Massimo Volume

Massimo Volume

Post-rock e letteratura

Da Bologna negli anni 90 la band di Emidio Clementi ha marchiato a fuoco il rock alternativo italiano. La loro peculiarità è una narrazione cruda e diretta, che affida a brevi tratteggi la definizione di racconti personali che divengono universali. Ritornati nel 2010, hanno saputo rinnovare un'avventura in bilico tra (post)rock e letteratura.

di Giuseppe Pias

Un approccio differente

Il periodo 1993-1995 è stato molto fecondo per la scena indipendente italiana: sono usciti dischi che hanno ridisegnato il panorama musicale, aggiornando il linguaggio rock autoctono con risultati spesso interessanti quando non eccellenti. Sono infatti di quegli anni opere come il debutto dei Csi (gli ex-Cccp ora più gruppo e meno performance), la svolta in lingua italiana degli Afterhours con il formidabile "Germi", i debutti di Marlene Kuntz, Almamegretta, La Crus, etc. Tutti importanti, per un motivo o per l'altro, e soprattutto vere e proprie iniezioni di nuova linfa vitale nel rock "all'italiana". La maggior parte di questi gruppi e autori suona tuttora, in alcuni casi anche con buone soddisfazioni dal punto di vista delle vendite, come nel caso di Marlene Kuntz e Afterhours. Vi è poi un altro gruppo esordiente in quegli anni, apparentemente minore, che non è sopravvissuto al riflusso, o meglio all'assorbimento da parte dell'establishment di quei nomi e di quelle proposte, ma che è riuscito quanto e più degli altri a colpire il pubblico per la sua originalità e grande capacità espressiva, per il suo incarnare con un suono e una voce unici il malessere presente dietro tante esistenze quotidiane. Questo gruppo, destinato a restare nella memoria degli appassionati della musica più sincera e incompromissoria (e non è un modo di dire, come si vedrà alla fine), si chiamava Massimo Volume.

"Era il 1991, al tempo provavamo in cantina con un'attrezzatura infame, avevamo solo due vecchi amplificatori, così per poter sentire il suono dicevamo in continuazione: Massimo volume, alza al massimo volume".

In quella cantina, a Bologna, si trovavano a provare Emidio Clementi, Vittoria Burattini, Umberto Palazzo, Gabriele Ceci. Una compagnia composta da un transfuga da San Benedetto del Tronto, girovago inquieto, con l'ossessione della scrittura (Clementi), un rocker che si era fatto le ossa in un precedente progetto, gli Allison Run (Umberto Palazzo), una batterista donna che all'occorrenza canta (la Burattini), e un chitarrista di buon livello (Gabriele Ceci).
La carriera dei Massimo Volume evidenzia come il gruppo sia riuscito, nel breve arco di quattro dischi, a imporre un suo discorso personale in virtù di una felicissima fusione di svariati talenti, saldata da una perseveranza e una chiarezza di obiettivi che ha permesso loro di creare dischi autenticamente innovativi ed espressivi. Quel che più colpisce, nel riascoltare a posteriori il lascito musicale del gruppo, è il grande coraggio, la totale estraneità a una scena musicale come quella emersa in quel triennio famoso, già di per sé autonoma e slegata da considerazioni troppo commerciali, e la forte personalità.

Un demotape inciso nel 1992, ora praticamente introvabile, è la prima uscita ufficiale del gruppo, e presenta un suono acerbo e crudo, un rock distorto, cupo e ossessivo, ma già foriero di interessanti direzioni: soprattutto mostra quanto fosse difficile l'amalgamarsi del canto di Umberto Palazzo, più vicino a certo spirito indie convenzionale, con la voce di Clementi che si limitava a recitare i testi. Dopo un poco, Umberto Palazzo lascerà il gruppo, non senza contrasti; è verosimile che la presenza di due modi così diversi di intendere la voce, e di conseguenza l'impostazione musicale tout court, fosse impossibile da gestire in modo accettabile. La decisione del gruppo di proseguire con il solo Clementi sarà un passo fondamentale per il progresso del progetto musicale, progresso che avrà il definitivo compimento con l'ingresso del chitarrista Egle Sommacal, al tempo studente al Dams, e già dotato di notevole tecnica. Così il gruppo è definito nel suo nucleo sostanziale: Vittoria è il supporto ritmico vivace e fantasioso, soprattutto dopo che alleggerirà le sue trame in favore di una maggiore versatilità nei ritmi. Egle è la chitarra principe, capace di svisate noise, riff tenaci e incisivi, ma anche di raffinati preziosismi e assoli liquidi ed evocativi. Emidio mette di suo, oltre al basso, la voce e i testi: la pietra dello scandalo. L'uso del recitato in luogo del canto è una scommessa rischiosa, dettata dalle evidenti mancanze (Emidio non sa cantare), che si rivelerà in realtà vincente sin dal primo prodotto a lunga distanza.
Riguardo al contenuto testuale, va qui aperta una breve parentesi. Tra i gruppi usciti in quel triennio, la stragrande maggioranza di costoro ha avuto sin dall'inizio una particolare attenzione ai testi. Gli esempi più importanti sono rappresentati dai Csi, in cui Ferretti ha diluito la sua vena poetica, feroce ed essenziale nei precedenti Cccp, in quadri più ampi, senza perdere nulla della potenza evocativa. Anche gli Afterhours sono molto interessanti, soprattutto per l'uso del cut-up da parte del cantante e autore Manuel Agnelli, con brevi frasi mischiate tra loro, a produrre un senso generale che si intuisce più che capire, attraverso un registro che vira in genere sul grottesco e sullo sberleffo amaro. Degni di nota anche i testi di Marlene Kuntz e La Crus, per quanto, specialmente nei primi, si tenda a volte a una scelta lessicale troppo elaborata, quasi artificiosa. In tutto questo, i Massimo Volume vanno in una direzione totalmente diversa: viene infatti privilegiata la narrazione tout court, cruda e diretta, che affida a brevi tratteggi la definizione di una vita, di un ricordo, di un particolare stato d'animo, ma più con la forma di prosa, anziché di "poesia".
Il lessico è quello comune, ma ogni singola parola è perfettamente bilanciata e precisa. Inoltre, è spesso usata la prima persona singolare, come se Emidio Clementi raccontasse eventi a lui accaduti (cosa in parte vera): vengono accennati personaggi e situazioni che ricorrono disco dopo disco, a ricostruire il racconto di una vita, un espediente questo decisamente letterario. Anche i detrattori del gruppo non possono non riconoscere l'alto valore di ciò che vien detto in quei brani, e va da sé che l'unione di quei testi con quella musica ha effetti deflagranti.
Il gruppo viene messo sotto contratto presso la minuscola etichetta di Bologna Underground Records, e nel 1993 esce il primo disco, Stanze.

