlo apposta, finisce per raggiungere livelli di barocca sottigliezza, purezza cristallina ma come striata da asperità post-apocalittiche (tastiere spigolosamente new wave, bordoni di feedback, punteggiature di drum machine e roba così). "Note To Self" - forse l'unico brano dei Comedy ad avere qualche attinenza col concetto di groove - è esemplificativo, in questo senso: nient'altro (si fa per dire) che un filo di basso e batteria da cui penzolano grappoli di chitarre smitshiane, collanine di gorgoglianti synth sbucati direttamente da "Ghost" dei Japan, riverberi siberiani come calzini inamidati, improvvise convulsioni elettriche e found sound (nello specifico: rumori da una partita di ping pong).
Non tutto il disco, però, rimane sugli stessi livelli d'eccentricità. Il grosso di Regeneration è infatti composto da livide ballate, per lo più (acoustic) guitar-driven, alveari post-floydiani colanti dolce e contagioso dolore: "Timestreched" e il suo lento "svelarsi" a suon di glockenspiel e arpeggi acustici, la circolarità quasi ossessiva di "Lost Property", il lamento (anti?)liturgico "Eye Of The Needle", una "Mastermind" che, fra tamburi spazzolati e ombreggiature di pianoforte, trova per una volta il conforto degli archi. Fuori dal coro, il ritornello sunny di "Love What You Do" (scelta giustamente come primo singolo), la potabilissima "Perfect Lovesong" (normale amministrazione, per uno come lui...) e l'elegiaca "The Beauty Regime", dalle quali trapela un minimo di fiducia - non si sa quanto sarcastica - per il futuro.
Del resto, è proprio l'immediatezza disarmante delle liriche, quasi la telecronaca di un cuore che si mette a nudo, a lasciare ammutoliti. Se rigenerarsi corrisponde ad acquisire coscienza di sé e degli altri, scontrarsi con l'appiattimento delle prospettive ("Every pupil in the classroom will answer the same if you ask them/ Every mouth shout the message out as one (...)/ Every nose is a vacuum cleaner in the loved-up London arena/ Every eye flies a dollar sign for me", da "Mastermind") e con l'incubo di quel "pensiero unico" oggi più trendy che mai, allora di Hannon tutto può dirsi fuorché non ci abbia davvero provato. Il suo smarrimento, anzi, lo accomuna a chiunque si sia trovato, per un volta, innanzi a un "mondo vecchio visto con occhi nuovi", disorder curtisiano di fronte al quale è primario sentirsi rassicurati, avere la certezza di poter tracciare una corrispondenza d'idee e sentimenti con i propri simili ("Tell me that I'm normal and tell me that I'm sane/ Tell me that you feel this too...").

Sfortunatamente - o anche no, visti i fasti artistici del futuro prossimo venturo - la messa in mostra di tanta vulnerabilità non sortisce gli effetti sperati e il disco, nonostante l'esordio alla quattordicesima posizione nella classifica inglese, non raggiunge le vendite sperate (il terzo singolo "Perfect Lovesong" non riuscirà neppure a entrare nella top 40); non c'è da meravigliarsene, visto l'atteggiamento con cui i fan più intransigenti - che adorano Hannon proprio perché non è "rock" - avevano accolto siffatto cambio d'abito e di sonorità. La sua contromossa, a questo punto, è semplice: terminare il tour europeo e, a novembre, sciogliere la band. "Mi sono semplicemente accorto che l'intera faccenda non mi divertiva più come prima", dirà, presumibilmente rammaricato. "Mi mancava la libertà che avevo ai vecchi tempi e sentivo che stavo annacquando le mie idee per far felici gli altri. Non era un grosso problema, non ci stavo perdendo la testa e la band avrebbe potuto tranquillamente tirare avanti in quel modo, garantendosi un discreto successo; purtroppo la vita è troppo breve per trascorrerla sopportando. È stato terribile dover fare una cosa simile ai propri amici, ma credo d'aver preso la decisione più giusta per tutti".

Non la racconta giusta nemmeno stavolta... Fatto sta che il gruppo si sfalda (ho una strana sensazione di dejà vu, voi no?) e, com'era accaduto quasi dieci anni prima, Hannon rimane di nuovo solo. Anzi, no: Talbot gli resta fedele, e già questo è un grosso passo avanti. "Poco male", avrà pensato il boss, "mica me ne faccio niente di una band, oggi come oggi. Troppi dividendi da spartire e poche soddisfazioni". Si torna perciò ai giorni di Liberation, a calcare i palchi con il compare Talbot e, dopo anni di un europeismo persino patologico, visitare per la prima volta il Nuovo Continente in supporto a Ben Folds. Non che questa insolita apertura agli States abbia improvvisamente trasformato Hannon in cosmopolita: proprio nel 2002 fa le valigie e si trasferisce con la famiglia da Londra a Dublino, nell'entroterra irlandese. Voglia di tornare alle proprie origini e non lasciarsi corrompere dalla mondanità? Pare proprio di sì, ma mettiamoci anche l'ansia paterna di far crescere l'appena nata figlia Willow Mary Erin in un ambiente quanto più simile al tenero e principesco mondo di sogno a lui donato da papà Brian, piuttosto che nel caos metropolitano che i sogni te li scippa non appena abbassi la guardia.

