Built To Spill

Built To Spill

Un approccio algebrico alla psichedelia

Solo apparentemente free form, le composizioni del mutevole ensemble di Doug Martsch seguono rigorosi e complessi schemi matematici, sublimando meticolosa ricerca in pura emozione. Ripercorriamo la loro attività, dagli esordi hardcore alla maturazione armonica del loro approccio "matematico"

di Alberto Leone

Matematica e passione. Da sempre un binomio inconciliabile. Sarà il ricordo di quel professore del liceo che bofonchiava incomprensibili formule in uno strettissimo dialetto del sud, oppure gli incubi a base di incognite e funzioni la notte prima degli esami di maturità; in ogni caso, parrebbe essere la repulsione il sentimento più ricorrente nei confronti della presunta "regina delle scienze".

Eppure, se si parla di emozioni musicali, di sentimenti e di trasporto, non si può non riconoscere (come dimostrato fin dall'antichità dalla scuola pitagorica) che i principi fondamentali dell'armonia si basano su regole essenzialmente matematiche.

Avete dei dubbi? Ascoltate attentamente i Built To Spill e tutto vi apparirà più chiaro.

Nei momenti di maggiore ispirazione le composizioni di Doug Martsch riescono nell'impresa di conciliare perfettamente gli opposti, elevandosi quali creazioni artistiche altamente emozionali/emozionanti delineate su (fredde?) strutture algebriche; sequenze sonore incredibilmente articolate, in cui si aprono e si chiudono (e poi si riaprono ancora) parentesi tonde, quadre e graffe, a delineare una stratificazione articolata della strumentazione e una suddivisione cerebrale delle singole particelle musicali. Estendendo la metafora possiamo identificarle con equazioni complesse, le cui incognite restano tali anche dopo la ri-soluzione; e proprio in ciò risiede il loro fascino misterioso. Le x, y, z rappresentano, infatti, simbolicamente inserti melodici e architetture armoniche che appaiono per poco, per poi scomparire e lasciare il posto ad altre, differenti, senza mai svelarsi del tutto, coprendosi con un velo di mistero, come bellezze orientali sfuggenti ed inavvicinabili.

 

Gli esordi hardcore

E dire che il barbuto Martsch aveva inaugurato la sua vicenda artistica con l'aggressivo hardcore degli State Of Confusion nella nativa Boise (Idaho), prima di trasferirsi a Seattle e virare verso uno scanzonato punk pop con gli ex compagni, nel mentre ridenominatisi Treepeople.

Emerge comunque già qui, nelle prime sperimentazioni chitarristiche del leader, pur ingabbiate entro i ristretti limiti dell'esplosività del punk, l'influenza di personaggi come J. Mascis dei Dinosaur Jr. che già avevano tentato di tracciare strade alternative nel mondo delle sei corde.

 

Una band mutevole intorno al nuovo Neil Young

È il 1993 quando Doug Martsch ritorna a Boise per dar vita ai Built To Spill con Brett Netson (ex-chitarrista dei Caustic Resin) e con il batterista Ralf Youtz (proveniente dai Lync). Membri fondatori a tempo determinato, giacchè, in un'intervista, lo stesso Martsch rivela che il suo progetto prevede cambi di formazione a ogni album, conservando solamente per se stesso il ruolo di membro permanente. Nulla di strano, comunque, dal momento che lui è incontestabilmente il deus ex machina del progetto e il suo stile chitarristico razionalmente astratto ne costituisce l'unico tratto realmente distintivo.

 

Il disco d'esordio, Ultimate Alternative Wavers (C/Z Records, 1993), suona ancora grezzo ed energico, quando non addirittura selvaggio, ma contiene in sé i primi riverberi di quelle lunghe esplosioni strumentali patrimonio del Neil Young elettrico ("Nowhere Nothin' Fuckup"), che verranno in seguito dilaniate e ricomposte certosinamente da mastro Martsch nei momenti di maggior fulgore artistico.

 

Il big bang dell'universo sonoro dei BTS

There's Nothing Wrong With Love
(Up Records, 1994) mantiene fede alla promessa di cambiamento di Martsch, in quanto sia Brett Netson sia Youtz vengono sostituiti da Brett Nelson (proprio così... da non confondere con il quasi omonimo) e Andy Capps. Il gruppo dà vita ad un'opera innervata di inquieto spleen adolescenziale, che illustra il faticoso percorso di crescita di un ragazzo come tanti.

