A sei anni dalla pubblicazione dell'ultimo lavoro in studio, le lancette dell'orologio degli ...A Toys Orchestra puntano di nuovo sulla mezzanotte. È infatti appena uscito il loro splendido nuovo album, "Midnight Again", e abbiamo approfittato di questa ghiotta occasione per intervistare Enzo Moretto, mente e anima della band. Ne è venuta fuori una piacevolissima chiacchierata, che spazia dal significato del nome del gruppo a quello della solitudine, dal rapporto con la musica italiana al rapporto con l'immaginazione. Ma non finisce qui! Grazie all'estrema disponibilità dei Toys, abbiamo messo in scena, in calce all'intervista a Moretto, anche una più scanzonata intervista multipla, che coinvolge nelle risposte i vari componenti della band. Buona lettura!
Scaldiamo l’atmosfera con un grande classico. Da dove arriva il nome “...A Toys Orchestra”? E perché proprio con i puntini di sospensione?
Beh il nome nasce tanti anni fa come “Toys Orchestra” senza i puntini e senza la “a”. Era sul finire degli anni 90. Mi piaceva l’idea di pensare a un progetto ampio, aperto, come una piccola orchestra per l’appunto, ma non essendo noi degli orchestrali per definizione, ho pensato di renderla “orchestra di giocattoli”. L’articolo indeterminativo “un” sarebbe poi servito a sgonfiare ancora di più un termine impegnativo come “orchestra”. I tre puntini invece sono frutto del mio disturbo ossessivo compulsivo… troppo complesso da spiegare. C’è da dire, però, che è stata una buona scelta, a conti fatti, perché nei cataloghi in ordine alfabetico, grazie ai puntini e alla “a”, compariamo sempre come primi.
La vostra line-up negli anni si è leggermente modificata. Chi sono gli ...A Toys Orchestra oggi? Ci presenti i tuoi compagni d’avventura uno a uno? (Domanda peraltro anche propedeutica alla parte finale e un po’ pazza di questa intervista!)
Negli anni i Toys sono cambiati tante volte, tutti quelli che ci sono passati hanno dato il loro fondamentale apporto alla storia di questo nucleo. Alcuni ci sono rimasti per decenni, altri solo per qualche anno. Non me la sento di dire però che siano “usciti” dalla band, è più che altro un turnover funzionale ai processi creativi e/o relativo agli eventi personali di tutti quelli che sono passati di qui. La porta dei Toys non è mai chiusa per nessuno, come vi dicevo poc’anzi, è un progetto aperto. Ad oggi nella band come nuovi elementi sono entrati in forze Alessandro Baris alla batteria e Mariagiulia Degli Amori come polistrumentista. Oltre a essere due grandissimi musicisti di esperienza, sono delle persone meravigliose che hanno portato una ventata di gioia all’interno del progetto. Sembra quasi di essere tornati agli esordi, c’è un entusiasmo vibrante e si ride un sacco insieme. Voglio un bene dell’anima a loro e a chiunque abbia preso parte alla vicenda Toys negli anni. Oggi sono qui anche grazie a ognuno di loro.
Il vostro settimo e ultimo album in studio, “Lub Dub”, risalente al 2018, ha segnato un cambio di registro rispetto ai lavori precedenti. Emerge infatti in maniera preponderante l'impronta cantautorale, gli arrangiamenti sono più essenziali e le atmosfere risultano più intime e raccolte. Credi che questo passaggio abbia rappresentato un punto di svolta nella tua scrittura?
In parte credo sia così, ma è semplicemente accaduto e basta, senza alcun tipo di progettazione in tal senso. Quando si è più giovani c’è voglia di mettersi in mostra il più possibile, il che se fatto con cognizione di causa non è affatto un errore, ma crescendo capisci che le canzoni hanno bisogno di più spazio, o almeno nel mio caso è stato così. A dirla tutta, credo che non siamo mai diventati una band minimale, ma a un certo punto abbiamo riorganizzato gli spazi in maniera differente.
L’anno seguente ti ha visto impegnato in un tour solista in cui hai presentato molti brani del vostro repertorio in versione acustica. Com’è andata? Un’esperienza che ti piacerebbe ripetere in futuro?
Andare in giro in solo dopo tanti anni è stato incredibilmente significativo dal punto di vista emozionale ed emotivo. Era da tempo che sentivo il bisogno di confrontarmi con questo tipo di esperienza. La band, per definizione, fa gruppo, ti copre le spalle e si divide gioie e dolori. In solo è tutto diverso… è tutto puntato verso di te, e tu sei da solo puntato verso tutto. Per una persona timida e introversa come me è stata una prova difficilissima, ma come tutte le cose difficili mi ha poi restituito tantissimo. Quando sei una stanza con 50 persone a mezzo metro da te, le vedi una a una e stai interagendo con ognuna di loro in maniera diretta, intima e senza filtri. Stai parlando a ogni singolo convenuto, non è più solo uno spettacolo, ma un rapporto, una connessione, uno scambio diretto. Paradossalmente quando suoni davanti a migliaia di persone, è tutto molto più semplice e impersonale.
Dal 2019 passiamo al 2024. Finalmente è uscito, attesissimo dalla vostra fanbase, il nuovo album dei Toys, “Midnight Again”. Emozionati?
Tantissimo. Puoi avere quanti anni di esperienza vuoi ma ogni volta ti mette tutto in subbuglio.
Il titolo del nuovo album inevitabilmente rimanda a quelli di due dei vostri precedenti lavori: “Midnight Talks” e “Midnight (R)evolution”. Ci parli di questa scelta?
La mezzanotte concettualmente è uno strano limbo temporale: è “oggi” ma stai ancora vivendo “ieri” e sei già a “domani”. Il che è esattamente quello che sta accadendo di nuovo nella mia vita. La suggestione di formare una trilogia in connessione con il nostro passato e dunque ovviamente anche con il nostro presente e futuro era troppo forte. È venuta fuori da sé. Quando poi mi sono imbattuto nella foto che poi sarebbe diventata la copertina del disco con l’uomo con la testa di orologio che guarda al polso il suo stesso orologio, non ho avuto più dubbi.