La gestazione del nuovo album si protrae per tutto il 2003, fra le sale di Abbey Road e quelle dei Konk Studios, sempre a Londra. Pochi gli interventi esterni (persino Godrich viene retrocesso al missaggio): la vocalist Lauren Laverne, il fisarmonicista Yann Tiersen (quello de "Il Magico Mondo di Amélie", per intenderci), Rob Farrer e il ritrovato Miggy Barradas a batteria e percussioni. Per il resto solo Hannon, Talbot e l'orchestra. Un metodo di lavoro che sembra rendere al meglio, giacché sprona l'autore ad autoprodursi e cimentarsi - come ai bei tempi - con tutti gli strumenti che gli capitano sotto mano. I risultati? Che dire... Saranno gioie, saran dolori. Saranno undici capolavori.

VIII - Dell'Universo Assente

220x270_iv_14Dieci canzoni neo-baroque pop d'inarrivabile perfezione e ardimentosa creatività, con in più uno strumentale come "Laika's Theme" che, nel suo ricamare i fiorellini "folktronici" di Colleen sulla tela elettronica di Vangelis, ti stringe il cuore in una morsa e non vuol lasciarlo più: questo è Absent Friends (Parlophone, marzo 2004), ottavo album di studio dei Divine Comedy, ormai un moniker per i soli Hannon e Talbot. Sorprende, oltre all'accoglienza freddina della stampa (della serie: "Oh no! Riecco l'orchestra, Scott Walker e tutta quella roba lì..."), la modestia che il neo-papà sfoggia nelle interviste, quasi a voler ribadire che i giorni della frenesia promiscua di Casanova se ne sono andati per sempre. "Il mio scopo è soltanto quello di creare una risonanza emotiva con l'ascoltatore", dice ora. "È piacevole apparire intelligenti, ma certo non è la mia raison d'être. Con 'Absent Friends' volevo soltanto fare qualcosa di bello, che suonasse bene nel mio stereo mentre sono seduto accanto al caminetto acceso, con un bicchiere di sherry in mano e un labrador accucciato ai miei piedi".
"Qualcosa di bello"?! Absent Friends è uno dei tre-quattro album pop più importanti del decennio, checché ne dicano i detrattori. Un disco dai contorni merlettati di preziosi, cattedrale le cui volute rococò non danno la nausea ma, anzi, suggeriscono una serena ricchezza; opera splendidamente avulsa dal suo tempo, e che proprio per questo lo rappresenta, incastonandolo nella classicità. Il sound è ormai qualcosa di estremamente peculiare: una forma di pop barocco sui generis, con Talbot che "dipinge" l'orchestra come un Michelangelo del pentagramma e Hannon che plasma suoni, cesella timbri (si odono manipolazioni elettroniche quasi in ogni brano), compone con la grazia di un autore ormai classico e, ciliegina sulla torta, canta con una delle voci "impostate" più intense che sia dato sentire da eoni.

Idealmente, Hannon dialoga con un universo distante fattosi proiezione di sogni e illusioni, un passato ideale a cui riconnettersi e in cui cercare conforto. Brulicano così i personaggi, le storie fittizie deputate a svelare questo o quel tratto del nostro uomo: il bambinello e il suo amico immaginario, la "darkettona" felice che non parla con mamma e papà, l'uomo d'affari che, moderno Ulisse, attraversa i sette mari per presenziare alla partita di baseball del figlio. Eppure è qui che si realizza la vera rigenerazione dei Divine Comedy, non nel disco precedente; poiché quello troncava sbrigativamente un discorso che invece Hannon doveva perfezionare: Absent Friends restaura la continuità (musicale e concettuale) pur suonando "diverso", e così facendo riaccende davvero la speranza per una nuova alba (la sunrise bramata in Fin De Siècle).
Tutto nella title track è predisposto per sublimare l'epicità del gesto, a partire dall'incipit di corno francese che apre lo scrigno dei ricordi e dà il via alla sarabanda di nomi ed eventi. "Ai giorni felici che pensavamo non finissero mai!", brinda Hannon, con un calice di brandy invecchiato - come lui - e una tavolata di ospiti illustri: Steve McQueen, Oscar Wilde, Jean Seberg, la cagnolina Laika (lei si sarà accontentata di una ciotola sul pavimento, immagino), tutti eroi d'infanzia qui eletti a vittime sacrificali, idiomi destinati a soccombere nel "faccia a faccia" col mondo reale. Martiri come il glorioso vascello di "The Wreck Of The Beautiful", condotto con mestizia al macero in un alone di mito e sonorità ardite: scarnificazioni acustiche e pianoforte preparato per le strofe (viene in mente la musica "tintinnabulante" di Arvo Pärt abbinata a "Moonchild" dei King Crimson), un 78 giri operistico nel grammofono per ritornello, e un finale nebuloso, illuminato da quell'ultimo suono di fagotto che, deformato al mixer, pare proprio il lamento dell'imbarcazione, inghiottita dalle fauci dell'oceano. Però non c'è pesantezza, né sproloquio: tutto resta incorporeo, volatile, appiccicosamente lugubre.
Tutti i brani, presi singolarmente, tolgono il fiato: "Sticks & Stones" e le sue serpentine d'archi alla Bernard Hermann; gli irresistibili coretti fifties di "Come Home Billy Bird", quasi un David Bowie che "agisce" secondo le direttive di Phil Spector; l'infanzia raccontata in punta di piedi nella superba vignetta per chitarra acustica, dobro e rhodes di "My Imaginary Friend", tableaux vivent leggero e commovente come un cielo di carta di zucchero; le infinite, indicibili invenzioni melodiche di "The Happy Goth" ("il" brano pop degli ultimi dieci anni?) che parte come un salmo acustico di Louis Philippe, subito si fa elegante bossa etno-jazzata e, sintonizzati gli archi sulle frequenze seventies degli Chic, approda a un ritornello fra i più memorabili di tutta la storia della musica popolare.
Altri sono poi i "buchi neri" che inghiottono armi e bagagli, proiettando la materia sonora verso nuovi lidi di tensione e organicità. In primis il supremo minimalismo orchestrale di "Our Mutual Friend", la cui banale love story di una notte "brava" custodisce invero l'intera gamma delle emozioni umane: dall'ossessione al momentaneo appagamento, dalla gioia improvvisa che scaturisce dal condividere un pezzetto di "vissuto" ("We played old 45's/ I said 'it's like the soundtrack to our lives'/ And she said 'true, it's not unusual'") all'impossibilità di vivere l'attimo, fino al tradimento e l'inevitabile abbandono ("I woke up the next day, all alone but for a headache/ I stumbled out to find the bathroom/ but all I found was her, wrapped around another lover/ no longer then is he our mutual friend). Non dimentichiamo poi una "Freedom Road" che fotografa Lee Hazelwood mentre fa l'autostop sull'autobahn elettronica dei Kraftwerk (grande, grande, grande...), né quella "Leaving Today" talmente alla Scott Walker da essere una delle canzoni più personali di Hannon: gli archi statici, a mo' di bordoni fluttuanti nello spazio, la chitarra classica che sgocciola sul pavimento come un rubinetto che perde, il vigliacco basso-baritono pronto ad andarsene alle prime luci dell'alba, col taxi che già aspetta sotto casa... Una specie di "(S)He's Leaving Home" raccontata in prima persona; solo che stavolta a fuggire dal tran tran familiare non è l'adolescente cotonata dei sixties perché stufa dei suoi "vecchi" ma un triste uomo di mezz'età, forse in preda alla crisi del settimo anno e ormai rassegnato a non trovare uno spazio a sua misura.
Quella della conclusiva, filosofeggiante "Charmed Life" (dedicato alla figlia) è invece una scheggia di music-hall preso per le orecchie, cadenzato a lullaby e stemperato con un rag-time dimezzato nella velocità, fino al finale "Nino Rota meets Judy Garland" con big band, pagliacci, acrobati, tigri che saltano in cerchi di fuoco, il cavallo Henry che balla il valzer e chi più ne ha... Ma quando la baraonda si spegne, allora resta una manciata di secondi in cui il disagio torna a farsi palpabile, come il sorriso beffardo d'uno spettro che ha tentato d'illuderci con uno spettacolo ingannevole, essendo "il vivere" concetto di ben più arduo - e vacuo - intendimento. Scoppia il pianto, e non ha senso trattenerlo. Un vero trionfo.