Dall'esuberanza e i pruriti giovanili della baldanzosa "In The Morning" alle malinconie estive post-scolastiche di "Reasons", con passaggi in minore bruscamente interrotti da cambi di ritmo e un ritornello ossessivo che svanisce lentamente, le potenzialità del gruppo emergono a tratti, ma manca la continuità, un obiettivo finale ben delineato.

"Big Dipper", con il suo ritornello di facile presa e la ritmica incalzante ha già la statura di un classico indie-pop, ma "The Source" è confusa tra tentazioni leggere e pastiche avanguardistico, con uno sguardo di sbieco ai Violent Femmes e ammiccamenti all'"intellighenzia" musicale.

La flebile voce di Martsch cresce progressivamente nella lentissima "Car" e, quando il ritmo diviene preponderante, complice anche il pastoso accompagnamento d'archi, il brano assume una potenza ombrosa. Il contraltare è "Israel's Song", ingannevolmente preannunciata da un attacco feroce, che si adagia subito dopo su movenze funky non esattamente indispensabili.

Il violoncello scatena il pianto in "Fling", che potrebbe essere stata scritta dagli Rem ai tempi di "Green", così come, sospesa in un morbido limbo tra Stipe e Lou Reed, è anche "Cleo"; poche note sparpagliate nel vento, che rendono deflagrante l'assolo di elettrica che trascina violentemente alla conclusione.

Con il suo incipit folk-rock, "Stab" parrebbe un brano di protesta dei sixties, se non fosse per le consuete distorsioni che gettano la maschera, catapultandoci nuovamente negli anni 90.

Accompagnamento minimalista, invece, per la tenera "Twin Falls". È ancora il momento di sognare, per crescere c'è tempo.

Ma quel tempo giunge presto. È l'ora di "Some". Un attacco epico, con un assolo di elettrica che si avvolge come un boa alla sua preda e la voce che si inserisce timida per il pezzo piu lungo del disco. Poi, vortici sonori che crescono esponenzialmente inghiottendo letteralmente l'ascoltatore. Anche "Distopian Dream Girl" si dipana tra i tipici ghirigori chitarristici di Martsch (che a un approccio critico appaiono incredibilmente anche l'unico limite nella loro ridondanza). Sono comunque proprio questi brani a preannunciare i futuri sviluppi artistici dei Built To Spill.

"Hidden Track" è solo uno scherzo finale, "l'anteprima del prossimo album dei Built To Spill", come indica la voce fuori campo. In realtà, una marea appiccicosa di stili inconciliabili compressa in un paio di minuti che parebbe indicare il permanere di una rilevante personalità artistica anche nel completo caos sonoro.

 

Personalità che Doug Martsch coltiva con applicazione, clonandosi in alcuni progetti paralleli. Nel 1994 forma con Calvin Johnson (Beat Happening) e Steve Fisk (Screaming Trees) gli Halo Benders e nel 1996 registra con i Caustic Resin (il complesso di Brett Nelson) un Ep con quattro nuove composizioni.

La band nel suo complesso guadagna in esperienza e notorierà, suonando all'interno del festival itinerante Lollapalooza nel 1995.

 

Il grande salto in casa Warner

I Built To Spill sono una magnifica eccezione nel mondo della musica. Ulteriore conferma viene dal fatto che, a differenza di quanto accade alla quasi totalità dei gruppi, il momento della loro firma per una major (la Warner) corrisponde anche al loro zenith artistico. È con i primi due album per la casa madre dei Looney Tunes, infatti, che l'ossessione matematica di Martsch trova uno sbocco pienamente coerente e omogeneo.

Il gruppo storico è ora formato, oltre che dal leader, dal batterista Scott Plouf (ex-Spinanes) e dal bassista Brett Nelson, dal violoncellista John McMahon, da Robert Roth (al mellotron) e, ancora occasionalmente, dal chitarrista Brett Netson.