Pensieri che non riesci a trattenere

Registrato in soli tre giorni, Stanze ha un impatto dirompente. Su una base ritmica dura, quasi post-hardcore, irrompono le chitarre noise e il recitato di Emidio. Le influenze dichiarate sono Sonic Youth e Fugazi, ma il sapore è diverso, in virtù delle doti affabulatorie della voce. Il disco è più vario di quello che sembra a un primo ascolto: le chitarre di Egle e Gabriele, ad esempio, passano da riff taglienti a deliri noise, incrociandosi o unendo i propri sforzi in deraglianti treni sonori. La batteria (e il basso, ma in misura meno evidente) regge il ritmo macinando pestate su pestate, con toni ossessivi che ben rendono il clima generale, tranne che in alcune tracce, dove diventa sottofondo ipnotico o tribale. Emidio, circondato da questo inferno sonoro, si limita a declamare, e in alcuni punti a urlare, le sue storie di vite urbane così misere da destare fastidio e insofferenza. Si parla di sfoghi pregni di nichilismo totale ("Giorni", "Stanze"), intensissime rievocazioni di eventi passati, che hanno lasciato tracce indelebili pur nella loro sostanziale insulsaggine ("Ronald, Tomas e io"), narrazioni di eventi quotidiani che lasciano trasparire il vuoto di esistenze schiacciate da gesti ripetuti sino alla nausea ("In nome di Dio", quest'ultima affine al minimalismo letterario alla Raymond Carver).
Insomma, si tratta di un gran debutto, al quale nuocciono un poco talune ingenuità nell'uso delle voci e certe architetture musicali troppo semplificate. In realtà, si tratta solo di rifinire, perché il progetto è già definito nella sue varie parti, e le liriche di Clementi sono già compatte, lucide e taglienti. E comunque, nel livello generale davvero buono, almeno due brani spiccano per la loro eccezionalità. Si trovano nel cuore del disco, un poco oltre metà. "Ororo" nasce dalle ceneri del precedente "Vedute dallo spazio": un poderoso riff iniziale di basso e la batteria sostenuta fanno posto a una travolgente cavalcata elettrica, in cui si erge come un oratore invasato il deliquio di Clementi, poi trasfigurato in quella che appare una vera e propria dichiarazione di intenti di sé e del gruppo, per concludere in un'orgia dissonante di chitarre. Una volta esaurito il fuoco, poi... Alessandro tiene un diario. Il ticchettio della batteria e un circolare, ipnotico, susseguirsi di note di chitarra reggono la descrizione, in gesti ossessivi, della vita di un disagiato mentale visto dal di dentro; quando poi la musica esplode all'improvviso, c'è un urto, un qualcosa che si spezza, si apre dentro. "Alessandro" è probabilmente il capolavoro dei Massimo Volume, nonché una delle più drammatiche, intense, pure canzoni mai scritte in Italia. Si osserva senza giudicare, si rende il senso di un esistenza in quattro minuti scarsi. Le parole scavano e creano una vita, ne delimitano le sue forme e i suoi movimenti più importanti. Un brano essenziale, in tutti i significati del termine, e una dimostrazione di maturità senza paragoni.

L'autoconsapevolezza nella sofferenza

L'ultimo brano di Stanze è "Cinque strade". In pratica è il testo di una canzone del 1983 (il tappeto musicale è totalmente differente), ad opera di Faust'o, vecchia gloria dimenticata della prima stagione new wave italiana. Non è questo il luogo deputato per parlare di Faust'o (ovvero Fausto Rossi), se non per dire che è stato un artista coraggioso e originale, capace di fondere i suoi amori (Beatles, Bowie, Ultravox tra gli altri) in canzoni fresche di stampo new wave con testi graffianti e ironici, ma anche, come testimonia proprio l'album del 1983, di usare una sorta di scrittura automatica con libere associazioni, apparentemente insensata eppure di grande impatto. Faust'o è un idolo riconosciuto dei Massimo Volume, ed è affidata a lui la produzione del disco successivo a Stanze. Va detto che non tutto va per il verso giusto, e l'uomo abbandona la console prima di terminare il disco (diverse idee sul trattamento delle voci, questa è la giustificazione), anche se il suo nome comunque appare nei credits del disco, che esce nel 1995 e ha per titolo Lungo i bordi.
Nel frattempo cosa è successo? È successo che Stanze ha riscosso un successo straordinario a livello di critica, acclamato come un capolavoro, un punto di riferimento, e, considerando le condizioni in cui è uscito, è proprio un risultato eccellente. Il clamore è tale che il gruppo viene scritturato addirittura da una major, la Wea, e si trova nelle condizioni ideali per poter approfondire il suo personale percorso.