Così come trionfale è lo spettacolo che Hannon porta in giro per l'Europa nel corso del 2004, accompagnato da un ensemble di quindici elementi, un sacco di pazienza e la solita, impareggiabile showmanship a guidarlo sul palco. A finire su Live At The Palladium (uscito il 25 ottobre), primo e finora unico Dvd dei Divine Comedy, è giustappunto il report dell'esibizione nella mitica sala concerti londinese, anche se il vero botto lo fanno due performance tenutesi rispettivamente al Les Folies Bergere di Parigi e alla londinese Royal Albert Hall, entrambe sold-out. D'altronde, con del materiale come questo, Hannon vince facile. Troppo è infatti il fardello di emozioni che Absent Friends si porta appresso: archeologica tenerezza, il peso del rimpianto, l'idea del tempo che "scorre lungo i bordi" e di cui si cerca invano di prendersi gioco, eludendo il ticchettio o posizionando le lancette dell'orologio a proprio piacimento ("Laika's Theme" da qui all'eternità). Vince, nonostante tutto, la positività, finalmente la vita nuova. Perché se anche gli amici sono "assenti", Hannon c'è. Non si sa per quanto, ma resiste. E, fra un bicchiere e l'altro, ha pure trovato il tempo per consegnare ai posteri il suo testamento artistico. Applausi.

IX - La Musa (tragi)comica

Neil Hannon - Divine ComedyFra un impegno e l'altro, l'agenda 2005 di Hannon s'infittisce e, a malincuore, i Divine Comedy finiscono nel ripostiglio in attesa di nuovo ordine. Non è certo tempo sprecato, vista la mole di collaborazioni e progetti paralleli in cui il Nostro va ad imbarcarsi: due brani composti per la colonna sonora del blasonato "Guida Intergalattica per Autostoppisti" (interamente di Joby Talbot il resto della soundtrack), altri donati alla rediviva Jane Birkin e a sua figlia Charlotte Gainsbourg, altri ancora messi nella dispensa in previsione dell'inverno. Accarezza persino l'idea di metter mano a un album di cover, ma poi ci ripensa e, contro ogni previsione, propende per un nuovo album dei Comedy, stavolta senza l'aiuto di Talbot. Mette quindi assieme un gruppetto di collaboratori (l'ingegnere del suono Guy Massey, il bassista Simon Little, il chitarrista John Evans, il pianista Andrew Skeet, il batterista Tim Weller, il percussionista Rob Farrer) e prenota lo studio per appena due settimane di registrazioni quasi live (!) con tecnologia analogica (per qualche tempo si prefigge di non usare nemmeno cuffie e metronomi... Buonanotte!). Ne viene fuori un altro signor disco che, inevitabilmente, paga lo scotto di seguire un colosso come Absent Friends, ma riesce a splendere di luce propria.

