David Byrne

David Byrne

Un camaleonte schizofrenico

Consegnata alla storia del rock l'esperienza dei Talking Heads, David Byrne si è imbarcato in una carriera solista sfrenata, saltellando dalle opere con Eno alle effusioni tropicali, dalle colonne sonore alla dance. Con lo sguardo sempre conficcato nella pupilla del nuovo millennio

di Mimma Schirosi

Il divertissement della collaborazione: da "My Life In The Bush Of Ghosts" a "Music For The Knee Plays"

Il primo passo verso un cammino magnificamente lastricato da collaborazioni, produzioni altre, ulteriori sperimentazioni, parte da un capolavoro, a sua volta ubicato nella fessura di altre due uscite mostruosamente ispirate e affascinanti. La carriera solista di David Byrne comincia tendendo la mano a Brian Eno, anticipatore di tutto un microcosmo di tendenze, pseudo-intuizioni a venire, collage sonori di superba eleganza e raffinatezza. Il maligno potrebbe anche pensare che la produzione e l'avvicinamento di Eno ai Talking Heads potessero essere motivati proprio dall'aver compreso, in tutta la sua interezza, lo spessore qualitativo del genio byrneano, ma mettendo da parte queste, a ben vedere, legittime congetture la realtà dei fatti fu una produzione nata tra la descrizione di ovattati tragitti verso l'ade psichico di "Fear Of Music" e il piacere perversamente cinico della critica al post-moderno di "Remain In Light".
In effetti, My Life In The Bush Of Ghosts, realizzato nel 1979, riesce a vedere la luce della produzione solo nel 1981 - immediatamente dopo "Remain In Light".
Ciò che accade è la percezione di mondi altri, consapevolmente filtrati da colori alterati, come nel più lucido dei trip: reimpasti sonori costruiti su stralci di conversazioni radiofoniche mandate, nel loro topos concettuale, strategicamente in loop ("America Is Waiting"), invocazioni quasi pagane, lanciate su basi psicotiche e rimuginanti ("The Jezebel Spirit"), il neo-apolide europeo spinto alla fuga verso territori d'immagine cangiante definiti con essenziale suggestione dal canto libanese di Dunya Yusin ("Regiment"), le sabbie mobili in mezzo a cui farsi strada, per riconoscere, dietro la spessa patina dei pungenti granelli, il muezzin dolente che invoca dal miraggio di lontano ("The Carrier"), valvole che, abilmente manipolate, sembrano quasi manipolare l'ascoltatore, condotto al climax esoterico dalla voce terrorifica riemersa da abissi di pece ("Come With Us"), con il punto messo da serafici enigmi di impalpabile oriente ("Mountain Of Needless").

Il 1981 è l'esplosione della creatività di David Byrne: contemporaneamente all'uscita di My Life In The Bush Of Ghosts viene prodotto The Catherine Wheel, colonna sonora per il balletto della coreografa Twyla Tharp ispirato dalla figura di S. Caterina d'Alessandria, opera messa in scena al Winter Garden Theatre di Broadway. Il disco, fortemente suggestionato dal nerbo enoano, ancora presente deus ex machina, e plasmato sulla morfologia di "Fear Of Music" e "Remain In Light" ("His Wife Refused" e "What A Day That Was"), si apre con la luminescenza aurea di "Light Bath", per amoreggiare qua e là con tropicalismi improbabili e surreali ("Ade") e tribalismi di robotica afasia ("Dinosaur"). Quella metropolitana è forse la cifra fondamentale: dalle eco riverberate dei manichini sfuggiti alla stasi delle vetrine ("The Red House"), all'incontro di box ai piedi di un grattacielo ("Big Business") passando attraverso il dinamismo di un jogging iper-teso ("Black Flag") e lo strusciarsi su pavimenti di velluto precursori di certo lynchano turbamento ("The Blue Flame"). Il sonno degli uomini post-moderni non è mai tranquillo: scosso da allucinazioni nevrotiche ("Eggs In A Briar Patch"), chitarre spettrali in stato di agitazione da notte insonne ("Combat"), languori sulle rive di un fiume, illuminate da voyeur dotati di morbose torce ("Dense Beasts"). Nella spasmodica ricerca di una nuova finalità, di un piacere estetico tutto cerebrale, di un immaginario legato a flashback piuttosto che a dirette percezioni fisiche degli eventi, il mondo diventa movimento fisico al rallentatore, ben segnato dai rintocchi di uno xilofono ("Cloud Chamber"), suggestione di voce mutante al vocoder - "My Big Hands (Fall Through Of The Cracks)" - e rivolta di campanellini, in corteo su una qualche highway ("Leg Bells").
Il cerchio concettuale, alla stregua di eterno ritorno del presente, si chiude con la medesima traccia di apertura.