Lungo i bordi
rappresenta la naturale prosecuzione del discorso iniziato con Stanze, e contemporaneamente ne costituisce il completamento, oltreché un punto d'arrivo. La musica, smussate certe asperità, è ora maggiormente evocativa, più vicina all'idea di art-rock nel senso migliore del termine. I suoni sono più cesellati, le due chitarre sono meno noise, e più inclini a eleganti fraseggi, senza dimenticare la tensione e la drammaticità, al contrario ora più definite, più profonde. Musicalmente si può definire la loro formula come una sorta di post-rock, intendendo con ciò la precisa rinuncia a una forma-canzone ben definita (compresa di ponte, ritornello e così via), in favore di fraseggi chitarristici che sono l'ossatura del pezzo, e definiscono anche le linee melodiche, coadiuvate talvolta dal basso, e con la batteria che usa svariati ritmi, mai particolarmente veloci e molto curati in sede di produzione. Il basso in alcuni brani è lasciato a Franco Cristaldi, amico e collaboratore di Fausto Rossi, e il contributo si sente, con note corpose e di appoggio alla chitarra.
Lungo i bordi è senz'altro migliore di Stanze: persa per strada un poco di foga, qui la musica si fa più incisiva e particolareggiata, e i testi, già eccellenti nel debutto, assumono sfumature ancora più raffinate e incisive. Per comprendere la portata dell'opera basta ascoltare in rapida successione il formidabile trittico iniziale, che mostra la maturazione avvenuta. Apre il disco "Il primo dio", appassionata elegia dedicata alla figura del poeta misconosciuto Emanuel Carnevali, idolo di Clementi e figura tragica e romantica. Clementi spazza via con forza ogni possibile retorica ed è commovente e abbacinante la maniera con cui tratteggia la sfortunata esistenza dell'uomo e magnifica al tempo stesso la sua arte: "Dire qualcosa mentre si è rapiti dall'uragano, ecco l'unico fatto che possa compensare di non essere io l'uragano...".
Anche Rimbaud viene citato e omaggiato, esempio, come Carnevali, di esistenza totalmente bruciata al fuoco del proprio talento. Segue a questo brano "Il tempo scorre lungo i bordi": qui la musica è lenta, minacciosa e inquietante, e Clementi parla di due persone, il cui legame è prosciugato dal tempo che passa, che lascia solo la polvere; il brano ha a un certo punto un'improvvisa accelerazione, come se la tensione accumulata dovesse per forza esplodere... e infatti esplode, trascinando via ogni cosa, e lasciando solo rammarico e frustrazione. Infine, chiude il trittico la sensazionale "Inverno '85", uno dei migliori parti di Clementi e del gruppo tutto: un fraseggio insistito di chitarra e la batteria a ritmo di marcia ci guidano nella rievocazione di pomeriggi passati a cercare il senso di un'adolescenza tormentata attraverso l'ascolto ossessivo di una canzone, "Wicked Gravity" di Jim Carroll, qualcosa che è capitato a tutti, e qui viene mostrato in tutta la sua forza espressiva. È qui che si raggiunge l'acme del disco, in particolare quando Clementi ruba e fa sua definitivamente la frase di Jim Carroll "mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata", che cade pesante come un macigno, toccante e rabbiosa.
Per il resto, si esplorano altre visioni cupe e desolate: si passa dall'iperrealismo di "Pizza Express", all'ennesimo sfogo di malessere che avviene con "Nessun ricordo", senza dimenticare altri due brani notevolissimi; il primo è "Meglio di uno specchio", un treno lanciato a tutta velocità sul filo di una spietata analisi di coppia, e l'altro la conclusiva "Ravenna", curioso e dolente affresco sull'inadeguatezza di sé. Da notare, tra i collaboratori in questo e altri pezzi, la presenza di Manuel Giannini, già produttore del primo disco nonché fondatore del gruppo di avant-rock concettuale Starfuckers.

Lungo i bordi è una lucidissima e dolorosa analisi di eventi e raffigurazioni apparentemente senza importanza, scavati chirurgicamente in modo da portare alla luce il malessere e il vuoto di tante vite; è un disco fondamentale per il rock italiano, ancorché isolato e quasi irraggiungibile nella sua cruda bellezza.