Victory For The Comic Muse (Parlophone, 19 giugno 2006) è altresì un'opera frammentaria, deliziosamente imperfetta ed eterogenea, in cui trovano spazio la filastrocca robotica alla Brian Eno "To Die A Virgin" e il country surreale di "Mother Dear", il menage a trois fra pianoforti di "Threesome" e un bozzetto come "Arthur C. Clarke's Mysterious World" che ammassa fanfare orchestrali, cori soul di marca Four Tops e accenti folk-rock (la chitarra conclusiva potrebbe essere la dodici corde elettrica di Roger McGuinn, per quanto ci piace sapere). Particolarmente coltivata la nostalgia per gli anni 80, e non solo per via della cover di "Party Fears Two", festante tributo agli Associates di Billy MacKenzie, ma pure grazie alla scintillante "Diva Lady" e il suo melodismo degno degli Abc - come testimoniano i radi inserti di synth e il basso saltellante da disco music - teletrasportato però in un habitat "alieno" di chitarre acustiche, congas e archi Philly Soul.

Dai tre pannelli "maggiori" trasuda invece un rassegnato, putrescente estetismo, laddove Absent Friends era piuttosto accorata celebrazione di un ideale. Quei personaggi, prima lontani fisicamente ma più che mai vivi nell'immaginario, sono ora semplicemente "dimenticati": petunie sfiorite, mobili impolverati, cristalli di Boemia su cui il tempo ha impresso il suo alito opaco. La "Woman Of The World" di Casanova è così diventata "A Lady Of A Certain Age": da fanciulla armata di un voluminoso blocchetto d'assegni e un eccellente albero genealogico, a spettro in odor d'assenzio, attempata cortigiana più che mai a disagio nell'accettare gli inviti galanti di uomini più giovani. Un ritratto cinematografico fra i suoi più drammatici, giacché è il film di una vita intera quello che Hannon comprime in poche strofe, e nel processo lambisce vette di pathos inimmaginabili. Stesso copione per il legno eroso di "The Plough", quasi un omaggio al Nick Cave millenarista di "The Carny", solo che qui la prospettiva è decisamente europea (ossia francese) e ancor più "dostojevskiana".
A chiudere il trittico, la definitiva (in tutti i sensi possibili) "Snowball In Negative", ingranaggio tipicamente "hannoniano" distillante lacrime a ogni rotazione, struttura a incastro nobilitata da immagini d'inaudita potenza ("Wandering home along Marlborough Road/ I realize in amazement/ that I have been for how long I don't know/ avoiding the cracks in the pavement"); poi l'ingresso della musette a far il verso al sudiciume parigino del Cortazar di "Rayuela" e la sigaretta del Bowie di "Rock 'n' Roll Suicide" ormai consumata, eletta a unità di misura del nostro "esistere" ottuso, traccia labile - e impietosamente lavabile - della nostra permanenza terrena. Un'altra fra le sue dieci (ma facciamo venti o trenta, via...) composizioni più belle di sempre, quasi il suo epitaffio. Un mondo racchiuso in cinque minuti di nastro. Un triste mondo.

220x270_i_18Quella malinconia assoluta che in Absent Friends sfociava in desiderio di futuro, in questi tre episodi si traduce nella cruda constatazione della crudeltà di un tempo che semina cadaveri nella terra grassa; sevizie di fronte alle quali non si sa se ridere o piantarsi un pugnale nel fianco: "Vedi, è che tutto può essere ridicolo o catastrofico, dipende soltanto dalla tua visione preferenziale", dice lui. "Pur avendolo scelto quasi per caso, mi sono accorto di quanto The Divine Comedy sia un nome particolarmente efficace, che si addice al mio stile. In fondo, ogni cosa è uno scherzo e ogni cosa è seria, ed è questo il modo in cui virtualmente io guardo quello che ci circonda. Tu, ad esempio, non puoi spiegarmi perché esistiamo o perché il mondo è fatto nel modo in cui è fatto, e ciò è piuttosto divertente; d'altra parte, la faccenda è tragicamente seria, perché siamo noi quelli fottuti. La finalità del mio gioco è provare a esprimere quest'ambivalenza, sia con le parole che con la musica".
Che il tragicomico sia da sempre il suo obiettivo è cosa risaputa, e in Victory For The Comic Muse le aspirazioni raggiungono un altro climax. Come se Hannon avesse ripiegato sul suo passato "neoclassico" ("Count Grassiis Passage Over Piedmont" potrebbe essere un'outtake "decente" di Promenade) e dandy ("To Die A Virgin" sembra sbucare direttamente da Casanova) ma con coscienza diversa: meno "ridarolo", più riflessivo e ancor più acido ("She's a diva lady/ She's a hopeless case/ She needs extra make-up/ For her extra face (...)/ She's got a famous boyfriend/ They go out in style/ She makes him look hetero/ And he helps her profile" da "Diva Lady").

Anche la sua vita privata risente di questo andazzo depresso, o forse ne è causa. Sia come sia, nel settembre 2006 Hannon si separa dalla moglie Orla. Appena un anno dopo lo vedremo gongolare con la sua nuova girlfriend al concerto dublinese di Rufus Wainwright; un "gongolare" denso d'amarezza, però. Nel frattempo incide i vocals per una traccia di "Pocket Symphony" degli Air (la canzone è la stessa regalata a Charlotte Gainsbourg e inserita nell'edizione giapponese del suo debutto "5:55"), va in tour con il compaesano Duke Magic e, a inizio 2008, collabora con Stuart Murdoch (Belle and Sebastian) per il suo chiacchierato musical "God Help The Girl", ancora in fase di lavorazione.