Quali sono le suggestioni (eventi, ascolti, letture, eccetera...) che hanno avuto maggiore influenza nella scrittura dei brani di “Midnight Again”?
Molto banalmente la vita. Tutto quanto mi è accaduto in questi anni è stato riversato in musica e parole. Ad oggi il disco mi dà gioia ed entusiasmo ma la matrice è ben più sofferta. Ho attraversato un periodo molto problematico. Non è facile per me parlare pubblicamente di certi frangenti del mio vissuto personale, ma trovo sia altrettanto sbagliato trattarli come tabù. Considerare la sofferenza come qualcosa da nascondere è la strada sbagliata. Io ci scrivo canzoni, butto tutto lì… alle volte mi aiuta, altre no.
Il testo del primo singolo estratto dal nuovo album, “Life Starts Tomorrow”, parla di desiderio di ricominciare, di buoni propositi, di volontà di rivalsa. Ma anche di indolenza, di procrastinazione e di sensi di colpa. Ci racconti com'è nato?
Si riallaccia proprio a quanto vi rispondevo prima, e nella vostra domanda c’è già in parte la risposta. Anche per quello ho voluto fosse il primo singolo. È una canzone che si finge forte, ma è piena di ferite.
Nel testo si percepisce una buona dose di tagliente ironia. Già dal titolo “la vita comincia domani”, in effetti, pare di sentirla forte e chiara... Quanto peso hanno sentimenti come sarcasmo e ironia nella tua scrittura musicale?
L’ironia e il sarcasmo ti danno la possibilità di trattare certi argomenti con un piglio differente. Ridere delle proprie debolezze ti rende in qualche modo più forte, più sicuro. Come dice il detto “non serve ma aiuta”.
Spesso mi piace fare lo spaccone su quelle che sono le mie lacune, le mie debolezze… mi dona l’illusione di smarcarmene beffardamente. Purtroppo, non è così semplice, ma di sicuro aggiunge un certo gusto. L’autoironia ti dà la possibilità di parlare delle sofferenze con un linguaggio che è più versatile e accessibile a tutti. È uno dei modi per rifuggire i suddetti tabù di cui prima.
Il videoclip del brano è estremamente interessante. Magnetico. Sullo schermo scorrono i volti di tanti personaggi, uno diverso dall’altro, ciascuno con la propria storia personale (e i propri “buoni intenti” per il giorno dopo...). Ci racconti qualcosa dell’ideazione e genesi di questo videoclip, di cui peraltro tu sei anche il regista?
Credo che nel volto umano ci sia sempre qualcosa da leggere, da scorgere, anche quando un viso non proferisce parola, qualcosa ti arriva comunque. Lo sguardo è il più primordiale dei gesti di comunicazione. Senza aprire bocca possiamo far capire esplicitamente quello che vogliamo a chi ci sta di fronte. Se siamo felici, arrabbiati, eccitati, attratti o spaventati. O al contrario possiamo bluffare…
All’inizio non pensavo di realizzare un vero videoclip per intero. Stavo cercando più che altro un volto, un’espressione da mettere in ripetizione a mo’ di visual-loop. È stata però proprio questa ricerca tra centinaia di volti ed espressioni da scegliere che mi ha messo di fronte a una serie di stimoli emotivi fortissimi. Ho quindi cominciato a montarli casualmente in sequenza sulla musica, in un primo momento senza un senso logico. Stava succedendo qualcosa, ho scorto che avevano già un nesso comunicativo fortissimo con la canzone. A quel punto c’ero dentro, e allora ho giocato al piccolo regista e ci ho lavorato su con la massima dedizione. Mi è piaciuto moltissimo farlo.
Nel brano c’è un piccolo cameo di dialetto (e di cinema) d’altri tempi: la parola “paisà”. Da dove arriva la scelta di utilizzare questo termine?
Ecco, tornando al sarcasmo c’è una frase che è puramente provocatoria: “Italian Rock Music Makes Me Sick” (la musica rock italiana mi fa star male). È chiaro che è una frase beffarda… antipatica, viene fuori il finto spaccone di cui vi dicevo prima. A quel punto “paisà” diventa una dichiarazione di intenti rivelatoria della natura del verso. D’altronde noi stessi siamo italiani e facciamo in qualche modo parte della musica rock italiana. Cantiamo in inglese però… e quindi “paisà” a quel punto ci stava troppo bene per coronare quella gag. Vuole fare antipatia e simpatia al contempo. Un po’ una via di mezzo tra il Carosone di “Tu vuo' fa’ l'americano” e il Battiato che recita senza remore: “L’impero della musica è giunto fino a noi/ Carico di menzogne/ Mandiamoli in pensione i direttori artistici/ Gli addetti alla cultura/ E non è colpa mia se esistono spettacoli/ Con fumi e raggi laser/ Se le pedane sono piene/ Di scemi che si muovono”.
“Take Me Home”, secondo brano estratto da “Midnight Again”, è una canzone sorprendente. Si parte con una malinconica e dolcissima ballata al pianoforte per poi accendere le atmosfere in un crescendo corale dal sapore gospel e infine, improvvisi e inaspettati, arrivano rintocchi di campane e fiati di morriconiana memoria a catapultare l’ascoltatore in un ipotetico scenario assolato e polveroso del lontano West (wow!). Ce ne parli?
Ecco, ve lo dicevo che non eravamo diventati una band minimalista. C’è di tutto in questo brano. Fiati, archi, cori gospel... eppure tutto si muove su una ballata di pochi accordi ripetitivi e un testo stringato. “Take Me Home” parte come un vecchio pastorale da focolare, scomoda i cliché della musica religiosa natalizia, cerca conforto e prova a infonderlo, ma a un certo punto era necessario un colpo di scena per dare senso alle parole che ci scorrono dentro. E allora abbiamo spinto sull’acceleratore e spostato lo scenario altrove, ma restando in qualche modo ben ancorati al significato della canzone. Questa canzone senza quel finale non avrebbe senso… o meglio avrebbe un significato del tutto diverso. La progressione strumentale finale è in qualche modo la prosecuzione del testo della canzone. Senza di essa sarebbe una storia irrisolta, un romanzo senza finale.