Sulla scorta di quest'esperienza David Byrne, fuori dai Talking Heads, continua un percorso di collaborazione, realizzando nel 1985 Music For The Knee Plays, dodici "immagini musicali" per l'opera epica di Robert Wilson intitolata "The Civil Wars". Ne viene fuori un lavoro costruito dall'io narrante di Byrne su una base di surreali ottoni.
Music For The Knee Plays è un viaggio nell'allucinazione di New Orleans - "The Sound Of Business", "(The Gift Of The Sun) When The Sun Never Goes On" ,"I Bid You Goodnight" - che scivola melanconicamente su ciottoli di strade dirette a una qualche osteria dell'Est europeo ("Admiral Perry"), per illanguidirsi in suadenze di sassofono a corteggiare indolenti fanciulle in un fumoso nightclub ("I've Tried"). Dal fagotto che, con marzialità quasi cavalleresca, apre le danze, il disco si chiude con un oboe leopardato e smaliziato, il cui guinzaglio vien distrattamente tenuto dalla voce di Byrne, intento a pensare ad altro.

Il genio dalla personalità multipla: tropicalismi, soundtrack, Superego, cup of coffee e dance remix

La lente d'ingrandimento con cui approfondire la realtà, non paga di un'univoca visione, va a cercare altre immagini, colori, suggestioni, nell'afa negra del Brasile, e l'entusiasmo è così tanto da decidere di fondare un'etichetta che produca world music, la Luaka Bop. Naturalmente c'è spazio anche per sé, e a chi dedicare il felice trip se non al dio del Carnevale Rei Momo? La sceltà è coerente rispetto al respiro del disco, e messo da parte l'iniziale stupore ci si rende conto di come Mr. Byrne sia davvero capace di rendere del tutto peculiare anche un mondo abitualmente evitato, per scarsa corrispondenza d'amorosi sensi - questo grazie al felice reimpasto di una voce metropolitana a tutti gli standard della musica caraibica: mambo, cha cha, merengue, salsa. La fiesta ibrida comincia con "Independence Day", a cui fa seguito uno stupefacente, ironico, giocoso mambo su cui Byrne non esita a danzare, modulando il suo scatto robotico sulla - questa volta - spontanea scioltezza di membra dei ballerini, realizzando un improbabile video in bianco e nero ("Make Believe Mambo"). Nel villaggio diventa tutto torrido e tumido, sul calar del sole, che lascia un'aria spessa e vischiosa generando danze dissennate. Questo si chiama "Loco de Amor", ed è anche la colonna sonora di "Qualcosa di travolgente", cult anni 80 di Jonathan Demme, con la burrosa e boccolosa Melanie Griffith. La celebrazione della charanga viene sinuosamente disegnata da una visionaria marcia nel deserto ("Marching To The Wilderness"), sciogliendosi nella penombra di un metafisico bolero ("Women Vs. Men") sino alla contemplazione finale, enfatizzata dai versi delle rane, degli uccelli, degli insetti e da un'armonica, che porta alla riflessione per cui "I Know Sometimes A Man Is Wrong".

Nel 1991 esce The Forest, imponente opera scritta da David Byrne per una performance teatrale del regista Robert Wilson, per la prima volta in scena a Berlino nel 1988. Siamo di fronte a vera e propria musica da camera, sulla quale l'artista canta con piglio lirico del mito più antico dell'uomo: quello di Gilgamesh e dei sumeri. La magniloquenza epica si scorge sin dalla lunga, quasi wagneriana intro dedicata allo splendore del primo insediamento mesopotamico ("Ur"). La conoscenza di antichi fasti ormai facenti parte di un inconscio soltanto onirico, è risvegliata dal timor panico di "Kish", altro centro di civiltà sumerica, la cui percussione squarcia la melodia dei fiati come a voler segnare quasi fisicamente l'umano battito cardiaco. E ancora, laddove il corpo pare fluttuare sulla melancolia di "Samara", ricamata da leggiadria di archi, il rito propiziatorio si compie sull'ossessione percussiva di "Nineveh", animata da spiritati cori maschili e nenie femminile. In chiusura, il volo pindarico in una manciata di minuti conduce verso territori di accecante fulgore, regni di maestosa, silenziosa soavità, echeggiati da violini quasi sotterranei ("Machu Picchu"), fino alla rifrazione su specchi d'acqua del finale ("Teohiutican").