Bang Goes The Knighthood (2010) segna il ritorno dei Divine Comedy dopo quattro anni di silenzio discografico. Non si può evitare, però, di sottolineare che nel frattempo Neil Hannon non ha smesso di divertirsi col versante più amabilmente superfluo e pretenzioso del pop: l'esperienza con Thomas Walsh nei Duckworth Lewis Method ha convinto il pubblico che quello che Neil Hannon sa fare meglio di qualsiasi altro musicista pop d'Oltremanica è scrivere canzoni. Bang Goes The Knighthood è un album di quadretti di vita sociale grotteschi e sofferti, che si alternano con naturalezza a momenti più intensi che accettano riflessione e disincanto. I personaggi delle canzoni sono tratteggiati con lucidità sorprendente e con un lessico essenziale e pungente.
I protagonisti delle sue storie sono ricchi e potenti messi a nudo: osservando con acuto cinismo lo scandalo finanziario e sociale che ha travolto l'Inghilterra, Neil racconta di una generazione di falsi potenti che non rinuncia all'arroganza, conservando con insana logica ricchezza e privilegi.
Hannon mette insieme finanzieri ("The Complete Banker") e donne costrette a prostituirsi nel dopoguerra italiano ("Neapolitan Girl"), uomini e donne che sfiorano la ricchezza e il potere mentre perdono inconsapevolmente la loro dignità. Melodia da eurofestival, pianoforte saltellante e voce malinconicamente scanzonata per "The Complete Banker", mentre un solare trash-pop con sottili venature disco anima la brillante "Neapolitan Girl". Nulla di nuovo, ma ogni brano è il giusto tappeto sonoro per le sue storie. Ed ecco che la futilità di "At The Indie Disco" coincide con la pigrizia del protagonista, la leggerezza solare di "Island Life" profuma di mediterraneo e calypso.
La perfezione armonica di "Have You Ever Been in Love" celebra un matrimonio stilistico tra il jazz leggero americano e il proverbiale self-control inglese, "Down In The Street Below" apre l'album con lirismo passionale mentre il testo dipinge scene di vita sociale, ma il trionfo lirico e poetico dell'opera è "When A Man Cries": accenni barocchi e trame mitteleuropee omaggiano Brel per raccontar di lacrime, il pianto di un bambino e quello di un uomo incrociano paure ed emozioni. Poche parole capaci di evocare una intera vita.
Tutto il disco è un viaggio stilistico apparentemente disomogeneo, che parte dalla sontuosa title track, passa per la frizzante "Assume The Perpendicular" (una canzone sul cricket), fino a giungere all'inevitabile inflessione beatlesiana di "The Lost Art Of Conversation".
Resta da segnalare la presenza di ben quattro bonus track e di un cd aggiuntivo nella prima tiratura, che include cover version di autori francesi registrate durante lo show del 2008 alla Cite de la Musique.

220x270_ii_18Per arrivare a Foreverland gli anni di attesa sono addirittura sei, un'eternità in ambito discografico. Certo, Neil Hannon non è proprio il tipo che debba presentare chissà quale giustificazione, avendo già dato prova con il marchio Divine Comedy di una caratura autoriale così elevata da silenziare in partenza ogni possibile rimostranza degli estimatori, anche a fronte di prolungati periodi di pausa. Recitare nei panni dell'absent friend gli ha per giunta consentito di sfogarsi in modo salutare con ogni sorta di ricreazione collaterale. Nel 2010 ha scritto i brani per una versione musical dell'acclamato "Swallows And Amazons", presentata in anteprima al Bristol Old Vic. Un anno dopo ha messo in musica le parole del drammaturgo tedesco Frank Alva Buecheler per un'opera da camera breve ma potente, "In May", oggi acclusa alle edizioni deluxe di quest'ultima fatica e descritta come un'edificante lettera d'amore alla vita, che esplora il rapporto tra un figlio morente e il padre assente attraverso una serie di epistole. Poi, nel 2014, la Royal Festival Hall gli ha commissionato una serie di brani per inaugurare un organo da poco ristrutturato. "To Our Fathers In Distress", la risultante opera corale ispirata agli inni anglicani (del geniale Ralph Vaughan Williams in particolare) l'ha dedicata a suo padre Brian, vescovo della Chiesa d'Irlanda malato di Alzheimer.

Tutto questo senza dimenticare la seconda scorribanda dei Duckworth Lewis Method, cantori dalle parti della Village Green Preservation Society, ostinati nella salvaguardia di un mondo sopravvissuto a tutta una sfilza di rivoluzioni sotto le spoglie del dorato anacronismo. Per ingannare l'attesa della sua creatura più celebrata, il lussureggiante eclettismo pop anni 70 di "Sticky Wickets" si è rivelato un diversivo più che valido, con l'aura ovattata di una giostra dalla magia vittoriana a fare a pugni con l'iperbole kitsch di chi sposi senza riguardo eleganti atmosfere oniriche e lazzi o smargiassate di bassa lega, elitario e popolaresco, per amore dell'arte si intende.

E alla fine ecco il crooner di Londonderry di ritorno al regale ovile, direttore della fotografia in fissa per le suggestioni umide, il lirismo rigoglioso e quel tocco di ineffabile decadentismo sempre esposto in bella mostra, là sulla mensola più alta del suo salone. Questo nuovo album, capitolo undicesimo del suo breviario di vagheggino, esalta quella sensibilità da gazza ladra di cui ha parlato talvolta, la frenesia nell'accaparrare luccicanti barlumi musicali e nell'assemblarli in un bel miscuglio, secondo il proprio estro capriccioso, per creare qualcosa di originale. Si prenda la deliziosa traccia che qui chiude le danze, "The One Who Loves You": un po' di banjo, qualche orchestrazione à la Ravel, un bel ritmo scompigliato e opportuni cambi di tonalità. È solo un esempio a caso da un disco nel quale, per sua stessa ammissione, sguazzano richiami a Noel Coward, ai Pet Shop Boys, ai Beach Boys, ai Byrds e a Johnny Cash, mescolati con studi per pianoforte, modernariato d'ogni fatta, evocazioni cinematografiche retrò, music hall e sinfonie russe.