From here to nowhere

Se "Cinque strade" era un passaggio di testimone dal primo al secondo disco, "Da qui", breve intermezzo di chitarra e voce presente in Lungo i bordi, rappresenta il trait d'union tra questo e il nuovo lavoro del gruppo, che esce nel 1997 e riprende il nome proprio dal pezzo in questione. Prima dell'uscita del disco una notizia bomba aveva mandato in sollucchero i fan del gruppo: nientepopodimeno che sua maestà John Cale, sì, proprio lui, si era proposto per il nuovo lavoro. Poi, come si dice, i sogni muoiono all'alba, e il progetto è sfumato: Clementi e compagni hanno spiegato che si trattava perlopiù di problemi di natura economica, come ad esempio la richiesta di John Cale di lavorare a New York per la registrazione. È rimasto comunque l'attestato di stima, che dimostra la reale statura del gruppo e che si aggiunge alle altre soddisfazioni sinora raggiunte. La produzione viene affidata alle mani sapienti di Steve Piccolo e Kaba Kavazzuti, già collaboratori nel precedente lavoro, con ottimi risultati. Nel frattempo al gruppo si è aggiunto un altro membro, Metello Orsini. Ora sono tre le chitarre presenti, ma il lavoro di cesello è tale che anziché ottenere un "wall of sound", le trame diventano rarefatte e nitide, con la chitarra solista che spesso e volentieri disegna assoli liquidi e dilatati.

Si percepisce un cambio di atmosfera notevole, rispetto all'aggressività precedente. E infatti un sentimento indefinibile aleggia lungo tutto questo disco, un qualcosa di aleatorio che pervade le note e le parole di ogni singolo pezzo. Da qui è un unico vagare in brevi storie, narrazioni spesso compresse in brevi flash, dove la musica diventa quasi stasi, e le parole si posano lievi e chiare: è il caso di "Sotto il cielo" e "C'è questo stanotte". Altrove, come in "Manciuria", "Atto definitivo" o "Avvertimento", si avverte ancora la tensione che pervadeva il precedente lavoro; ma, come già detto, in questo caso il mood generale è omogeneo, non particolarmente cupo, ma non certo tranquillo; sembra quasi un diario di un trentenne in crisi esistenziale. In "La città morta", addirittura, si arriva quasi a sorridere, sentendo il resoconto della sfigatissima gita invernale del gruppo in una di quelle città che vivono solo d'estate, tipo Rimini o Riccione; scatta quasi istantaneo il ricordo di "Ravenna", del precedente lavoro.
In ogni caso le parole scelte sono quanto mai distanti dai canoni "giovanili", liberate dagli eccessi emotivi che caratterizzavano Stanze e Lungo i bordi, e ben supportate dalla musica elegante e precisa; se l'etichetta non fosse già utilizzata per un genere quanto mai distante, si potrebbe definire questo vero e proprio Rock Adulto, davvero. Con questo album i Massimo Volume arrivano a una sorta di perfezione formale impensabile sino a qualche anno prima; se Da qui non supera le vette del precedente, è solo perché è chiuso in un intransigente sistema interno, del quale bisogna accettare le premesse e condividerne il senso, esemplificato dalla bella frase di A. Jodorowski posta sul libretto interno: "Io allora comprendo che non è bene cercare la sicurezza, perché conduce alla morte. E che è meglio vivere nell'incerto". Pur essendo musicalmente più melodico, è un disco che concede poco o nulla a un ascolto disimpegnato, paradossalmente assai più che con i precedenti, forse più assimilabili con le loro furibonde rappresaglie sonore. Lo stesso Clementi lo presenterà come il disco più ostico inciso dal gruppo.
Detto già di alcuni brani, restano ancora da citare la splendida, trascinante "Sul Viking Express", che esprime un senso di spaesamento tangibile; la delicata e dolente "Qualcosa sulla vita", che si adagia su parole mai così ben recitate, e chiude in toni più speranzosi del solito. E ancora "Manhattan di notte", notturna riflessione filosofica con un testo da antologia; strepitosa la progressione dei versi "Non c'è nessuno dentro queste stanze illuminate/dentro questo poster 'Manhattan Di Notte'/che nasconde l'interno della cucina di un ristorante cinese". Infine "Stagioni", che chiude l'album in modo inaspettato: un brano trascinante, epico, l'ennesimo ricordo trasfigurato che si incendia alla fine, come a voler dissolvere in una volta la tensione accumulata sotterraneamente. Un epilogo davvero importante, degno suggello di un album ancora una volta eccellente.

Il primo di(sc)o

L'uscita di Da qui deve aver rappresentato, per i Massimo Volume, una sorta di vicolo cieco: la loro proposta musicale era stata abbondantemente esplorata dal gruppo, anche in virtù delle limitazioni autoimposte, come la scelta di suonare quasi solo rock chitarristico, l'uso del recitato, il tipo di testi usati. Per il nuovo lavoro, dunque, il gruppo decide di affidarsi alle mani di Manuel Agnelli, il già citato cantante e leader degli Afterhours, nonché vera e propria eminenza grigia del rock made in Italy degli ultimi anni, oltre che per il suo ruolo di produttore (Scisma, Pitch e Cristina Donà), anche come organizzatore del festival di musica rock italiana Tora! Tora!. Manuel Agnelli è legato da profonda amicizia a Emidio Clementi: insieme faranno un viaggio in India, e collaboreranno alla realizzazione di un tour a due, gli Agnelli Clementi. Tutto questo per dire che l'uomo sembra proprio il personaggio adatto per ampliare il raggio d'azione del gruppo, sia dal punto di vista musicale, sia da quello delle vendite, che a dispetto del grande entusiasmo sin qui raccolto, sono state alquanto mediocri.