 

Nomen omen per Perfect From Now On (Warner, 1997). Qui dobbiamo inchinarci di fronte a vere e proprie opere "classiche" nella loro rigorosa strutturazione armonico-melodica, che evocano scenari psichedelici di strabiliante fulgore. È un viaggio nella mente privo di artifici e di facili effetti, a bordo di una nave spaziale progettata nei minimi particolari per procedere con sicurezza e regolarità. Matematica pura, che riesce ad astrarsi completamente fino a fluire libera nel cosmo e a disperdersi nei buchi neri ai margini dell'universo conosciuto. Il talento chitarristico di Martsch assume qui le sembianze di una creatura multiforme che rileva ogni archetipo possibile delle sei corde. I pattern si ripetono, si alternano, si inseguono, si intersecano, rendendo l'ascolto un'esperienza mistica raggiunta attraverso l'esperienza dell'assoluto.

Sequenze dai diversi colori, giustapposte per contrasto come mattonelle levigate di un pavimento sonoro che si muove, respira, cresce e vive di vita propria.

È tutto un susseguirsi di aperture melodiche e ripartenze lente, che guidano fino all'immancabile magistrale assolo, come in "Randy Described Eternity". Qui gli arpeggi tentennano su un unico accordo e, proprio quando il brano sembra non dover offrire null'altro, cresce all'improvviso con l'entrata della voce; una supplica flebile, che stenta a farsi strada nella spessa coltre chitarristica, suda e sanguina per aprirsi un minimo varco.

Oppure una serie veloce di triangolazioni tra le distorsioni della prima chitarra e la liquidità melodica della seconda, con la subdola complicità del violoncello ("I Would Hurt A Fly").

"Kicked It In The Sun" è una vacanza ritemprante dopo un anno di duro lavoro. Crogiolati sulla spiaggia di un'isola del Mediterraneo, con il riflesso sulle sei corde metalliche dei raggi roventi di un sole-padre che incarna la saggezza dei millenni passati. Quanta nostalgia nella voce di Martsch e in quel ritornello liquefatto come gli orologi di Dalì. Una quiete profonda. Poi un brusco cambio e ci si ritrova catapultati in un altro pezzo e poi in un altro ancora. È il ritorno alla frenesia della realtà dopo il sogno; ritmo e suoni si innervosiscono, accelerano e l'interpretazione si trasforma in un impetuoso atto d'accusa.

Quando si arriva a "Velvet Waltz" null'altro conta più. Il mondo pare fermarsi. Un lento incedere ferroviario in tre quarti, scandito delicatamente da chitarra e batteria, mentre la seconda chitarra inizia a ricamare fino a creare un vortice scandito da una ritmica incessante, uno stantuffo eterno su cui Martsch pare volere/potere improvvisare all'infinito. Sensazione di infinito che ci si porta dietro anche oltre il termine del brano, che rimane nelle profondità dell'anima come un karma (piacevolissimo) da cui non ci si può più liberare.

L'ariosa introduzione di "Stop The Show" precede un crescendo di batteria e chitarra che rievoca la singolare esperienza dei Thin White Rope (per i pochi che non li conoscessero, gruppo prematuramente dimenticato ma assolutamente da riscoprire!). Ritmica sincopata e un efficace ritornello pop introducono due minuti di nervosa confusione in cui il jingle jangle in stile new wave strizza l'occhio a tetraggini industriali.

L'intro acustica di "Made-Up Dreams" è sviante. I Built To Spill amano infrangere maliziosamente le aspettative. Un loop circolare, con la voce che sembra provenire dall'altrove e solo in un secondo momento la melodia su un tappeto di archi che lascia spazio ad un giocoso rincorrersi tra le due chitarre.

Anche allorquando il formato canzone sembra far capolino, come in "Untrustable/ Part 2 (About Someone Else)", si tratta solo di uno scherzo. A poco a poco ci si trova dinanzi una complessa suite suddivisa in più parti, con un finale da banda di paese che la rende ancor più originale. Un gioco di scatole cinesi (o se preferite di matrioske), nel quale su una struttura armonica principale vengono innestate altre microstrutture e altre ancora, come potrebbe fare un botanico fatto perso di acidi.