Neil riprende il discorso esattamente da dove lo aveva interrotto, visto che l'inaugurale "Napoleon Complex" era tra le tracce bonus del precedente Bang Goes The Knighthood, riallestita per l'occasione con discreto sfarzo e una mirabile intonazione elegiaca. L'aria frizzantina reintroduce l'ascoltatore nell'inconfondibile reame di un creativo pop la cui arte è senza tempo e si fa appena più compassata nel brano seguente, quello che presta il titolo alla raccolta. L'introspezione prende campo, animata da una mesta fanfara ma sublimata presto dall'inarrivabile brillantezza di questo artigiano delle decorazioni melodiche. È il classico episodio che accende la sua prospettiva di contemplativo indefesso, quell'indole crepuscolare senza eguali di questi tempi. "Forse questa è la mia fase imperiale o è solo che mi piace glorificare la quotidianità", ha detto Hannon a proposito di un album che è in fondo "un'unica, grande canzone d'amore", che decanta la vita ordinaria attraverso un esuberante accompagnamento musicale e richiami a personaggi quantomeno altisonanti, uno per tutti la "Catherine The Great" oggetto della "più storicamente inaccurata hit dell'estate" nonché del classico "brano romantico che scrive chi ha guardato troppo il quarto canale della BBC". Con il suo clavicembalo e una freschezza quasi sunshine-pop, proprio il primo singolo estratto riesce a rendere facilmente digeribile anche una grandeur camerista che, in altre mani, avrebbe potuto suonare nefasta. Con Foreverland, il dandy nordirlandese è tornato di fatto a quel che gli riesce meglio: creare una musica pop intelligente, piena di hook e capace di pescare da una miriade di fonti espressive diverse e magari improbabili, per non lasciar riposare l'album sui propri allori e per mantenerlo in continua evoluzione, "con arrangiamenti che cambiano da verso a verso" e con parole allusive quanto elusive, aperte a molteplici interpretazioni.

220x270_iii_12Se con le sue fisarmoniche e la sua schietta malinconia "The Pact" si ispira alla chanson francese (a Edith Piaf in particolare) e "To The Rescue" riporta ai primi seventies e alle atmosfere sofisticate di dischi come Casanova o Promenade (con inevitabile ritorno di fiamma per Serge Gainsbourg, "uno che ha molto di cui rispondere"), altrove si passa con disinvoltura dalle evocazioni traditional irlandesi (la title track) al duetto in stile Broadway di "Funny Peculiar", zampettante, oligominerale, persino minimalista considerando chi l'ha scritto, una filastrocca spensierata e zuccherina ma non stucchevole di cui si è resa complice la dolce metà di Neil, la cantante Cathy Davey. Pare far eccezione "Other People", registrata a cappella con un iPhone in una stanza d'albergo e forte di un retrogusto metallico, poi accompagnato da pur sobrie orchestrazioni senza perdere un grammo dell'intimità originale. Già "How Can You Leave Me On My Own" si muove all'estremo opposto, un saltellante soft-rock anni settanta che sposa gli amati 10CC e i Supertramp in modo esuberante, con un testo salace a corredo che chiama all'immedesimazione. Si apre con il ragliare dell'asino Wayne, registrato in un campo fuori dallo studio perché riassumeva alla perfezione il senso della canzone. L'impostazione a metà strada tra nonsense e arguta autocommiserazione ripristina il brio di certi passaggi deliziosamente farseschi del precedente lavoro, limitando per fortuna le implicazioni macchiettistiche di una digressione al solito molto gustosa. "I Joined The Foreign Legion (To Forget)" le viene dietro, muovendosi sul medesimo crinale con un'amarezza ben dissimulata.

Dopo una partenza eccellente, nella seconda facciata si registra un moderato ripiegamento. Con il suo candore quasi domestico, "My Happy Place" rende veniale un certo leziosismo della penna del Nostro, specie in un refrain a più alto tasso glicemico, mentre il sottile esotismo e certi turgori nella confezione di "A Desperate Man", da colonna sonora d'annata, vivacizzano e non poco per slancio eclettico pur non entusiasmando. Manca forse lo struggente colpo del ko di una "Tonight We Fly" e Neil rinuncia ancora, abbastanza vistosamente, ai registri più intensi e melodrammatici, per proseguire senza incertezze sul sentiero della stravaganza frammentaria e di un rasserenato disimpegno. Si balocca in una sorta di confortevole pensatoio e svaria un sacco, senza svarionare peraltro, con le sue hobbistiche esplorazioni di ritorno.
Pretendere qualcosa in più da un talento come il suo sa quasi di riflesso involontario ma, arrivati a questo punto, può suonare persino ingeneroso. Noi siamo tra quelli che, sorridenti, si accontentano. Accontentarsi, quando è dei Divine Comedy che si parla, equivale comunque a una sontuosa rendita.