Che cosa ti ha colpito in particolare dei canti gospel che hai ascoltato nella messa della comunità italo-africana che si teneva nella sala prove dove stavate registrando? Quella musica è risuonata in qualche modo dentro di te?
Beh, se si chiama soul è perché in quei canti c’è inequivocabilmente e letteralmente “anima”. Anche astraendoli dal concetto religioso, c’è inevitabilmente qualcosa di divino, di magnetico, di rituale. Avevo un’opportunità troppo grossa e non potevo farmela sfuggire. Un giorno ho chiesto al Pastore di poter conoscere il coro per proporgli di fare una canzone insieme. È finita che ne abbiamo fatte ben otto. Le ragazze sono state fantastiche, non avevano mai cantato fuori dalle loro funzioni, ma ogni qual volta provavamo una canzone, dopo pochissimo sapevano già bene cosa fare. In studio a microfoni accesi sembrava lo avessero sempre fatto, in realtà era la prima volta per loro. Non succede tutti i giorni… in qualche modo è accaduto un piccolo miracolo.
Ci racconti un po’ dell’origine e del significato del testo di questo brano?
Ecco, su questo non sono bravo… o meglio potrei provare a raccontare la mia visione del testo, ma preferisco che le canzoni restino canzoni. Spiegarle sarebbe un po’ uno smacco, secondo me. Perché una canzone, a differenza della parola scritta, ha la possibilità di avere mille significati diversi, e soprattutto ha la peculiarità di generare una combinazione alchemica con la musica che fa sì che ognuno ci trovi il suo vero significato. E il bello è che la tua interpretazione non sarà meno importante o veritiera della mia che l’ho scritta. È una forma di magia che solo la musica può generare, per questo preferisco non spezzare l’incantesimo.
A proposito di casa, come noto, voi siete originari di Agropoli ma da molti anni vivete a Bologna, che ormai è diventata un po’ la vostra seconda casa. Come vi trovate in questa città che vi ha adottati?
Io, Ilaria e Raffaele siamo qui in pianta stabile da oltre quindici anni. Bologna è l’unica città in cui vorrei vivere, se dovessi andarmene lo farei per solo andare a vivere in campagna, nella natura, ma come città non ce ne sono altre in cui mi sentirei a casa come in questa.
Un tema che ricorre nei primi due singoli estratti dal nuovo lavoro è quello della solitudine. Cosa significa per te “solitudine” nel 2024? E quali possono essere gli antidoti più efficaci alla solitudine al giorno d’oggi?
Credo che nel 2024 la solitudine abbia trovato forza come non mai. In un mondo che fa della connessione e della socialità i primi elementi di accettazione, se non hai i requisiti e resti un solo passo indietro, sei fuori, sei solo. La solitudine ha trovato delle nuove forme di espressione e si è rinforzata come mai prima. Oggi si è soli in mezzo a milioni di persone, il concetto dell’io ha ampiamente surclassato quello del “noi”. C’è una competitività spietata e sempre più insensata e distruttiva legata al mondo dei social network, del denaro, del modello vincente. È divenuto tutto un mettersi uno i piedi in testa all’altro pur di emergere. Non ci si tende quasi più la mano. C’è un ritmo perverso nella solitudine di questi anni, perché si è mascherata da socialità sin dal nome. Se metti un piede in fallo sei fregato, le gogne mediatiche, gli shit storm, i porn revenge, il ghosting, gli shadow ban, gli algoritmi... sono nuove forme di emarginazione dagli effetti terrificanti.
In “Goodbye Day”, terzo singolo estratto da “Midnight Again”, vengono citate per nome e cognome due figure carismatiche come Johnny Cash e Nick Cave, entrambi personaggi dotati di un’aura quasi mistica: c’è qualche aspetto della loro personalità (poetica o spirituale) che senti più affine o a cui vorresti aspirare?
Mi piace tutto di loro, anche il suono dei loro nomi. Per questo li ho inseriti nel testo. Se mentre ascolti una canzone senti nominare “Johnny Cash” ti fermi e pensi: “Hey, ma ha detto Johnny Cash!”. E poi se stai raccontando una storia e a un certo punto ti arriva Johnny Cash o Nick Cave… beh, ti svolta la storia. Sono stato un po’ paraculo forse. A riconferma di quanto dico, ho questo aneddoto. Una delle ragazze del coro gospel ha soli 13 anni, e quando ci siamo rivisti per girare il video mi ha detto: “Di tutte le strofe che ho cantato, quella che più mi è rimasta in testa è I will dress like Johnny Cash”. Allora io, sbalordito, le ho chiesto: “Ma dai! Davvero conosci Johnny Cash alla tua età?”. E lei di tutta risposta: “No, non ho idea di chi sia, ma mi piace troppo questa strofa”.
Alcuni brani della vostra discografia, ormai dei classici molto amati dai vostri fan, ritraggono figure femminili. Pensiamo a canzoni come “Hengie: Queen Of The Borderline” o “Mrs Macabrette”. Quanto c’è di reale e quanto di immaginario nella scrittura di brani come questi citati? E più in generale, quanto peso hanno realtà e immaginazione nella vostra musica?
Mi piace che spesso la realtà flirti con l'immaginazione. Non ho una formula precisa, però, alle volte parto da zero e mi creo tutto un mondo mio, altre volte trovo uno spunto nel vissuto reale e lo rimodello. Le due che avete citato sono frutto della mia immaginazione, ma lì fuori ci saranno migliaia di Hengie e Mrs Macabrette. Non le ho create io... le ho solo raccontate a modo mio. L’immaginazione dipende in modo imprescindibile dalla realtà.
Scrivere in inglese richiede una mediazione linguistica che potrebbe sembrare in contrasto con la spontaneità dell’espressione. Come si sviluppa di solito il tuo processo di scrittura?