In tutte le otto composizioni non ci sono vuoti ma solamente pieni e più pieni, in una sbornia inebriante e continua che richiede vero e proprio dispendio fisico per un ascolto veramente attento a cogliere tutti i particolari. La psichedelia non vive qui di libere divagazioni lisergiche, come (ad esempio) nel caso dei Grateful Dead, o al contrario di circolarità ipnotiche, care al movimento shoegaze. Lo stato alterato di coscienza deriva semmai dalla lenta trasmutazione delle sequenze strumentali cui si aggiungono e si tolgono piccole parti con movimenti armoniosi che fendono l'aria come colpi di antiche arti marziali. Il tutto portato avanti con aristocratico distacco dalla pura materia.

 

Dalla ridondanza alla sintesi

A fine secolo, la pubblicazione di Keep It Like a Secret (Warner, 1999) aggiunge, oltre al plauso della critica, anche un primo significativo successo commerciale. Permane la struttura algebrica delle composizioni, che viene tuttavia snellita per essere resa accessibile a un pubblico più vasto, senza perdere alcunché in forza emotiva.

La dieta dimagrante agisce semplicemente in termini di dilatazione e articolazione, ma permane comunque la caratteristica multidimensionalità interna che registra cambi di ritmo, di sonorità, di forme e toni espressivi all'interno dei singoli brani. Una girandola ubriaca di idee che altri non sono riusciti a conseguire nemmeno in un'intera carriera.

Simbolica in tal senso è "Time Trap". La slide, liquida più che mai, integra i flebili rumori iniziali; poi altre linee di chitarra disegnano con forza nel solco della batteria avvolgendosi in una spirale esistenziale che allenta e aumenta la pressione. Una serie di accordi stoppati mette in evidenza le liriche decantate da Martsch con voce supplicante, fino ad un repentino cambio ritmico in tempo dispari che annuncia l'assolo di slide in un finale da festa della liberazione.

E poi, "You Were Right". Che dire? Almeno quattro grandi momenti apparentemente inconciliabili che convivono in assoluta armonia nello stesso appartamento. Un attacco corale e si cade subito nelle profondità del maelstroem. Poi parte la melodia e ci si ritrova sereni sull'erba del Central Park ad ascoltare Simon & Garfunkel. Ma ci pensa come sempre la chitarra del leader a spezzare il ritmo questa volta con un ossessionante pattern ripetuto fino alla noia. Solo basso e batteria in sospensione e, verso la fine, c'è ancora spazio per una melodia nuova di zecca.

"Broken Chairs" è, per chi scrive, il capolavoro assoluto in termini di sperimentazione/orecchiabilità, in un crescendo entusiasmante. Chitarre intarsiate in un'avvincente ragnatela di passaggi a centrocampo che nemmeno la Spagna campione del mondo... Poi la solista introduce la melodia, dolcissima, che fa da contraltare a una straordinaria ritmica sincopata, vera primadonna di questo finale spasmodico e glorioso. Una "Freebird" degli anni 90 in quanto a celebrazione del potere trascinante della sei corde.

Il resto dell'album non è da meno.

In "Carry the Zero" l'assolo di Martsch tracima languidamente dal sentiero melodico per avventurarsi verso nuovi spazi inesplorati, in un'atmosfera di attesa messianica.

"Temporarily Blind" è caratterizzata da un limpido tintinnio sulla sei corde, mentre i passaggi oscuri aperti dalla stridente concatenazione di accordi vengono riempiti copiosamente dalla melodia. La batteria detta un'insolita ritmica funky, quasi in completa solitudine, prima che gli altri strumenti si compenetrino in un gioco delle parti studiato nei minimi particolari; un oliato ingranaggio che richiede attori smaliziati, pronti a trasformare il freddo copione in calda poesia. E verso la fine un flebile pigolio, quasi un sussurro di neonato, che trasmette una leggera inquietudine fino al termine del brano.

Inquietudine che avvolge anche "Bad Light", un pezzo oscuro alla Lanegan (con arpeggio morbosamente ipnotico), che stagna nella palude dell'inconscio fino a trenta secondi dalla fine, quando la chitarra spezza, inaspettatamente, il ritmo e l'incanto.

A volte le ondulazioni chitarristiche sono impercettibili, impostate su sequenze circolari sul modello dei primissimi Feelies. Così è in "Else", che lascia l'ascoltatore in apnea con un cantato sorprendentemente melodioso sulla ritmica in levare.