Nel 2019 è la volta del tredicesimo lavoro in studio: Office Politics, questa volta immerso nel mondo del lavoro e nel paradiso di odio e amore rappresentato dall'ufficio come micro-cosmo nel quale studiare l'umanità. Non si tratta forse di un vero concept, ma di un'opera permette a Hannon di fare ciò che più gli piace: indossare una maschera tutta nuova e provare a cimentarsi nel piccolo-grande teatrino della natura umana, districandosi in una selva di pregi e difetti da evidenziare e dileggiare. Per farlo, si fa aiutare dalle macchine. In effetti la componente sintetica non è mai stata tanto presente nelle trame dei Divine Comedy, così come la riflessione sul ruolo e sull'uso delle macchine, non a caso definite “infernali” nell'omonimo brano.
Se però Foreverland era un rifugio riparato entro i confini di una classicità fieramente novecentesca e decadente, Office Politics è per la legge dantesca del contrappasso la risposta più avanguardista mai data da Neil Hannon al mondo là fuori, e prima ancora a sé stesso. Il rap estemporaneo di “Psychological Evaluation” inscena un dialogo tra l'uomo e l'intelligenza artificiale. “The Synthesiser Service Centre Super Summer Sale” si erge a metà scaletta come l'avamposto di una nuova, effimera politica (appunto) che sembra voler guardare al futuro attraverso le lenti di un passato ottantiano. E che dire della marcia pseudo-industrial di “Infernal Machines”, quella sorta di incubo tridimensionale che sembra volere inghiottire l'ascoltatore nei suoi ingranaggi? E infine, come accogliere i rintocchi orientali che seguono i vocalizzi e poi i cori di “Philip And Steve's Furniture Removal Company”? Si tratta di operazioni che solo a Hannon potrebbero riuscire, per il semplice motivo che solo a lui potrebbero venire in mente. Ma questo non significa per forza che l'esito sia sempre all'altezza del credito quasi illimitato di cui il Nostro gode da molto tempo a questa parte.
E infatti, smargiassate nuove di zecca a parte, e certo non misteriosamente, Office Politics convince laddove il buon Neil la smette di bazzicare in territori a lui alieni per tornare a fare il primattore sotto i riflettori più congeniali. “Norman And Norma” è un nuovo classico pop della fucina nordirlandese che narra le vicende di una perfetta coppia middle class ormai avanti negli anni e pienamente felice della normalità ricevuta in dono. Viceversa, il pop sbarazzino di “Queuejumper” non riesce a conquistare del tutto, pur invitando a saltellare sulle macerie di un'umanità che ha smesso di farsi scrupoli.
Per “You'll Never Work In This Town Again” si rispolvera il frac in un crogiolo di piccole orchestrazioni che strizzano l'occhio a uno swing appena accennato. Ancora più “classica” è la riflessione sul valore di ciascuno di “Absolutely Obsolete”, a sua volta dotata di precise orchestrazioni in un gioco di specchi tra scherno e seriosità.
“The Life And Soul Of The Party” riaccende la voglia di fare festa, ma senza strafare, perché il contegno è un altro dogma inscalfibile di questa calcolata follia. Lo slot dedicato alla ballatona è occupato da “A Feather In Your Cap”, di nuovo immersa in sintetizzatori e atmosfere anni Ottanta, ma onestamente poca roba rispetto a qualsiasi altro epigone del passato. E poi c'è il lirismo minuto e prezioso di “I'm A Stranger Here”, intriso di quell'esistenzialismo démodé che Hannon ha saputo elevare ad arte.

Nel febbraio del 2022 esce Charmed Life - The Best Of, una raccolta di 24 canzoni (35 nella versione deluxe) che raccoglie il meglio della carriera di The Divine Comedy, compreso un nuovo brano inedito intitolato "The Best Mistakes".

X - Non è un paese per vecchi (o forse sì?)

Mi piaceva quando, negli anni 50, madri e figlie fischiettavano assieme lo stesso motivetto che passava alla radio. Ecco la mia idea di musica pop: qualcosa che parla a chiunque, senza distinzioni. D'altronde, io non mi sento elitarista, non mi rivolgo a uno specifico target di pubblico - tipo le masse di giovani su cui fa leva l'immacolato mondo "indie" - né mi sento a disagio con la mia immagine che si va rattrappendo.
(Neil Hannon)

Non si pensi a un articolo di "Costume & Società" da ventiquattresima pagina di quotidiano, di quelli che sfoggiano il solito corredo di percentuali atte a illustrare l'invecchiamento progressivo del Bel Paese: calo della natalità, aumento dell'età media, il miraggio della pensione che, per quelli come me, si fa sempre più ectoplasmatico e bla bla bla assortiti. Il titolo è soltanto pretesto per uno scricciolo di riflessione sul rapporto fra i Divine Comedy e quanto assodato da decenni di letteratura circa la natura sociologica della musica giovanile: ossia il rock 'n' roll (o l'hip-hop, house, techno, fate voi...) inteso come strumento atto a scandire le tappe dell'età adolescenziale e, più alla larga, governare il flusso delle generazioni; vocabolario giuridico prestato a giovani "eletti" per articolare l'arringa accusatoria nei confronti del proprio "contrario", veicolare nuovi sistemi di valori (che possono anche essere percepiti come fieri disvalori, o coincidere con la negazione stessa di "sistema") e, in ultimo, staccare i baldi giovanotti dalla sottana di mammà.
L'operazione pop dell'ultimo Hannon, vista in questa luce, è fortemente contro natura, ed è anche questo uno dei suoi fascini. Contro natura poiché fa venir meno lo stimolo biologico allo scontro, all'inevitabile lotta con cui il "nuovo" afferma se stesso in funzione di un "non essere più qualcos'altro". Una (anti)tensione che sa tanto di ritorno al focolare domestico, a un'epoca "pre-rock" in cui la famigliola tutta unita (quella allargata del dopoguerra, nespà?) sedeva davanti al televisore; luogo in cui due o tre generazioni si trovavano a proprio agio e, nell'impossibilità di trovare una valvola di sfogo alle proprie frustrazioni, perpetuavano una linea di continuità "elettiva" che è creazione umana e quindi artificiosa, proprio come il diritto (teorie giusnaturalistiche a parte), il matrimonio (idem, con in più la variante religiosa) e il calcio.