Come un ritorno al futuro, con dinamiche piuttosto fiacche, Uh! Oh! nel 1992 recupera lo spleen punk-funk dei primissimi lavori dei Talking Heads, servendosi in maniera ironica di un registro vocale giocosamente rilassato ("Now I'm Your Mom"). E il tropicalismo deve aver impresso visioni recidive nella mente di Byrne, i cui cori continuano a essere neri, soleggiati e tribali ("Something Ain't Right"), andando poi a ibridare misture di generi apparentemente inconciliabili con gringos in trasferta caraibica ("The Cowboy Mambo") e uomini-scimmia a sorseggiare drink su fiati pregni di rabbiosa tensione ("Monkey Man"). Se questo non basta a svelare l'arcano di un uomo dalla mente densa di immagini, suggestioni, impressioni che, come il più forte dei riflessi condizionati, al minimo link, ri-emergano da stratificati sedimenti, ecco arricchire la complessità del proprio sistema cerebrale con il gioco del crooning, teso e sincopato ("A Walk In The Dark") sino alla chiosa di una spensierata pop-song ("Somebody").

Ciò che accade due anni dopo, con l'album omonimo David Byrne, è, per un momento, l'abbandonarsi a una rinnovata vena metropolitana e crepuscolare che pare spogliare Bryne di ogni veste giustapposta da sistemi culturali estemporaneamente ammalianti come sirene. Come insinuandosi in uno spiraglio dell'animo, l'intro "A Long Time Ago" anticipa sommessamente il racconto di angeli che, indignati dal processo storico-sociale di tutto il pianeta terra, ve ne sfuggono, gettando il Sé in una cosciente crisi d'identità: "I am just an advertisement/ For a version of myself/ Like molecules in constant motion/ Like a million nervous tics/ I am quivering in anticipation" ("Angels"). E se "Crash" pare tiranneggiata dalla chitarra di Arto Lindsay, uno dei prestigiosi credits del disco insieme a John Medeski, "Back In The Box" è elettricità che cita se stessa. Il tango diviene invece provocazione con cui difendersi: "You may think I look sad/ But I am just sleeping/ It's my facial expression/ I'm probably dreaming" ("Sad Song"), laddove un tappeto sonoro, in dispiegarsi stupefacentemente gainsbourghiano, avvolge il sicuro, suadente spoken di "Nothing At All". La sottile isteria tipica del modus byrneano si getta nella jam session di "You And Eye", mentre sul finale scende in cerebrale profondità, nella stanza più sfocata alla coscienza, quella di un ricordo remoto quanto il timor panico di "Fear Of Music", qui perfettamente segnato dalla tastiera di Medeski. E quasi consapevoli della destabilizzazione operata si ritorna in superficie, con l'apparente immediatezza di "Buck Naked".