E così anche nel finale di "The Plan", che schizza via con uno scatto da centometrista e poi procede con intersecazioni di chitarre intervallate da rullii percussionistici, prima di dilatarsi in bagliori psichedelici e poi adagiarsi mollemente sulle onde increspate dalla sei corde.

I pezzi più leggeri sono "Center Of The Universe", molto zuccherino, dal ritmo sostenuto, con l'interpretazione allegra di Martsch che rievoca gli Rem di "It's The End Of The World" e le rimembranze punk-pop degli esordi della veloce e ritmata "Sidewalk", che non rinuncia tuttavia a squarci chitarristici penetranti come lame affilate nel tessuto canzonettistico. Arte postmoderna, come le tele squarciate di Fontana.

Nel confronto con il suo celebratissimo predecessore, Keep It Like A Secret non perde nemmeno un grammo di fascino, anche se gli approcci sono per certi versi antitetici. Se Perfect From Now On si permette il lusso di rivelarsi senza fretta, spogliandosi poco a poco, con eleganza, il secondo, con vanitoso esibizionismo, si concede immediatamente in tutto il suo splendore, in preda a un desiderio irrefrenabile.

Proprio per questa sua immediata godibilità risulta, pertanto, essere l'approccio consigliato a chi voglia avvicinarsi per la prima volta al gruppo dell'Idaho.

 

A questo punto della carriera, il materiale di pregio è veramente notevole. Arriva perciò ad hoc la pubblicazione diun album dal vivo con versioni infinite (anche fino ai venti minuti) di alcuni "classici" del gruppo e di cover che ne delineano le primordiali influenze (Cortez The Killer in primis).Il titolo? Semplicemente e "fantasiosamente"... Live (Warner, 2000).

 

Sono solo... canzoni

Il quinto album inciso in studio, Ancient Melodies Of The Future (Warner, 2001) è, a tutti gli effetti, una raccolta di canzoni, che perdono le connotazioni epiche del passato per concentrarsi sull'aspetto melodico.

Ora i Built To Spill paiono una versione ancora pura degli Rem, soprattutto per come riescono a gestire una tavolozza sonora piuttosto limitata e ripetitiva, lavorando di cesello a limare le spigolosità per far risaltare la pulizia formale dei pezzi.

Durata media intorno ai quattro minuti, piu compattezza e poche divagazioni strumentali; certo la magia degli anni passati si è persa, ma il risultato complessivo è ancora in grado di far fare la figura dei pivelli a molti viziati (dalla critica) pseudo-eroi indie-pendenti.

Il lato più morbido di Martsch emerge soprattutto in "The Host", un pezzone romantico riempito dallo struggimento degli archi. Molto pacioso e piacione. Anche "Alarmed" ha un incipit sognante in sospensione nel terso aere primaverile. Poi però cresce esponenzialmente virando verso lidi country con tocchi alla Garcia e finisce in un crescendo che riporta per pochi istanti in vita gli splendori dei due dischi precedenti.

La stessa "Strange" parte con un attacco alla Pixies di "Where's My Mind?", ma le tastierine in sottofondo preannunciano chiaramente scenari leggeri e anche le chitarre perdono un po' di filo nelle lame e si normalizzano, se non nei fraseggi, perlomeno nella resa sonora.

Fanno eccezione al tendenziale clima soft "Trimmed and Burning" e "Don't Try". La prima ha un incipit da brividi. Pare di risentire i Dream Syndicate, con la chitarra acida di Precoda che ha rappresentato più di una ispirazione per Martsch. Il secondo è il pezzo più duro del lotto, che si rilassa solo nella parte centrale, con un ritornello ripetuto prima del finale. Manca tuttavia il consueto respiro armonico che dava all'alternarsi di intensità una direzione univoca. Respiro che ritroviamo con immenso piacere nella successiva "You Are", un viaggio siderale tirato, senza sosta; un volo ad ali spiegate nel cielo limpido della fantasia che, dopo un minuto di romantici preliminari, si scatena, senza freni inibitori, in un gaudente orgasmo cosmico.

Dopo emozioni così forti è tempo di svago con "Fly Around My Pretty Little Miss". Pezzo veloce anni 60 molto easy. Forse il piu ottimista di sempre dei Built To Spill, una sorta di "It's The End Of The World" (ancora... che sia una delle canzoni predilette da Martsch...?) ancorchè più solare.