Riecco manifestarsi, seppur in un diverso contesto, quell'eterno presente spesso tirato in ballo - con finalità denigratorie anzichenò - ogni qualvolta si prova a definire l'attuale panorama musicale: open field in cui concetto di (ri)creazione attrae nella sua orbita ogni traccia sonora percepita come potenziale elemento d’analisi, senza distinzioni fondate su criteri ideologici o ermeneutici. Un panorama, a dispetto di quanto si possa ritenere a prima vista, quanto mai calzante per la poetica "da rigattiere" del Nostro.
Riassumendo in sé un quarantennio di esplorazioni stilistiche, Hannon porta la materia pop a un limite oltre il quale c'è soltanto la "spazzatura retrò" di cui si è parlato in apertura. Cammina sul filo del rasoio, facendosi contenitore (e convertitore) di pressoché tutto lo scibile popular, e non con la finalità di "giocherellarci" ma di subirne la grandezza, ricrearne l'effetto. È questo "tutto" a essere ricondotto all'ovile, ossia la matrice baroque a cui il dandy ha prestato giuramento di fedeltà. Perché egli è l'intrattenitore e l'artista, buffone e poeta crepuscolare, se stesso e la sua nemesi. Mago dei travestimenti (esilaranti le imitazioni di Prince e Barry White a 2:35 di "Charge", su Casanova) che riprende l'illustre tradizione del distacco dalla vita - ossia il volerla gestire come ente transitorio e intransitivo - e pretende di commentare la tragedia a occhi asciutti, magari alzando un calice di Martini bianco a Sua Santità "La Decadenza".

A ben vedere, però, Hannon non è affatto immune al potenziale emotivo intrinseco alla sua stessa opera. Al contrario: è un sentimentale che si schernisce, facendosi gioco del suo stesso sentimentalismo. Persino la sua leggendaria ironia, sì massiccia, non è tale da portarlo a deridere stilemi che, viceversa, sono ancora percepiti come vitali e dotati di una precisa rilevanza storico-critica. Ecco cosa s'intendeva quando si è parlato della sua volontà "d'inserirsi nella tradizione", a differenza, tanto per dire, di uno Stephin Merritt (aka Magnetic Fields, suo amico e noto mago post-pop statunitense) che la tradizione vuole farla a fette, affidandosi in toto al progettualismo del postmodernismo.

Paradossalmente, a Hannon manca proprio il grado di distacco necessario per guardare la sua arte dall'esterno, dalla posizione cioè in cui sia possibile disquisirne meta-testualmente. E ciò perché egli stesso ne è soggiogato, consapevolmente soggiogato. Questa, anzi, è la sua forza - oltre a una discografia che, per continuità e qualità, pochi altri autori degli ultimi due decenni possono vantare. A conquistare è il suo far leva sempre e comunque sui sentimenti, anche nei moti più impersonali, citazionistici o anti-naturalistici; l'essere, nonostante tutti i vezzi, un nostro pari, nonché alfiere di un modo antico (e oggi modernissimo) d'intendere la musica: "Molti dei più celebrati autori pop non hanno fatto altro che scrivere di ciò che vedevano, molto semplicemente. La stessa 'National Express', anche se è un pezzo abbastanza stupido, è pura osservazione, non c'è niente di inventato - sono su un autobus e questo è ciò che vedo". Tutto vero, Mr. Hannon, ma lei dimentica un particolare: nel mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi maestri, a un certo punto della carriera ha compiuto l'errore di confondersi con il suo oggetto di studio, invece di mantenersi a debita distanza di sicurezza. È allora che è diventato davvero grande. Au revoir.

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Bang Goes The Knighthood"), Stefano Ferreri ("Foreverland") e Fabio Guastalla ("Office Politics", "Charmed Life")

Divine Comedy

Discografia

DIVINE COMEDY
Fanfare For The Comic Muse (Setanta, 1990)

5

Liberation (Setanta, 1993)

6,5

Promenade (Setanta, 1994)

4,5

Casanova (Setanta, 1996)

7,5

A Short Album About Love (Setanta, 1997)

8

Fin De Siècle (Setanta, 1998)

7

A Secret History (antologia, Setanta, 1999)

7

Regeneration (Parlophone, 2001)

7

Absent Friends (Parlophone, 2004)

8,5

Victory For The Comic Muse (Parlophone, 2006)

7,5

Bang Goes The Knighthood (Divine Comedy Records, 2010)

7,5

Foreverland (Divine Comedy Records, 2016)

7

Office Politics (Divine Comedy Records, 2019)

6,5

Charmed Life - The Best Of (Divine Comedy Records, 2022)

8,5

THE DUCKWORTH LEWIS METHOD
The Duckworth Lewis Method (Divine Comedy Records, 2009)

8

Sticky Wickets (Divine Comedy Records, 2013)

7,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Divine Comedy su OndaRock

Divine Comedy sul web

Sito ufficiale
Testi
Sito non ufficiale
  
 VIDEO
  
Becoming More Like Alfie (videoclip da Casanova, 1996)
Our Mutual Friend (videoclip da Absent Friends, 2004)
Happy Goth (videoclip da Absent Friends, 2004)