Ad oggi, dopo così tanti anni, non c’è altro modo in cui so farlo. Ho iniziato a scrivere in inglese che non ero neppure maggiorenne e da allora ho continuato a farlo solo in quel modo. Anche in questo caso non c’è un iter preciso per il processo di scrittura. Alle volte mentre compongo una musica ci metto su delle parole a caso improvvisate per costruire una bozza di melodia, finisce poi che tra quelle parole buttate lì qualcuna di loro mi suoni bene in testa e mi apra degli scenari su cui costruire un testo, altre volte invece devo fare tutto separatamente. L’unica cosa che non faccio mai è scrivere prima il testo e poi la musica. Sono sempre le note a dettarmi le parole e non viceversa.
Siete sempre rimasti fedeli all’uso dell’inglese, ma in passato nel vostro percorso non sono mancati dei punti di contatto con la canzone italiana, come quando ad esempio avete accompagnato Nada come backing band nel suo tour del 2016. Com’è il tuo rapporto con la tradizione musicale italiana?
Se la musica è buona, non c’è idioma che tenga. In Italia è stata fatta tanta ottima musica e si continua a farla.
La copertina del nuovo disco, con l’immagine in bianco e nero di un uomo con la testa di orologio, ha un sapore un po’ surrealista. Come è nata l’idea? Utilizzeresti mai per un tuo lavoro delle immagini generate dall’intelligenza artificiale?
No. Non mi piace concettualmente. Per nulla. Non è solo questione di rifiuto della tecnologia, del “si stava meglio quando si stava peggio” o miopi estremismi di sorta. È che mi rifiuto di utilizzare l’arte se non è frutto di personalità o ingegno. A quel punto non è arte, è un prodotto.
L’era della musica in streaming si era aperta con il miraggio di un mercato musicale più aperto, mentre oggi ci si trova di fronte a un modello sempre più condizionato dagli algoritmi. Che cosa ne pensi della posizione riservata agli artisti dalle varie piattaforme di streaming?
Che non mi è mai piaciuto, non ci ho mai visto nulla di buono, ma siamo nel 2024 e bisogna accettare che è cambiata la fruizione. Sono inoltre totalmente contrario all’uso gratuito della musica sulle piattaforme digitali. È lo svilimento più totale del lavoro. Sarebbe da rivedere completamente la gestione. Concettualmente era più onesto scaricare la musica da eMule, almeno c’era coerenza nella consapevolezza di fare qualcosa di illegale.
E ora passiamo all’ultima parte dell’intervista, quella più ludica (che per un’orchestra di giocattoli ci sembra la conclusione perfetta!). Abbiamo pensato di terminare questa chiacchierata proponendo ai Toys una serie di domande, tra il serio e il faceto, a cui abbiamo chiesto loro di rispondere singolarmente, senza confrontarsi con gli altri e senza conoscerne le risposte. Quattro di loro si sono cimentati in questa buffa avventura. Pronti?
Il primo strumento che hai imparato a suonare. Ricordi, impressioni... raccontaci un po’!
Enzo: La tastierina che si trovava nel Nesquik negli anni 80/90. Imparai a suonare il tema di una pubblicità di una nota marca di pasta.
Ilaria: Il basso negli anni 90, avevamo un gruppo punk e serviva una bassista, non sapevo suonarlo, quindi ero perfetta.
Raffaele: Vabbe', il flauto a scuola come tutti. A parte quello la chitarra, che dopo due lezioni ho smesso di prenderle e ho iniziato a fare le cover dei Nirvana.
Alessandro: La batteria. Fu una folgorazione, mi recavo quasi ogni giorno ad ammirare quelle esposte in vetrina nel negozio di strumenti musicali, poi entravo e prendevo i cataloghi promozionali per poterli guardare a casa e studiare ogni dettaglio.
Sei nella macchina del tempo. In che epoca musicale la punti e dove vai?
Enzo: Negli anni '20 a Chicago... durante il proibizionismo. Me ne sarei andato in qualche bordello a bere whisky distillato clandestinamente. E poi al tempo avevano tutti il cappello.
Ilaria: Perdonate la banalità, negli anni 60 in America, quando la musica da intrattenimento cominciò a diventare fenomeno culturale... e poi mi sarei divertita da matti ad aspettare l'arrivo dei 70's.
Raffaele: Negli anni 60 perché c’erano i Beatles.
Alessandro: Nella Chicago degli anni 90, nella New York degli anni 80, nell’Inghilterra degli anni 60 e 70.
Suonano alla porta. È un famosissimo artista con cui hai sempre desiderato collaborare. Apri. Chi ti trovi davanti? E qual è la prima cosa che gli dici?
Enzo: Ennio Morricone. “Chiedo scusa maestro por mi vida loca”.
Ilaria: Nick Cave. “Ciao Nick, sei bellissimo.”
Raffaele: David Bowie. “David, mi insegni il giro di pianoforte di 'Life On Mars?'?”.
Alessandro: Mike Patton. Essendo di fronte a colui che reputo il più grandioso e versatile vocalist degli ultimi quarant'anni, gli chiederei di cantare su un brano del mio progetto solista di musica elettronica.
Se tu fossi una canzone, che canzone saresti (e perché)?
Enzo: “Secondo canto delle lavandaie” dalla commedia "La Gatta Cenerentola", della NCCP. Il mio cuore musicale ha cominciato a battere con questa canzone e lo fa ancora.
Ilaria: “La ballata dell'amore cieco” di De André. Perché è come se Leopardi venisse raccontato da uno stand up comedian. Ti fa sorridere di qualcosa per cui non c'è nulla da ridere.
Raffaele: “Black Hole Sun” perché è collegata ai ricordi indelebili dei decadenti anni 90, ed è forse la canzone più bella scritta in quel periodo.
Alessandro: “The Unanswered Question” di Charles Ives, la miglior colonna sonora con la quale identifico la mia percezione dell’esistenza.
L'aneddoto più pazzo che ti è capitato ad un vostro concerto. Ce lo racconti?
Enzo: Una volta ero particolarmente ubriaco sul palco. Finito il concerto scendendo le scale inciampai e finii dentro uno di quei cassoni flight case giganti del service e si chiuse anche il coperchio. Rimasi lì dentro chiuso per un po' fino a quando non vennero a riaprirlo.