I quattro di Athens fanno capolino ancor più prepotentemente nella finale "The Weather". Chitarra acustica in solitaria, che si elettrifica incorporando le tastiere per scatenenarsi nell'unico assolo di questo strumento nella vicenda Built To Spill. Molto "Reveal", con finale minimalista elettronico alla Eno.

Emerge, in alcuni momenti, la volontà di modificare gli usuali schemi armonico/melodici. In particolare "In Your Mind" merita un posto a sé stante nella discografia dei Built To Spill, in virtù di un'inaudita atmosfera misteriosa e orientaleggiante.

Singolare anche la solitaria slide bluesy in apertura di "Happiness", che poi innesca ritmiche beatlesiane del periodo "Sergent Pepper".

 

L'atteso ritorno al passato

Nel 2002 Martsch trova rifugio temporaneamente in Louisiana per immergersi nelle paludi del blues e svelare la propria anima solista e acustica in Now You Know (Warner, 2002).

Dopo una lunga tournée a supporto dell'album, dal 2003 al 2005 la band si riunisce per una serie di oltre 150 date. L'atteso ritorno su disco avviene solamente l'11 aprile 2005 dopo una lunga catena di difficoltà e numerosi posticipi.

 

You In Reverse (Warner, 2006) è il frutto maturo di Martsch, Nelson, Plouf e Roth. Il chitarrista Brett Netson compare ora solo in appoggio esterno mentre Sam Coomes dei Quasi è il tastierista e Steve Lobdell, proprietario dello studio di registrazione di Portland, contribuisce con chitarra, piano, vibrafono e percussioni.

C'è grande voglia di ritornare alle composizioni complesse degli anni d'oro, testimoniato dall'iniziale cavalcata trionfale di "Goin' Against Your Mind". Melodie brillanti e armonizzazioni strumentali impetuose si sposano con risultati che riescono ancora una volta a sorprendere nonostante il passare degli anni.

Il momento luminoso si popola di ombre nel marzo 2006, giacchè Martsch viene sottoposto ad un'operazione chirurgica per il distacco della retina; evento che obbliga il gruppo ad annullare diverse date del tour. L'ombra scende come una cappa oscura quando Andy Capps (ormai ex membro del gruppo) viene ritrovato morto in circostanze mai del tutto chiarite.

 

Verso la normalizzazione?

La critica plaude compatta alla rinascita dei Built To Spill, che ne approfittano per garantirsi una vecchiaia serena portando in tour l'esecuzione integrale del capolavoro Perfect From Now On.
Sul finire del decennio, There Is No Enemy (Warner, 2009) conclude forse la parabola dei Built To Spill nel segno di una naturale "normalizzazione", vale a dire una impacchettatura elegante, più formale che sostanziale, del loro enorme potenziale artistico.
L'inquietudine giovanile è ora definitivamente sostituita da una malinconica disillusione (evocata finanche dagli assoli di tromba di "Life's A Dream" e "Things Fall Apart"), che testimonia il raggiungimento di un approdo sicuro e confortevole.
Una certezza consolidata direbbero alcuni, lo svilimento della commercializzazione sentenzierebbero altri. Né l'una né l'altra definizione rendono però giustizia alla reale figura di Doug Martsch e compari. Quel che è certo è che i Built To Spill resteranno nella storia della musica grazie a un approccio alla materia sonora personalissimo quanto universale, tanto imprevedibile quanto, in fin dei conti, ripetitivo e ridondante.
Contrasti profondi, insomma (come matematica e passione); di quelli a partire dai quali si creano i miti. Proprio come i Built To Spill.

Ma la compagine di veterani del rock chitarristico ancora non ci sta e sfrutta la sua ormai monumentale esperienza per iniettare il giusto fuoco nell'ottavo Untethered Moon (2015), con una sezione ritmica nuova di zecca. Pirotecnico in tempo persino pop-core, persino liberatorio "Living Zoo", così come la ballata in forma libera di "All Our Songs" e la nenia Neil Young-iana di "So", tutte ricolme di sovratoni psichedelici. Gli 8 minuti di "When I'm Blind" sono poi un veicolo per i virtuosismi caotici del leader. Manca solo l'equilibrio tra canzoni personali del leader e questa ritrovata verve improvvisativa, ma di fatto questo è il quarto punto cardinale della loro storia, assieme a Ultimate Alternative Wavers, Perfect From Now On e You In Reverse.