Club privé
, pubblicato nel 1999, si presenta quindi con una serie di novità sostanziali. Per cominciare, l'ennesimo cambio di formazione: dopo sette anni di onorata carriera, Gabriele Ceci lascia il gruppo, per dedicarsi a progetti personali. Emidio Clementi tenta la via del canto: nel disco due o tre pezzi lo vedono modulare la sua voce incerta. Infine, l'austero rock chitarristico viene ampliato a nuove suggestioni, grazie agli effetti di produzione di Manuel Agnelli: il disco suona molto più variegato, Vittoria ha ritmi più leggeri, diversificati, mentre Emidio vira un poco il suo solito registro stilistico, affrontando, oltre l'autobiografismo letterario, anche una visione dell'amore meno disperata, seppure non troppo ottimista. Ma il risultato finale, spiace dirlo, appare debole e non così riuscito come era lecito aspettarsi.
Club Privé
è un disco che nasce stanco, per citare un pezzo dell'album tra quelli meno riusciti. Cosa non funziona in effetti? Per esempio, si affaccia per la prima volta un poco di manierismo, una riutilizzazione non ispirata di alcuni codici che altrove avevano dato risultati così brillanti, i testi non sono più così incisivi, forse per l'avvicinamento a una forma canzone maggiormente canonica, e anche il cantato di Emidio non scuote molto, al di là del risultato non esaltante (e comprensibile). Non è un disco brutto, sia ben chiaro: manca però quella formidabile compattezza che aveva legato i tre lavori precedenti: non c'è né l'ardore del primo, né l'analisi spietata del secondo, né l'omogeneità e l'alterità (anzi, l'austerità) del terzo. Ci sono alcuni bei spunti, certo; per esempio l'iniziale "Pondicherry", che procede lieve con i controcanti, la batteria a ritmo dispari e la voce che disegna un rapporto nelle sue contraddizioni, nelle sue possibilità e impossibilità. Oppure "Avevi ragione", che è malinconica e soffusa come le lucine dell'albero di Natale, osservate dopo che Natale è passato. Sofferta e dolce. Ancora, il bizzarro esperimento di "Il tuo corpo affamato", forse la cosa più "pop" mai scritta dai Massimo Volume, l'ossessiva "Privé", che si basa su una ritmica martellante e sulla ripetizione continua della frase "Io non ho speranza, ma credo nella cura", e il lungo mantra "Dopo che".

Sia come sia, Club privé assume col tempo il carattere di lavoro di transizione, necessario anche nella riuscita non perfetta... Invece, dopo le tournée di rito, con l'accompagnamento di altri due chitarristi, Marcella Riccardi e Dario Parisini, che sostituiscono Metello Orsini, e dopo la realizzazione della colonna sonora per il film "Almost Blue", assemblata mischiando vecchi pezzi e nuovi strumentali, buona solo per completisti, dopo tutto questo, accade che nel gennaio del 2002 il gruppo, con uno scarno comunicato sul suo ufficiale, annuncia il proprio scioglimento.
È un brutto colpo, ovviamente: il gruppo avrebbe potuto offrire ancora molto e non aveva sbagliato quasi nulla; per altri versi, invece, lo scioglimento è stato opportuno, avvenendo prima che i rapporti personali degenerassero, e la musica ne risentisse. Ma lo sconforto è grande, per la chiusura di un'esperienza tra le più originali e sincere udite in Italia, e non soltanto negli anni 90. Originali, appunto: la loro strada non è stata percorsa da altri gruppi, perché troppo personale e disegnata sulle spalle dei suoi artefici. Chi avesse seguito le medesime tracce avrebbe miseramente fallito, non avendo l'efficacia delle liriche di Clementi e la grande capacità del gruppo di costruire attorno a lui quei suoni così penetranti e adatti. Difatti, solo attorno al 2004 il nome dei Massimo Volume è stato di nuovo accostato a un altro gruppo. Ci si riferisce ovviamente agli Offlaga Disco Pax, sgangherato e irresistibile combo dove si usa il recitato in un contesto più ironico anche musicalmente, ma anche qui attento al peso delle parole, che costruiscono un piccolo mondo idealizzato a base di nostalgie adolescenziali anni 80, Cccp (nel senso di gruppo) e Pci (nel senso di partito politico). Non è una vera e propria influenza, bensì la riutilizzazione efficace di quel modus.

Tutto ciò che separa è Santo?

Emidio Clementi già dagli anni Novanta si rese protagonista di performance in solitaria, intraprendendo la carriera di scrittore e dando vita a reading nei quali si faceva accompagnare da abili collaboratori (non di rado al suo fianco c’era Egle Sommacal), ma fremeva, dopo l'annunciato scioglimento dei Massimo Volume, per tornare a concretizzare i propri slanci letterari nel formato disco. Clementi era affascinato dal viaggio. Ne aveva alle spalle uno in India con Manuel Agnelli, immortalato dentro un paio di canzoni che finirono in “Quello che non c’è”. Poche settimane dopo la disintegrazione dei Massimo Volume reclutò Massimo Carozzi (il quale costruiva le sonorizzazioni per i reading del suo romanzo “La notte del Pratello”) e Dario Parisini (ex Disciplinatha, già coinvolto nelle registrazioni di “Club Privée”) proponendo loro una nuova destinazione esotica: il Marocco, Tangeri per la precisione, da raggiungere con tre giorni di viaggio in pullman, portando al seguito la strumentazione necessaria per realizzare un album dentro una stanza d’albergo, magari lo stesso albergo utilizzato da William Burroughs per scrivere “Il pasto nudo”, “El Muniria”.
El Muniria diviene nion a caso il nome del nuovo progetto, idea romantica e avventurosa per un trio che, squattrinato com’era, dovette però accontentarsi di una residenza molto più umile, l’Hotel Massilia, e fu forse una fortuna, perché da lì poterono respirare un’atmosfera meno “turistica”, più vera e bohemien. Convinto l’albergatore a lasciarli suonare delle canzoni in una stanza, i tre alternano la vita respirata nella città nordafricana con le non semplici session di registrazione. Il fulcro portante di quegli esperimenti sono le ambientazioni elettroniche e i numerosi campionamenti elaborati da Carozzi, influenzati da dub e trip-hop, sui quali si incastrano con un abile lavoro di cesello i vividi flash lirici messi a punto da Clementi e le ricche interferenze delle chitarre (talvolta trattate) di Parisini.