La produzione di David Byrne, quasi affetta da una forma di iper-attività, non è mai stata a senso unico. Quella Rhode Island School Of Design, che aveva partorito il movimento cerebrale delle quattro teste parlanti, doveva aver lasciato tracce e tracce di mirabile introspezione, filtrata attraverso un personalissimo gioco di cristallizzazione del Sé che si formalizza nel progetto "Superego", insieme di bambole a mezzo busto auto-rappresentanti diversi stati psichici dell'artista: "Ecstasy", con la strizzatina d'occhio in una miriade di fiori; "Love", con uno sguardo vitreo avvolto dalle fiamme; "Pride", dal sorriso compiaciuto della conquista di un ipotetico paradiso; "Sleep", con un sonno acquatico. Come sempre, è difficile non lasciarsi irretire dall'entusiasmo dinanzi a tale, stupefacente genio, che provocatoriamente riesce a sollecitare il narcisismo del pubblico, attraverso l'auto-rappresentazione, malgrado non si tratti di solo narcisismo, poiché Byrne affermerà che quella di Superego fu anzitutto un'operazione di analisi psichica, uno scrutarsi per poi esteriorizzare ciò che si scorgeva all'interno del Sé, producendo quest'omino che, nella sua sostanza, paradossalmente, rimane ente sconosciuto all'artista, da aiutare, a cui dare un nome, sostenere nella realizzazione dei propri progetti e sogni. Ed uno degli omini di Superego andrà a rappresentare la cover di Feelings, disco del 1997 che, coerentemente alla natura del progetto, introduce al declinare il mood dell'artista nelle sue svariate forme. Il giro di boa verso un sound che sempre più rimane imbrigliato nelle maglie dell'elettronica emerge immediatamente dalla strisciante apertura ("Fuzzy Freaky"), proseguendo nell'electric tango di "Dance On Vaseline" e nella percezione intorpidita di "Amnesia", per poi dileguarsi, lasciando spazio al coro caraibico di "Miss America" - personificazione fisica di un intero continente compiaciuto della sua stessa follia. Un Medio Oriente da suk all'avanguardia apre il flessuoso avvolgersi di "Daddy Go Down". Richiamando plastiche esistenze, una piccola bambola perversa ingaggia un surreale conflitto cerebrale: "Wicked little doll, I'm not your victim/ Wicked little doll, you need me too/ Wicked little doll, I'll be your partner/ Wicked little doll, can I play too?", con alternanza di voce robotica "Those guys, some of these guys/ We're one big happy family/ I love my little dolly/... I surrender" ("Wicked Little Doll"), chiudendo con languida fisarmonica il paradosso di un'amore sui generis: "She put the scar on the side of his face/ When he disappeared for three days/ And they say that they are in love/ He took her cocaine when she was asleep/ Friends say he gave half away/ And they say that they are in love" ("They Are In Love").

Nello stesso anno, il lavoro di Feelings è sottoposto a un'operazione di chirurgia sonora con dei remix curati da alcune figure del djing mondiale, confluendo in un'ulteriore uscita, The Visibile Man. "Fuzzy Freaky" ha la facoltà di scegliere il make-up più cool tra il remix alieno di Dj Food e l'afflato soul di Mark Walk e Ruby. Mentre "New Kingdom", all'ossessione di "Wicked Little Doll", aggiunge l'angoscia trip-hop, seguita dall'algida eleganza del remix di "Dance On Vaseline", ad opera di Thievery Corporation, forse l'operazione meglio riuscita dell'intero album. Al jungle si lascia, invece andare, "You Don't Know Me", nel remix di lLoop. "Miss America" pare non riuscire a liberarsi del cellophane da cui è plasticamente avvolta, che diviene più leggero, ma pur sempre inutile, nel finale fintamente lounge di "Amnesia". 

L'attitudine alla critica storico-sociale dei tempi non si esime dall'analisi dei codici di comunicazione e meta-comunicazione pubblicitaria di fine millennio. Nel 1998, infatti, Byrne produce Your Action World, che, partendo dalla dissacrazione dei molti luoghi comuni presenti nel linguaggio pubblicitario, in realtà, dimostra efficacemente quanto i messaggi contengano, a loro volta, dei sub-messaggi, ben più efficaci nel plasmare i consumi planetari. Your Action World consta di un book contenente l'artwork pubblicitario, insieme a una guida audio di quindici minuti circa che doveva accompagnare la visione della foto. Il progetto trova spazio, peraltro, anche in Italia presso il Museo Rivoltella di Trieste, con la mostra personale di Byrne "Your Action World: Winners Are Losers With A New Attitude". Nella stessa occasione, la Illy Caffè chiede a Byrne di disegnare una tazzina speciale che entri a far parte della pregiata e stilosa collezione. Il prodotto è la minimale Silver Cup, ricoperta d'argento, come a rappresentare lo specchio riflettente ogni umana mutazione.

La fascinazione per la coreografia prosegue su In Spite Of Wishing And Wanting, colonna sonora, nel 1999 dell'omonimo progetto di danza contemporanea della compagnia Ultima Vez di Bruxelles. In realtà il disco inizia a prender forma già dal 1991, quando Byrne incontra a Seattle il coreografo Wim Vandekeybus, ma ci vorranno ben otto anni per realizzare uno spettacolo in cui la musica verrà plasmata sul movimento del corpo, a significarne la tensione, il fluire vitale, la metamorfosi sempre cangiante delle molteplici posture. Dal punto di vista sonoro, a parte l'allucinazione del remix di "Fuzzy Freaky" ad opera di Dj Food e la lunga, robotica, lunare "Dance On Vaseline (SuperextendedRemix)", a tratti par di tornare alle suggestioni trans-umanoidi di "The Catherine Wheel" ("Horses"), che precipitano nella tensione cigolante alla maniera dei Cabaret Voltaire ("Speech"), e, mutando con non-chalance pelle, nel leit-motiv di una danza maghrebina ("Said And The Ants").