Nel 2017 la band accompagna in tour Daniel Johnston. In memoria del cantautore di stanza a Austin e di quelle date insieme, i Built To Spill realizzano un album tributo: Built To Spill Plays the Songs of Daniel Johnston

Realizzano un tributo carino, ma piano e fin troppo opaco. Le canzoni di Johnston – realizzate con pochi mezzi ma eclettiche, anche sul piano timbrico, e con una forte carica emotiva – sono appiattite dall’uso di un organico standard per tutti i brani (chitarre elettriche e acustiche, basso e batteria) e penalizzare probabilmente da una registrazione piatta. É emblematica di ciò “Life in Vain”, in cui il confronto con l’originale non regge. 

L’interpretazione vocale è probabilmente il punto di scarto maggiore tra le versioni originali e queste cover: Doug Martsch manca dell’estrosità e dell’ironia ingenua amata così tanto nelle versioni di Johnston, quel vibrare a tratti anche incerto ma segno sempre di una personale sincerità espressiva. 

Per l'album successivo la band firma con la Sub Pop. When The Wind Forgets Your Name non è un ritorno a casa, anche se può sembrarlo a tutti gli effetti, tutt’altro, è una bella corsa. Ruspante e granulosa, ma anche calda come un abbraccio, "Gonna Loose” è l’opener perfetta di un disco gioioso, smanioso, a tratti addirittura euforico, anche nel finale di “Comes the Day”. Come quando la chitarra quasi saltella nella scalmanata “Never Alright", o quando si imbarca negli svolazzi fantasiosi e imprendibili della dolcissima “Spiderweb”, vera e propria ragnatela d’amore indie-rock infettiva e appiccicosa, in cui si rimane intrappolati.

Dall’ultima vera e propria fatica discografica della band, Untethered Moon (Warner Bros, 2015), sono passati ben sette anni, mentre ne sono trascorsi soltanto due dal poco apprezzato Built to Spill Plays the Songs of Daniel Johnston. Per Melanie Radford (basso) e Teresa Esguerra (batteria), entrambe entrate in formazione nel 2019, è dunque la prima volta alle prese con la scrittura di brani originali insieme a Doug, uno dei più apprezzati indie guitar hero degli anni 90, figlio ideale di Neil Young. Compare infatti lo spettro di “papà” – e anche dell'altro "figlioccio" J Mascis (Dinosaur Jr.) – in “Fool’s Gold” e “Elements”, quest’ultima però innervata dalla sinergia con la nuova sezione ritmica. Ironiche (“Rocksteady”) e riflessive (“Alright”), toste e psichedeliche per far scappare il brano fuori dai soliti tracciati (proprio in “Elements”), le due musiciste hanno portato ulteriori energie e idee preziose, anche se risulta chiaro, oggi più che mai, che i Built To Spill siano un progetto quasi solista di Martsch.

When The Wind Forgets Your Name è un disco che vede la band muoversi nella nota comfort zone, riproponendo di canzone in canzone gli effetti speciali migliori del loro repertorio. Chi li ama epici e briosi non potrà che adorare riff e allunghi chitarristici smarriti nell’iperuranio, mentre chi brama una melodia canora a presa rapida si ritroverà a ricalcare il falsetto di “Understood” in men che non si dica. Complessivamente l’album è una bella boccata di ossigeno che non fa sentire alcuna stanchezza in una formula, nonostante tutto, calcata più volte.

Built To Spill

Discografia

Ultimate Alternative Wavers (C/Z, 1993)


There's Nothing Wrong With Love (Up Records, 1994)

The Normal Years (K Records, 1996)

Perfect From Now On (Warner, 1997)

Keep It Like A Secret (Warner, 1999)

Live (Warner, 2000)

Ancient Melodies Of The Future (Warner 2001)

You In Reverse (Warner, 2006)

Time Trap: 1994-2006 (Warner, 2006)
There Is No Enemy (Warner, 2009)
Untethered Moon (Warner, 2015)
Built To Spill Plays the Songs of Daniel Johnston(Ernest Jenning, 2020)
When The Wind Forgets Your Name(Sub Pop, 2022)
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