L’obiettivo finale venne raggiunto per metà: del disco (pubblicato dalla Homesleep soltanto due anni più tardi con il titolo Stanza 218) si realizzò appena lo scheletro. Fu completato a Bologna presso lo studio casalingo di Carozzi, con il contributo di Giacomo Fiorenza e Francesco Donadello, più la voce di Steve Piccolo in ”Narrating A Photograph” e il drumming di Vittoria Burattini. La poesia di Emidio Clementi buca lo stomaco, le sue parole stringono alla gola, tolgono il respiro, ma in maniera diversa rispetto all’enfasi post-rock espressa con i Massimo Volume: qui i movimenti sono più sinuosi, notturni, oppiacei. Pur non parlando quasi mai espressamente di Tangeri l’atmosfera complessiva riesce ad evocarla. Clementi cerca parole che imprimano un ritmo, punta sulle ripetizioni, non declina storie complicate ma sintetizza i temi, soffermandosi su pochi significativi particolari. Mantiene il sapore dei Massimo Volume, ma al contempo ne prende le doverose distanze, con la volontà di raggiungere un risultato diverso, non necessariamente confrontabile.
Dal punto di vista musicale vengono raccolti diversi campioni estratti da dischi che i tre ascoltavano all’epoca (il sax sul finale di “Santo”, il passaggio al piano utilizzato per “Dentro questo bicchiere”), sample e voci (in “Fermati qui” è di Bukowski) vengono mandati in loop, uniti a suoni ambientali catturati per i vicoli, le piazze e i mercati di Tangeri. Le chitarre inseriscono tessiture preziose, lambendo ora il blues ora l’avanguardismo noise, con l’intento di sdoganare il prodotto anche presso un pubblico poco incline all’elettronica. Ma Stanza 218 (che resterà l'unico prodotto firmato El Muniria) venne recepito in maniera freddina, forse proprio per via del confronto con la discografia dei Massimo Volume, se non poi venire col trascorrere del tempo ampiamente rivalutato, anzi, da alcuni persino considerato fra i migliori momenti nella carriera di Clementi. Quel suono così ben identificabile, quel suo essere fuori dal tempo e avulso dalle mode, lo ha fatto venire fuori sulla distanza.

Dopo che le strade dei Msssimo Volume si erano divise, anche gli altri membri storici hanno proseguito le rispettive carriere impegnandosi in nuovi progetti. Fra questi va anzi tutto ricordata l'esperienza di Vittoria Burattini con i Franklin Delano tra il 2004 e il 2005.
Egle Sommacal, dal canto suo, ha fatto parte per un breve periodo degli Ulan Bator e dei Blake/e/e/e, formazione che comprende guarda caso ex-membri dei Franklin Delano. Ha poi ha debuttato da solista con Legno (2007), al quale hanno fatto seguito Tanto non arriva (2009), Il cielo si sta oscurando (2014) e L'atlante della polvere (2016). 


La storia insomma pur con altri nomi continua... e come talvolta capita ritorna al punto di partenza. Accade infatti che a metà 2008, a seguito di ben due inviti giunti quasi contemporaneamente, i Massimo Volume in formazione tipo (Clementi, Burattini e Sommacal, più l'ausilio del valente Stefano Pilia, all'epoca impegnato nei ¾ Had Been Eliminated), si ricostituiscono e accettano sia di realizzare e suonare un accompagnamento musicale per il film muto "Fall of the House of Usher" (Jean Epstein, 1928), sia di apparire in occasione del Traffic Festival 2008 di Torino. Nel primo caso la colonna sonora, tesa come nei momenti migliori, si sposa magistralmente con le immagini che scorrono sullo sfondo; nel secondo è un vero trionfo, commovente sia per i musicisti che per i numerosi fan giunti in occasione dell'evento, a sancire il riannodarsi di un filo che non si è mai spezzato.

Il lungo tour che segue è solo la conferma di quanto fosse mancato questo progetto musicale, il cui ricordo non è stato offuscato dallo scorrere del tempo, anzi. Forte resta, a questo punto, la curiosità di sapere come si evolverà la musica dei Massimo Volume, una volta che (come hanno promesso) si rinchiuderanno ancora una volta in sala prove. L'impressione, dolce e positiva, è quella di trovarsi di fronte non a un patetico comeback, ma all'ennesima tappa di un percorso che ha seguito direzioni diverse, per poi confluire di nuovo in un sentiero unico, di grande serenità e consapevolezza.