Lo sguardo conficcato nella pupilla del nuovo millennio

"Voglio spingere la gente a ballare e, allo stesso tempo, a piangere". È questo il fine di Look Into The Eyeball, album che tra ispirazioni andaluse e credits di tutto rispetto (da Vinicius Cantuaria a Caetano Veloso) ci consegna la personale sensazione di Byrne immediatamente successiva allo scoccare dell'anno 2000 e ogni suo fasto intorno. Ed effettivamente il piglio che, dalla descrizione oggettiva dei fatti, sfuma nella personale rielaborazione degli stimoli si fa più egocentrico con un artwork costruito intorno al proprio volto, che, gettato ormai alle ortiche ogni artificiale orpello tricologico, appare incanutito e dagli occhi vitrei.
La consolidata love story con il tropicalismo lascia riemergere tutta la tensione della voce byrneana ("U.B. Jesus"), capace di render perversamente innocente anche una ninnananna ("The Revolution"). Lo sguardo conficcato nella pupilla del mondo pone paradossali interrogativi su una base di mansueti archi ("The Great Intoxication"), mentre un gustoso video cartoon enfatizza la rivisitazione dell'umano agire quotidiano, così sintetizzata: "I'm achin'/ I'm shakin'/ I'm breakin'/ Like humans do/ I work & I sleep & I dance & I'm dead/ I'm eatin, I'm laughin & I'm lovin myself/ I never watch Tv except when I'm stoned/ Like humans do ("Like Humans Do"). Alla stregua di un compitino da presentare all'insegnante di cucina creativa, arriva la strana mistura di tunz tunz e Caraibi generante un'elettrica danza in lingua spagnola in compagnia di NRÜ dal Cafè Macuba ("Desconoscido Soy"), per poi andare a trastullarsi sulla soffice disco negritude di Barry White ("Neighborhood"). L'ultima effusione tropicale con la piccola, soave rumba di "Smile", per poi chiudere, sornione, in agrodolce ("Everyone's In Love With You").

Il gioco che già aveva sortito l'effetto sperato con l'ottima colonna sonora de L'ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, scritta da Byrne con Ryuichi Sakamoto, viene ripreso sedici anni dopo con Lead Us Not Into Temptation, realizzato per il film "The Young Adam" del regista scozzese David MacKenzie - tratto da un libro del 1954 dello scrittore beat Alexander Trocchi - con un cast che annovera tra gli altri Ewan McGregor e Tilda Swinton.
Il disco viene interamente registrato in Scozia, in compagnia di alcuni musicisti momentaneamente "rapiti" alle band più rappresentative del territorio: Mogwai, Belle and Sebastian, Delgados e Appendix Out.
Il lavoro, sin dall'apertura ("Body In A River"), pare fluttuare su fuochi fatui di lynchano imprinting, raffinato jazz notturno ("Seaside Smokes"), melodie languidamente desolate ricamate dagli archi in quello che diventa vero e proprio topos ("Canal Life"). Il revisionismo si serve di fiati umorali, per citare Charles Mingus ("Haitian Song"), mentre nebbiosa tensione cala con moto accelerato su di un sentiero urbano in bianco e nero ("Inexorable").
Sul finire trova spazio anche un tormentato corteggiamento per solo, riservato violino ("Dirty Hair") che in "Speechless" incontra, nell'unico episodio di tutto l'album, la voce emozionalmente ispirata di Byrne, creandovi un altro topos e rendendo "Lead Us Not Into Temptation", seppur colonna sonora quasi interamente strumentale, forse il più suggestivo lavoro di inizio millennio dell'artista.