Ilaria: Il nostro furgone scalcagnato smise di funzionare poco prima di un nostro live al Tago Mago. Appena finito il nostro concerto, dovemmo chiedere al pubblico presente di darci una mano a spingerlo per rimetterlo in moto.
Raffaele: Arriviamo in un posto dove c’era un palco scalcagnato, e io, preoccupato, chiedo spiegazioni ai ragazzi dell’organizzazione, loro mi rispondono che era tutto a norma con collaudo del Comune. La sera, durante il concerto, salto imbracciando la mia chitarra ed entro letteralmente nel palco. Paura e delirio.
Alessandro: Non con i Toys, ero ospite in un appartamento privato a Brest, in Francia. Il pomeriggio prima del soundcheck ho trovato un ladro in casa ma è finita bene.
Il primo concerto a cui sei andato? E l'ultimo?
Enzo: Pino Daniele a Cava De' Tirreni negli anni 90. L'ultimo il nostro al Locomotiv (22 marzo 2024, ndr). Qualche giorno prima ero andato a vedere i Korobu sempre al Locomotiv.
Ilaria: Pino Daniele a Cava De' Tirreni negli anni 90. L'ultimo il nostro un paio di giorni fa (22 marzo 2024, ndr).
Raffaele: U2/Velvet Underground, Napoli, 1993. Built To Spill, Bologna, 2023.
Alessandro: Primo Maggio a Roma, Radiohead, 1995. Paolo Angeli, ieri sera (17 marzo 2024, ndr) a Bologna.
Il tuo più grande innamoramento musicale.
Enzo: mia madre mi racconta che da bambino impazzivo per Alberto Camerini, poi i Pink Floyd da ragazzino e i Nirvana da adolescente... e di lì in avanti un mare di cose bellissime.
Ilaria: Black Heart Procession.
Raffaele: Forse i Doors, anche perché sono stati sicuramente i primi di cui mi sono innamorato in età adolescenziale.
Alessandro: In diversi momenti: Fred Frith, Tortoise, Pixies, Queen, Mr Bungle, Pavement, Max Roach, Radian.
Sei su una torre. Hai con te cd, mp3 e vinile del tuo album preferito. Puoi conservare un solo oggetto. Cosa tieni e cosa butti?
Enzo: Vinile. È l'unico oggetto che ha senso acquistare anche quando non hai un giradischi. Mi spiace un po' buttare il cd... Però se la regola è questa...
Ilaria: Tengo il vinile, butto il resto.
Raffaele: Ovviamente tengo il vinile e butto via tutto il resto.
Alessandro: Lascerei il solo vinile sulla torre e mi lancerei nel vuoto dopo cd e mp3.
A proposito… ora siamo curiosi! Il tuo album preferito è…?
Enzo: Non esiste un solo album preferito per me. Quello che mi fa più schifo però... ve lo dirò alla prossima intervista.
Ilaria: “The Wall”, Pink Floyd.
Raffaele: “Abbey Road”.
Alessandro: È impossibile dirne uno solo! Ne cito uno dei tanti: “Motion” dei Cinematic Orchestra.
Un evergreen delle interviste multiple: definisci con un nome o un aggettivo (o anche più di uno, via!) ciascun membro della band.
Enzo:
Ilaria - Inconsapevole meraviglia, una strega.
Raffaele - Cucciolo di pitbull, ha il cuore di un cucciolo e un morso letale. Fratello chimico.
Alessandro - L'uomo più conosciuto che abbia mai conosciuto. Penso che lo abbia in rubrica anche Papa Francesco. Il suo consumo di frutta secca ha modificato il pil del Sudamerica. L'uomo più divertente che si possa incontrare. Chiedigli un'imitazione e te la farà... anzi non dovrai neppure chiedergliela.
Mariagiulia - È matta, per fortuna. Con lei rideresti anche a un funerale.
Ilaria:
Enzo - Stacanovista.
Raffaele - Il tour manager dei tour manager, angelo/diavolo custode.
Alessandro - L'atleta, il testimonial degli omega3.
Mariagiulia - Tarantolata. Non lo sa ancora, ma può fare qualsiasi cosa voglia.
Raffaele:
Enzo - Genio e sregolatezza.
Ilaria - L’eterna smemorata.
Alessandro - L’uomo che non deve chiedere mai.
Mariagiulia - La donna dal sorriso lucente.
Alessandro:
Enzo - Capitano.
Ilaria - Piuma.
Raffaele - Chirurgico.
Maria Giulia - Sorella.
Bruno e Igor, rispettivamente il nostro fonico e il nostro tour manager - Angeli custodi.
Per concludere, ti chiediamo un saluto, una riflessione o un pensiero da rivolgere direttamente a chi sta leggendo questa intervista.
Enzo: Comprate i dischi degli ...A Toys Orchestra. Comprate i dischi di chi volete... tranne quelli di quello là.
Ilaria: Hallelujah!
Alessandro: Grazie per il vostro affetto e supporto.
E, da parte nostra, un grande grazie, ragazzi. È stato un vero piacere!Alessandro: Grazie a voi!
(31/03/2024)
Technicolor revolution (Peccato che il mio caro attrezzo si rivelerà poi non in grado di registrare l’intervista, causa memory card full, quindi l’esito della chiacchierata è fissata dai tradizionali appunti raccolti con carta, penna e calamaio, ndr).
Sì, lo uso per fare piccole registrazioni casalinghe, molto lo-fi, e per fissare le interviste. Piuttosto, la tua chitarra è molto caratterizzante: non la solita scontata Fender o Gibson. Enzo: E’ leggerissima, credo pesi la metà di qualsiasi altra chitarra, ha un suono che mi soddisfa, e non sono l’unico estimatore di questo strumento: se ci pensi bene questa chitarra la usava spesso Jack White nei White Stripes. Ovviamente la sua era di colore rosso, secondo la tipica estetica che da sempre porta avanti.