Il passo successivo è rappresentato dalla pubblicazione di Cattive Abitudini, nuovo lavoro dopo circa dieci anni di silenzio. Con Stefano Pilia entrato in famiglia alla seconda chitarra, Emidio Clementi, Egle Sommacal e Vittoria Burattini colmano distanze e gettano ponti tra stagioni lontanissime, riprendendosi il loro spazio. Che, poi, è uno spazio, come sempre, fatto di personaggi più o meno rilevanti, di storie minime e di contesti sfuggenti, ma anche di sfumature esistenziali quasi impercettibili. Cattive Abitudini, in sostanza, può essere letto come una sorta di sintesi "classica" di tutto quello che è stata l'avventura Massimo Volume. Una sintesi che raccoglie quell'eredità, rifocillandola e proiettandola verso il futuro. Poco importa, insomma, il valore musicale di queste dodici non-canzoni, perché qui interessa ristabilire un contatto, rimettere in carreggiata una vecchia storia d'amore, ridestare vecchi incantesimi.
"Mostrare i punti dove la vita ristagna" (per dirla con un bel verso di "Le nostre ore contate") sembra essere lo scopo ultimo della poetica di Clementi. La vita con cui le sue parole si confrontano è fatta di epifanie sparse, cui il poeta (perché questo è, in fondo, Mimì...) deve prestare attenzione, districandosi tra le ragnatele dell'ovvio, in bilico tra rapimenti del cuore e debolezze del corpo. Intorno a questo vagabondaggio di parole ed immagini, s'aggirano le chitarre di Sommacal e Pilia, i cui intrecci disegnano arabeschi e squarciano orizzonti lirici fatti di memorie disseminate nel tempo, tra gli echi del suo lamento ("Robert Lowell", "Coney Island"). Si tratta di brani-narrazioni che procedono, spesso e volentieri, per lenta accumulazione, aprendosi dentro splendori post-rock, calandosi verso profondità in disfacimento o lasciando il campo a meandri rumoristi.
Se la vita può essere "tranquillamente racchiusa in un banale quadretto balneare" ("Tra la sabbia dell'oceano"), allora ogni attimo di questo esserci contiene dentro di sé il segreto dell'esistenza stessa. Ecco perché Mimì continua a spulciare tra i rivoli anche più umili del quotidiano. Altrove, saranno elegie dimesse, a tratti estremamente diradate e cariche di pathos sibillino, a tentare questa scalata lungo la parete verticale della Vita ("Avevi fretta di andartene", "Invito al massacro", "Mi piacerebbe ogni tanto averti qui", "In un mondo dopo il mondo"), mentre l'amore persiste nella sua meravigliosa enigmaticità. E se "La bellezza violata" ricorda la nostalgica solarità di "Stagioni", il piglio nevrotico e l'inquietudine post-punk di "Fausto" e del singolo "Litio" riportano alla memoria i momenti più tormentati di "Stanze". Perché, in fondo, il tempo continua a scorrere lungo i bordi. Oggi come allora.

Sulla scia del ritorno in formato album, ad aprile 2011 La Tempesta pubblica uno Split Ep condiviso con i Bachi Da Pietra, nel quale ognuna delle band rielabora un brano dei colleghi, ma soprattutto propone un prezioso inedito.
Ovvio che il momento più atteso sia la nuova composizione dei Massimo Volume, e "Un altro domani" non delude le aspettative, confermando il momento di grazia che la band bolognese sta attraversando. Le chitarre di Egle Sommacal e Stefano Pilia si rincorrono e si intersecano oramai a meraviglia, il solido drumming di Vittoria Burattiniè una certezza, la spina dorsale del gruppo, assieme al basso e soprattutto alle parole scandite da Mimì. La nuova importante pagina di un percorso già leggendario che in "Un altro domani" dissemina piccoli semi di sé, gettando un ponte verso un futuro dal quale attendersi altre soddisfazioni.

Il primo ottobre del 2013 ecco il sesto album della band, Aspettando i barbari, un lavoro che dal punto di vista squisitamente musicale, sorprende per la presenza (importante ma mai troppo invadente) della componente elettronica, in grado di arricchire ulteriormente la tavolozza di colori desiderata dal gruppo. Il disegno complessivo si fa più duro rispetto al recente passato, con gli aspetti tenui che tendono a scomparire quasi del tutto. Prodotto dai Massimo Volume e da Marco Caldera (che si occupa anche di synth e sampler in un paio di tracce), il disco registra il consolidamento del quartetto attorno alle figure di Emidio Clementi, Vittoria Burattini, Egle Sommacal e Stefano Pilia. Si parla di “barbari”, di presenze che sopraggiungono a turbare la nostra esistenza, in grado di sconvolgere le nostre vite e distruggere le già esili certezze faticosamente costruite. “Il nemico avanza”, giorno dopo giorno, si impossessa del nostro territorio, scuote i nostri pensieri, turba i già precari equilibri, pone fine a tutte le utopie, alimentando disillusione ed inquietudine. Quell’inquietudine drammaticamente resa da Mimì ogni qualvolta decida di alzare i toni, regalando brividi a fior di pelle. Nei sui testi, sempre visionari e coinvolgenti, questa volta compaiono citazioni di John Cage e Mao Tse Tung. 
L’orrore è alle porte, può sorprenderci “La notte”, fra impareggiabili istantanee di persone comuni che non smettono di lottare. Storie piccole che diventano universali. Per ogni Osama che verrà abbattuto (“Compound” è il racconto della sua fine) a decine saranno pronti a sostituirlo per mettere a repentaglio noi ed i nostri affetti. “Vince chi resiste alla nausea, chi perde meno, chi non ha da perdere” (da “Dio delle zecche”, frutto di un cut up di poesie scritte dal poeta e sociologo dello scorso secolo Danilo Dolci). E si resta lì, a contemplare gli avveniristici progetti di Richard Buckminster Fuller (“Dymaxion Song”) oppure il dolore che trapela dalle canzoni di Vic Chesnutt  (“una corona di spine/ poggiata sul palco/ fra la chitarra e le spie”). Mentre la vita è vinta dall’attesa ed il vento scuote ciò che cede (“La cena”), corriamo incontro ai giorni che ci spettano (“Da dove sono stato”). Tutto è visivamente sintetizzato dallo sguardo privato scelto per la copertina: un’opera di Ryan Mendoza che rappresenta due sorelle abbracciate, in atteggiamento di reciproca protezione, probabilmente pochi istanti prima di un evento doloroso che sta sopraggiungendo a rompere gli equilibri. Aspettando i barbari è un disco pieno di sferzate, calato con forza nell’ambiguità del presente, che stamperà per giorni nella testa dei fan i nuovi slogan di Clementi (“Vi piaccia o no” è quello che tutti canteranno a squarciagola durante i prossimi concerti).