Il successivo atto della carriera byrneana, in seguito a cui ci si aspetta ancora nuova, stupefacente produzione, con un po' di comprensione per un lieve, apparente, rallentare l'antica nevrosi è Grown Backwards del 2004.
Una proposta sicuramente ambiziosa, forse la più ambiziosa: l'album è realmente un pot pourri profumato di molteplice sonorità. Dalla supremazia degli archi all'omaggio al punk funk, passando  attraverso il canto lirico, senza scordare il rapimento esercitato dal tropicalismo, con un inaspettato finale dance-oriented.
L'apertura è percussiva, rintoccata da xilofono e ingentilita dai violini ("Glass, Concrete, Stone"), per poi gettarsi in una strabiliante incursione nel canto lirico con Rufus Wainwright in "Au Fond du Temple Saint", tratto da "I pescatori di perle" di Bizet e, rigorosamente in italiano, ne "La Traviata" di Giuseppe Verdi ("Un Dì Felice, Eterea").
Il neo-tropicalismo, corretto dai melodiosi archi, diviene iper-calorico ("Tiny Apocalypse"), e, come rendendosi conto di poter risultare indigeribile, si tira indietro con un richiamo all'antico funk ("Dialog Box"). Piacevole nella seconda parte anche la voce sulla chitarra acustica e il violino che aprono "Pirates", lasciando il posto alle filastrocche ("Glad"). E la chiusura è una ruffiana dance bonus-track con gli X-Press 2, ospiti d'onore, dopo l'eccessivo profluvio d'archi dei Tosca Strings, quasi reali protagonisti di tutto il disco.

In occasione del venticinquennale di My Life In The Bush Of Ghosts, Eno ricompone lo storico duo con David Byrne. Ma Everything That Happens Will Happen Today, annunciato come un disco di "gospel elettronico", tradisce le attese.
Il punto debole non risiede nella sua propensione al pop, ma nel modo in cui essa è stata realizzata: se infatti l'ossessiva ripetizione del titolo dell'iniziale "Home" o le discrete aperture armoniche della title track presentano se non altro una propria fisionomia, ancorché condita da banalità nello stile e nei testi, non possono definirsi in altro modo che imbarazzanti le soluzioni ritmiche di "Strange Overtones", il forzato arrangiamento giovanilista di "Life Is Long", nonché l'incomprensibile andamento da coro da stadio di "One Fine Day". Ad assecondare il dichiarato intento di electro-gospel resta la sola "Wanted For Life", pezzo peraltro senza capo né coda. Come in tutto il resto del lavoro, anche qui permane una sensazione di ingiustificata magniloquenza, non supportata nemmeno dalla necessaria interazione tra scrittura ed elementi compositivi: malferma e sfuocata la prima, scialbi e privi di carattere i secondi, che in una sola occasione ("I Feel My Stuff") lasciano intravedere un tentativo di amalgama altrimenti sconosciuto al resto dei brani.

Che registri un disco con un ensemble di musicisti sudamericani oppure con i Tosca Strings, che collabori con i Mogwai o con Ryuichi Sakamoto - senza tralasciare le sue incursioni, peraltro piuttosto fortunate, nel mondo della dance music con i Thievery Corporation e soprattutto gli X-Press 2 di quella "Lazy" che pochi anni fa ha scalato le classifiche - Byrne ha avuto sempre uno stile riconoscibilissimo, e non si è mai particolarmente curato di seguire le mode.

Nel 2010 lo troviamo alle prese con Here Lies Love, un doppio disco che nasce da un'idea bizzarra: un ciclo di canzoni dedicate alla controversa figura di Imelda Marcos, vedova dell'ex-dittatore delle Filippine, e al suo rapporto con la donna che l'ha allevata, Estrella Cumpas. In bilico tra un concept-album e un musical, questo nuovo lavoro lo vede collaborare con Norman Cook, da anni noto al grande pubblico come Fatboy Slim ma con un passato pop anche negli Housemartins.
C'è posto non solo per le tentazioni latine, ma anche per il funk elettronico, un più tradizionale brano da musical (ben interpretato da Martha Wainwright) e una "Ladies In Blue" il cui stile ricorda non poco un classico della disco music come "Last Dance" di Donna Summer.
Tantissimi sono gli ospiti (tutte donne, fatta eccezione per Steve Earle) che hanno partecipato al progetto, e che sono riusciti con successo a dar voce ai vari personaggi che si incontrano nel corso dei 90 minuti d'ascolto. Tocca a Florence Welch (Florence + the Machine) aprire le danze con la bella title track, mentre Tori Amos risulta particolarmente adatta al ruolo della madre di Imelda in "You'll Be Taken Care Of". Al già citato Earle è affidato il "cuore" del primo cd, e in "A Perfect Hand" indossa i panni di Ferdinand Marcos (sarà invece una Cyndi Lauper in stato di grazia a documentare il corteggiamento tra i due in "Eleven Days"). Non stupisce la presenza di Kate Pierson, voce degli indimenticati B 52's, visto che Byrne già lavorò con la band di Athens all'inizio degli 80. Convince in pieno la performance di una signora del soulcome Sharon Jones in "Dancing Together", e anche Alice Russell, cui tocca la parte di un'Imelda tradita dal marito e vendicativa in "Men Will Do Anything". Non si capisce però il motivo per cui Byrne citi 50 Cent e internet nel testo della feroce "American Troglodyte" (che arriva subito dopo "Please Don't", brano a dire il vero non troppo accattivante, nonostante sia stato scelto come singolo di lancio) dal momento che la storia si svolge prima dell'esilio dei Marcos. Tuttavia, si tratta di una delle poche note stonate di un album che diverte, trascina. È furbo, danzereccio, ma riesce anche a far pensare.