Dopo cinque album avete delineato un percorso che vi ha fatto transitare fra stili diversi: dall’ingenuo alt-rock degli esordi, agli scenari dominati dall’elettronica di “Technicolor Dreams”, fino al piglio più indie dei due lavori più recenti. Enzo: Un’evoluzione nel sound della band c’è stata senza dubbio, ma nulla di studiato o preconfezionato a tavolino. Ci piace pensare che gli …A Toys Orchestra possano essere percepiti come la somma di tutto ciò che hanno prodotto, e non solo come una parte dell’esperienza. Più che concentrarci sul mood di un intero album, amiamo focalizzarci su ogni singolo pezzo, dargli una vita propria ed indipendente, lavoriamo molto per dare la veste giusta ad ogni canzone Poi magari accade che il lavoro svolto in periodi ravvicinati, finalizzato alla produzione di un disco, possa avere delle matrici comuni. Ad esempio attualmente ci sentiamo un po’ arrabbiati, forse perché siamo ancora molto giovani.
Giovani sì, ma è già un bel po’ che state insieme… Enzo: Da una dozzina d’anni: non si vede dalle occhiaie ? (ride, ndr) Andrea: Gli …A Toys Orchestra esistono dal 1998, la band è nata e cresciuta ad Agropoli, provincia di Salerno. Io sono l’ultimo entrato, nel 2004, in corrispondenza con l'uscita del secondo album “Cuckoo Boohoo”.
Ed in questi anni avete consolidato una serie di abitudini. Analizziamone una a caso: com'è nata l'idea di scambiarvi continuamente gli strumenti sul palco? Andrea: A parte me che sto inchiodato sempre col culo sullo sgabello dietro la batteria, lo scambio di strumenti è una cosa che ci viene naturale e che facciamo da sempre, sia in sala prove che sul palco. Una scelta che conferisce vivacità e movimento all’esibizione.
Dopo il buon successo dei due “Midnight” ora arrivano una raccolta per il mercato estero ed un tour europeo… Enzo: Ad inizio gennaio 2013 la nostra raccolta “An Introduction To…” verrà pubblicata su scala europea, e contemporaneamente faremo delle date all’estero, fra le quali spiccherà la nostra partecipazione all’Eurosonic, un importante festival che si svolge a Groningen, in Olanda. Abbiamo delle date già fissate anche in Belgio e Germania. Siamo orgogliosi di tutto ciò, ma non ci creiamo troppe aspettative: cerchiamo sempre di non crearcele e di non crearne troppe agli altri. Cerchiamo di “fare” piuttosto che “aspettarci qualcosa”: siamo una band proletaria.
Come vi rapportate con il pubblico estero ? E’ diverso da quello italiano? Enzo: Gli applausi non hanno una lingua, però all’estero di solito troviamo un’attenzione diversa, c’è più silenzio, più curiosità. Non che il silenzio debba essere inteso necessariamente come una componente positiva, ma in questo caso trovo che si tratti di un silenzio per così dire “interessato”. E’ un pubblico che ci sta scoprendo ora, per noi è un po’ come ritornare indietro, come se dovessimo ricominciare da zero. E’ un pubblico che dobbiamo conquistare e al quale abbiamo tutto da dimostrare: una situazione divertente e stimolante.
Nel frattempo continuano a piovere premi e riconoscimenti. Enzo: Sì, è di questi giorni la notizia dell’affermazione come miglior videoclip per “Welcome To Babylon” al PIVI di Bari. A tal proposito dobbiamo inoltrare un sentito ringraziamento al lavoro svolto dal regista Marco Missano.
Quali sono gli ascolti musicali prediletti dei singoli membri della band? Enzo: Andrea passa agilmente dal rock anni 70 ai grandi cantautori italiani, tipo De Andrè. Andrea: Confermo: solitamente ascolto parecchia musica degli anni 60 e 70. Ultimamente però sto letteralmente consumando i dischi di Bonobo e Alt-J. Enzo: Ilaria non ha gusti molto differenti dai miei, ascolta svariati generi. Del resto chi fa musica in parte si alimenta della stessa, e seguire un solo filone sarebbe quantomeno deleterio. Di certo posso dire che Ilaria è una fan sfegatata di Nick Cave, ma segue con attenzione anche la "nuova musica" italiana: l'ho beccata più volte con i Verdena o Il Teatro degli Orrori a tutto volume. Raffaele (Benevento, il bassista, ndr) è estremamente attento alle nuove tendenze; io invece non riesco ad ascoltare molta musica nuova.
Davvero? Enzo: Sì, soprattutto quando sono in tour ho pochissimo tempo e pochissima voglia di ascoltare musica. E’ come se un “pizzettaro” andasse a mangiare una pizza nel giorno di riposo settimanale. Quindi inevitabilmente mi dedico alla lezione dei classici.
Strano: ascoltando i vostri pezzi si nota invece una certa attenzione a band del nuovo millennio, Arcade Fire in primis. Enzo: Beh, ci sono band contemporanee che ci catturano. Quello degli Arcade Fire è un classico accostamento che molti fanno, così come i Beatles del resto, anche se io preferisco prendere le dovute distanze da certi nomi, sono paragoni ingombranti dei quali non mi assumo alcuna responsabilità. Quindi nell’immaginario comune veniamo percepiti come una sovrapposizione fra classico e moderno, un mix stimolante, e questo ci fa piacere.
Dai, voglio un titolo ! Enzo: Guarda, posso dirti che oggi mentre guidavo per venire qui, in macchina stavo ascoltando “Heligoland” dei Massive Attack, che trovo un disco meraviglioso. Così come ho apprezzato il lavoro degli Alt-J: il loro è un disco strepitoso.
Avere nella band Ilaria, una ragazza così affascinante, pensi possa portare automaticamente dei punti in più o comunque una maggiore visibilità? Enzo: Non saprei, ma credo che questo genere di cose appartengano a mondi più patinati e posticci, lontani e diversi dal nostro. Ma seppur fosse così, di sicuro non ci abbiamo mai dato alcuna importanza, e mai gliene daremmo.