Artista empatico, genio nevrotico, uomo curioso, canuto e tonico sessantenne, piuttosto che riciclare e restaurare i fasti della new wave, Byrne studia, si guarda intorno, gira in bici, cerca nuovi sodali e sperimenta diverse combinazioni. Affascinato dalla world music, dispensatore di buoni consigli dal suo stuzzicante canale radio, nelle cui playlist è facile imbattersi in una giostra internazionale, che zigzaga tra Caetono Veloso, Bjork e L’orchestra di Piazza Vittorio, non si fa problemi a collaborare con le nuove e meno nuove, lucenti leve.
Dopo Fatboy Slim, è la volta di Annie Clark, aka Saint Vincent, bella, colta e intraprendente stellina pop conosciuta tre anni fa a New York, in occasione di un concerto benefico. Dall'incontro tra i due nasce Love This Giant (2012), un disco incentrato ancora una volta sul tema della nevrosi urbana.
Le promesse vengono mantenute già da subito, con “Who”, singolo, che, sin dai fiati d’apertura, denuncia lo spirito ludicamente funk di tutto l’album. Incontro fortuito su una strada della provincia newyorkese – come nel divertente video promozionale, corredato da byrneiane ed esilaranti danze – il brano è, liricamente, un interrogarsi sulla possibile empatia di un incontro del tutto fortuito, in un riavvolgersi del nastro alle “Little Creatures” di oltre 25 anni fa.
Le piccole creature, scaraventate nel presente, si adattano da subito, tirano a lucido le intenzioni e, con nuovi ammennicoli a immagine di sassofono, trombone e corno francese, continuano il discorso in “Dinner for Two”. Il gusto dello sperimentare qualsiasi tipo di sostanza sonora non lascia da parte nemmeno il gospel, come nell’intro di “I’m An Ape”, mentre, in un altro momento, non si rinuncia al gusto di una pop-wave moderatamente sincopata, come in “Lazarus”, altro episodio a due voci, tra i più riusciti dell’album. 
Nella fedeltà a sé, David Byrne non scorda d’essere amante devoto della world music, tanto da aver fondato la Luaka Bop, deliziosa etichetta di diverse latinerie; l’omaggio è reso nella iper-luminosa e lussureggiante “The One Who Broke Your Heart”, che, in un gioco provocatorio - assecondato dall’ospitata di Antibalas e The Dap Kings, direttamente da casa Daptone - sarebbe assolutamente credibile, tra le bonus track di un’edizione remastered di “Rei Momo”. 
La chiosa è un adorabile lieto fine romanticamente futurista, una ballata per solo David, che non esita a mostrare con orgoglio i segni di una splendida maturità, distante dall’antico nichilismo e dal vertiginoso amore per il cinismo (“Outside Of Space & Time”). Per St. Vincent, i riferimenti sono diversi e non pedissequamente ricalcati, ma semplicemente personalizzati; tra tutti, la Bjork più leggera (“Weekend In Dust”) e, nell’uso della voce, nei primi quaranta secondi di “Ice Age”, l’incarnato pallido ed elegante di Laurie Anderson.
Nell’ottica di uno sbilanciato, ma inevitabile paragone, naturalmente David Byrne, non soltanto per diritto anagrafico, resta il magnifico gigante da amare, continuando a brillare di luce propria, come polo magnetico e generoso di una deliziosa e interessante vestale.

A più di trent'anni da "Talking Heads: 77", quando davvero il presente ci pare disconnesso nelle sue dinamiche quotidiane, il nostro ufficio diventa il luogo privilegiato dei nostri attacchi di panico, la televisione pronta a esplodere del suo stesso, grottesco contenuto, gli spazi pubblici piccoli allestimenti di un itinerante teatro dell'assurdo, la discoteca planetaria pulsante sudore e silicone... quando ci assale il dubbio di esser inconsapevolmente divenuti parte integrante di tutto questo, corriamo in camera, e, se siamo salvi, pescheremo a occhi chiusi "Remain In Light", il disco che, ancora oggi, licenzierebbe senza troppa fatica ogni nostro mite terapeuta.

A distanza di quattordici anni da Grown Backwards, ultimo album solista del 2004, esce American Utopia, opera corale, concept nel quale gli ospiti non mancano, a partire dal sodale Brian Eno, che firma la gran parte delle tracce, insieme con Daniel Lopatin, aka Oneohtrix Point Never, per citarne solo alcuni.
L’idea è quella di realizzare un breve trattato su ciò che è l’America oggi, in preda ai postumi di un delirio di onnipotenza radicato nella storica vocazione al capitalismo, ridotta a patetica moda neo-liberista attraverso cui ostentare disperata vitalità per il tramite di un sistema socio-relazionale smagliato e abbarbicato al sogno di una materialistica auto-determinazione per tutti, distante anni luce dalla realtà di un profondo disagio, condito da nevrosi e, a tratti, psicosi. L’aspetto – tra gli altri – assolutamente interessante è il piglio con il quale Byrne racconta il palcoscenico sul quale questa farsa è messa in scena: grottesco, esilarante, coltissimo.
Venendo ai contenuti, l’album si apre con “I Dance Like This”, ballata cosmica, post-romantica e alienata, sospesa tra pianoforte nervoso à-la Radiohead, clangori lunari e cori alieni. “Everybody’s Coming My House” è “I Zimbra” in the city, la reincarnazione millennial delle fiere in preda al sabba del secolo scorso. “Every Day Is A Miracle” è come prendere i Matt Bianco di “More Than I Can Bear” e abbandonarli in un club sudamericano a jammarecon gli autoctoni. “This Is That”, composta da Daniel Lopatin, è un flusso di coscienza nel quale il tutto si riduce ad un’impossibilità - o a una mancanza di volontà – di nutrire una vaghezza concettuale: “This is when/ This is now/ This is that/ This is how/ This is what/ This is then/ This is where”, recitata come mantra a se stessi. In “Dog’s Mind”, nella quale torna, senza neanche troppi preamboli, l’interazione dolcemente elettronica con Eno, accade che gli uomini siano, a volte, come piccoli cani, carini e vanitosi, in preda a un vuoto ontologico impossibile da colmare.
“Here”, ancora scritta da Lopatin, chiude con una cascata di effetti elettronici e voci da un Altrove interstellare che dilatano le percezioni spazio-temporali nel viaggio intrapsichico e psichedelico alla ricerca di una sfavillante ghiandola pineale, unità nella dualità, sintesi dialettica tra luce e ombra.
America is waiting for a message of some sort or another. Takin it again. Again! Again!

Contributi di Raffaello Russo ("Everything That Happens Will Happen Today"), Alessandro Liccardo ("Here Lies Love")

David Byrne

Discografia

My Life In The Bush Of Ghosts (with Brian Eno, Sire/EG, 1981)

8,5

The Catherine Wheel (Sire Records, 1981)

7,5

Music For The Knee Plays (ECM, 1985)

7

The Last Emperor (with Ryuichi Sakamoto, colonna sonora, Virgin, 1987)

Rei Momo (Luaka Bop, 1989)

7

The Forest (Luaka Bop, 1991)

7

Uh-Oh (Luaka Bop, 1992)

6,5

David Byrne (Luaka Bop, 1994)

6,5

Feelings (Luaka Bop, 1997)

6,5

The Visible Man (Luaka Bop, 1997)

6

Your Action World (An Inspirational Message...) (Luaka Bop, 1998)

In Spite Of Wishing And Wanting (Luaka Bop, 1999)

7

Look Into The Eyeball (Luaka Bop/Virgin, 2001)

6,5

Lead Us Not Into Temptation (colonna sonora, Thrill Jockey, 2003)

8

Grown Backwards (Nonesuch, 2004)

6,5

Everything That Happens Will Happen Today (with Brian Eno, Todomundo, 2008)

4

Here Lies Love (with Fatboy Slim, Nonesuch, 2010)

7

Love This Giant (with St. Vincent, 4AD, 2012)

7,5

American Utopia (Nonesuch, 2018)

7,5

Pietra miliare
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