Qual è stato il momento in cui vi siete resi conto che non eravate più una band emergente per pochi intimi, ma che la vostra musica stava iniziando seriamente a diffondersi e ad essere apprezzata? Enzo: Beh, ci sono stati tanti fattori che hanno lasciato intendere la nostra crescita. Io personalmente l'ho capito da quando non sono stato più costretto a guidare il furgone.
Vostre canzoni sono state scelte per fungere da colonna sonora per alcuni film, anche stranieri. Enzo: Per noi è stata una grande soddisfazione, un riconoscimento per il lavoro che abbiamo svolto. Però finora si è trattato di concedere nostre composizioni scritte prima dei film. L’idea finora è sempre stata di chi ha curato le parti musicali delle pellicole, noi ci siamo arrivati sempre in maniera trasversale. Ora ci piacerebbe concepire una colonna sonora vera e propria, attraverso la quale commentare musicalmente un soggetto cinematografico compiuto.
Magari ne approfittiamo per lanciare un messaggio! Il nome di un regista? Ilaria: io voto per Spielberg.
Beh, in boca al lupo, però mi pare un nome abbastanza irraggiungibile… Enzo: Ilaria forse sta pensando ai risvolti economici della cosa, oltre ovviamente all’immaginario che può scaturire dal fatto di lavorare con un nome di questo calibro (risate, ndr).
Nel frattempo avete avuto anche una bella esperienza televisiva, partecipando come ospiti fissi al programma di Fabio Volo, su RAI 3. Enzo: Grande esperienza formativa, anche perché eravamo spesso costretti ad improvvisare sul momento. E’ stato interessante il fatto di dover interpretare situazioni in diretta, senza prove, magari c’era un reading da dover musicare su due piedi. Tutto sommato chi ha scelto di portare gli …A Toys Orchestra in televisione ha fatto una bella scommessa, una scelta coraggiosa. Per la nuova serie ci sono i Calibro 35, nostri carissimi amici, una band alla quale siamo molto legati, abbiamo anche collaborato in passato con Enrico Gabrielli. Diciamo che sono contento di aver fatto televisione, ed altrettanto contento di non doverla fare più.
Neanche per una partecipazione a Sanremo? Quest’anno ci sono i Marta sui Tubi… Ilaria: una presenza che approviamo! Enzo: Penso che Sanremo sia una realtà troppo diversa dalla nostra. Non credo che la nostra proposta e le nostre attitudini si sposino con le caratteristiche del Festival. Sinceramente è un’opzione che non ci interessa. Fra l’altro da regolamento credo non possano partecipare band che cantano in lingua inglese. E noi vogliamo continuare a cantare in inglese.
Quindi la scelta del cantato in inglese è al momento inderogabile? Enzo: Assolutamente inderogabile. Non ritengo che i nostri suoni si possano sposare bene con l’italiano. Magari se prendi il lavoro svolto dai Verdena potrei dirti che loro ci son riusciti bene, con il loro tipo di scrittura. Però i Verdena partono da suoni molto diversi dai nostri.
Non credi che provare ad incidere qualcosa in italiano possa rappresentare per te una bella sfida? Enzo: Questo è un principio tutto italiano. Il mondo è pieno di musicisti che si sono affermati sia a casa loro che su scala internazionale cantando in inglese. Pensa ai dEUS ed ai Venus in Belgio, ai Motorpsycho in Norvegia, a Bjork in Islanda! E potrei continuare a lungo. Tutte realtà che sono diventate transnazionali puntando sull’utilizzo della lingua inglese.
Voi siete originari di Agropoli ma da tempo vi siete trasferiti a Bologna. Di tanto in tanto tornate al paese natio e magari vi esibite lì? Ilaria: Torniamo soprattutto in corrispondenza delle feste, e capita che facciamo delle esibizioni lì. Siamo tradizionalisti, del tipo “Natale con i tuoi”, e quest’anno suoneremo proprio il giorno di Natale.
Con il successo che state riscuotendo, le vostre vite stanno in un certo senso cambiando ? Andrea: Penso che la nostra vita sia cambiata dal momento in cui abbiamo deciso di dedicare anima e corpo a questa grande passione che è la musica. Da quel momento c’è stato il contatto con la gente, il palco, migliaia di km percorsi in un furgone, per il resto non è cambiato nulla, tranne la consapevolezza di svegliarsi al mattino e sapere di fare il mestiere più bello del mondo.
Con chi vi piacerebbe collaborare in futuro? Enzo: Sai, questa è una domanda alla quale è difficile rispondere. Esprimere un nome è possibile soltanto quando si sta delineando in maniera chiara quello che sarà lo stile del prossimo disco, di quello al quale stai lavorando. Se un lavoro prende un piglio electro, cerchi un musicista con quelle caratteristiche, se ti stai dirigendo verso un rock un po’ più basato sulle chitarre, magari penseresti a Josh Homme dei Queens Of The Stone Age, se stai valutando situazioni più melodiche ed intimistiche, magari penseresti al più tranquillo dei cantautori. Andrea: Non so perché ma mi piacerebbe suonare con i Coldplay: scrivono delle ballad fantastiche!
Andrea, dal punto di vista tecnico, ti ispiri a qualche batterista in particolare? Andrea: Penso sia evidente il fatto che adoro il grande John Bonham (ride, ndr).
E voi non avete ancora idee su quali potrebbero essere le prossime mosse degli …A Toys Orchestra? Enzo: Ho un sacco di materiale che ho scritto, ma fin quando non avremo il tempo per rinchiuderci in uno studio di registrazione non sapremo valutare la bontà dello stesso. Il tutto va vagliato dalla band al completo.
Come si svolge il processo compositivo degli …A Toys Orchestra? Enzo: Sono io a scrivere testi e musiche, per lo più tutto comincia da bozze partorite a casa in forma embrionale, con chitarra o pianoforte: di rado vado oltre, perché preferisco lasciare un ampio margine per lavorarci tutti insieme una volta in sala prove. Il confronto con il resto della band è la formula che fa funzionare questo progetto: anche la scelta di far restare una canzone per solo pianoforte e voce è sempre frutto di un'intesa collettiva. Dove e come cerchi l'ispirazione? Beh, diciamo che non sono esattamente il tipo che se ne va passeggiare in riva al mare, poi torna a casa e inizia a scrivere. L'ispirazione può sorprendermi in qualunque momento, devo solo farmi trovare pronto. Ecco, forse potremmo dire che non sono io a cercare l'ispirazione ma è lei a cercare me.
Com'è stato il passaggio da una produzione affidata a terzi ad una gestita in proprio? Siete soddisfatti dei passi compiuti in tal senso? Enzo: In realtà le nostre produzioni non sono mai state affidate totalmente ad altre persone: anche quando abbiamo lavorato con Dustin O'Halloran fu una sorta di collaborazione. Trovo sia un metodo di lavoro molto fruttuoso e creativo, che consente di espandersi oltre il proprio cosmo e permette di guardare le cose da punti di vista diversi dai propri.
Vi piacerebbe/stimolerebbe in futuro riaffidare a qualcun altro la produzione di un vostro disco ? Enzo: E' una cosa che rifaremo sicuramente.
Come vi venne l’idea di fare una cover di “The Chaffeur” dei Duran Duran in un vostro EP ? Enzo: L’EP in questione doveva contenere delle particolarità, si trattava di un regalo per i nostri fan e volevamo cimentarci in qualcosa di non banale, in qualcosa di diverso da ciò che facciamo di solito.
Doveste incidere altre cover, su cosa vi indirizzereste oggi ? Enzo: Dovessimo incidere un altro EP di cover, forse oggi mi piacerebbe rivisitare qualcosa dei Young Marble Giants, roba minimale che potrebbe essere reinterpretata a modo nostro. Ilaria: Scegli quella che vuoi, purché sia tristissima. Io adoro posizionarmi fra l’oscuro ed il triste.
Voi venite dalla provincia: come si esce dalla provincia? Enzo: E’ difficile uscire dalla provincia. Noi abbiamo fatto tanta gavetta, ma ci vuole anche fortuna,. Noi siamo emersi in un momento storico diverso da quello odierno, quando ancora non era completamente cambiato il modo di fruire la musica. C’era ancora un rapporto più umano. Oggi Pitchfork ti lancia e ti affermi, poi magari sotto non c’è granché. Oggi è tutto più difficile.
Quindi che consigli potresti dare ad una band emergente? Enzo: Non ho una ricetta, forse direi di non ascoltare consigli, in quanto ogni storia è diversa dalle altre. La musica non è un lavoro normale, non è come svegliarsi la mattina e andare in fabbrica. Ci deve essere una scintilla, ci deve essere alchimia. Se manca quella c’è poco da fare. Uno potrebbe consigliare di cercarsi un buon ufficio stampa oppure una label attenta. Ma la cosa più importante è cercare di costruire delle belle canzoni.
A proposito di label, oggi ti sei esibito con una maglietta da guerrigliero con su scritto “Fuck Majors – Be Indipendent”: un inno all’indipendenza nel mondo musicale. Oggi si può fare a meno delle majors? Enzo: Oggi si può fare a meno delle major ma non si può fare a meno dei Fuck.
Ma questa benedetta scena alternativa italiana: esiste o è pura invenzione? Enzo: Oggi non c’è una scena, non è una vera e propria scena quella che c’è in Italia in questo momento. Una scena ha presupposti diversi: è qualcosa di coeso, con unità di intenti. Non dico che ci si debba muovere tutti nella stessa direzione, perché non sarebbe completamente positivo, ma almeno avere intenzioni comuni, reciproco aiuto. Penso agli anni 90, quando c’era il Consorzio (CPI, ndr), ma anche a certe situazioni estere dove era evidente una fortissima matrice comune, vedi il fenomeno grunge o il britpop. E’ sbagliato provare a spacciare l’attuale situazione italiana come una “scena”, preferirei chiamarla “realtà”. Magari ci vogliamo bene, questo sì, c’è solidarietà, ci si rispetta, c’è il buono ed il cattivo come in tutte le cose, ma una scena è un’altra cosa.
Dentro questa “realtà” ci sono band alle quale vi sentite particolarmente “vicini”? Enzo: Con tante band abbiamo elementi comuni. Ci sono tantissimi gruppi con i quali abbiamo delle affinità. Appino degli Zen Circus è un grandissimo amico. Altrettanto posso dire di Dente. Ma potrei citarti anche delle formazioni più “piccole”, meno note, come i Wines, sono siciliani, teneteli a mente.
Ti rendi conto che oggi gli …A Toys Orchestra sono cresciuti? Oggi se tu citi una band potresti creare un’improvvisa attenzione su di lei. Pensaci bene… Enzo: Questo mi fa piacere, ma non credo di avere un potere simile. Comunque se il gioco è questo qui, allora voglio citare i Crazy Crazy World Of Mr. Rubik, fautori di una proposta deviata ma assolutamente ascoltabile. Cantano in italiano, ci tengo a segnalarli.
E se c’è la segnalazione di Enzo Moretto, vale davvero la pena buttare un ascolto a quella che è la prima produzione dell’etichetta bolognese Locomotiv Records. Mystical Mistake Backbone Blues Nightmare City Celentano Red Alert Cornice Dance Midnight Revolution Welcome To Babylon Summer Powder On the Words Invisible … You Can’t Stop Me Now***
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Job (Fridge/Venus, 2001) | 5 | |
Cuckoo Boohoo (Urtovox/Audioglobe, 2004) | 5,5 | |
Technicolor Dreams (Urtovox/Audioglobe, 2007) | 7,5 | |
Midnight Talks (Urtovox, 2010) | 7 | |
Rita-Lin Songs (Ep, Urtovox, 2011) | 6 | |
Midnight (R)Evolution (Urtovox, 2011) | 7 | |
An Introduction To... (Urtovox, 2012) | 7 | |
Butterfly Effect (Urtovox, 2014) | 7 | |
Lub Dub (Ala Bianca, 2018) | 7 | |
Midnight Again (Santeria, 2024) | 7,5 |
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