Se è vero che abbiamo sempre amato il carattere letterario dei Massimo Volume, nel recitato schietto e lineare di Emidio Clementi, è anche per la qualità immaginifica del loro sound, eco della New Hollywood e della narrativa minimalista postbellica. Nei lavori che il gruppo ha dedicato al cinema – dalla colonna sonora di “Almost Blue” (Alex Infascelli, 2000) all'azzeccata sonorizzazione de “La caduta della casa di Usher” di Jean Epstein – si è infatti dimostrata la capacità di riconoscere i contesti nei quali le parole non bastano, o più semplicemente non servono. Luce mia, il docufilm d'esordio dell'autore e protagonista Lucio Viglierchio segue passo passo le fasi di superamento di una grave malattia, la leucemia mieloide acuta, grazie anche alla vicinanza e al sostegno reciproco con un'altra paziente, Sabrina. Di fronte a una testimonianza così umana e sincera, le musiche del quartetto non potevano che ricalcare la commozione suscitata da quella storia, mettendosi più che mai a nudo e restringendo il loro stile ai minimi termini.
Poche, sommesse note distribuite su sei brevi sequenze: riquadri musicali che anche da soli riescono a evocare la più profonda solitudine, il senso di attesa e di speranza, la raggiante presenza di un altro essere umano. L'inedito sguardo sulla realtà passa anche per i luminosi accordi di una chitarra acustica,e ci meraviglia ancor di più la semplice melodia di pianoforte del finale, tra il baluginio di un'elettrica in clean che va e viene come se, dopo la lunga degenza, si tornasse finalmente a tirare il fiato. Una musica che sembra ricordarci che a viso aperto siamo “meglio di uno specchio”, perché vediamo noi stessi attraverso l'altro.

Fra un lavoro e l'altro dei Massimo Volume, non si arrestano le avventure artistiche dei singoli membri. Egle Sommacal produce altri due lavori molto apprezzati dalla critica: Il cielo si sta oscurando (2014) e L'atlante della polvere (2016).
Stefano Pilia diviene uno dei chitarristi più impegnati della scena indipendente nazionale, entrando in pianta stabile negli Afterhours (sarà nella line up di Folfiri o Folfox), portando avanti l'egregio progetto hard-psych In Zaire e un'infinità di collaborazioni, fra le quali meritano menzione almeno quelle con Paolo Spaccamonti, Massimo Pupillo degli Zu, Alberto Boccardi, i Cagna Schiumante (in compagnia di Xabier Iriondo). Pilia nel 2015 darà alle stampe anche un album solista: Blind Sun - New Century Chistology. I molteplici impegni non gli consentiranno di assicurare un'adeguata continuità all'interno dei Massimo Volume: la scelta di abbandonare il gruppo sarà inevitabile, lasciando comunque un'impronta fondamentale nella seconda fase della vita della band.

Emidio Clementi, dal canto suo, prosegue i propri percorsi a metà fra letteratura e sperimentazione. Nel 2015 pubblica il vero e proprio esordio solista, Notturno Americano. Un anno più tardi dà il via al progetto Sorge, condiviso con il giovane producer Marco Caldera, che genererà l'album La guerra di domani. E' del 2017 invece il matrimonio artistico con Corrado Nuccini dei Giardini di Mirò per la trasposizione su disco dei Quattro quartetti di T.S.Eliot, al quale seguirà un lungo tour di oltre un anno.
Clementi è oramai anche un apprezzato scrittore: la carriera letteraria, intrapresa nel 1997, ha generato dodici libri, l'ultimo dei quali è L'amante imperfetto, pubblicato a novembre del 2017.

A inizio marzo 2019 esce Il nuotatore, che registra la dipartita di Stefano Pilia e la band per la prima volta ridotta al trio storico Clementi-Burattini-Sommacal, che continua a dimostrare autorevolezza e bisogno di parlare soltanto quando ce n’è davvero bisogno, magari da attori non protagonisti. Si, perché se si osserva il video della strage del 2016 in Florida, il punto di vista non è quello dell’eroe, bensì di colui che ammira il poliziotto fornire col proprio corpo protezione agli indifesi, scortandoli davanti al fuoco del vile terrorista. La voce narrante di “Una voce a Orlando” non ne avrebbe il coraggio, anzi, giustifica a sé stesso la ritrosia nell’affrontare a viso aperto le circostanze, la medesima presente nella sinuosa “Amica prudenza” e nella conclusiva “Vedremo domani”. Se c’è un ricordo d’infanzia, non è legato a momenti di tenera spensieratezza, ma a rammentare la vicenda di quello zio che perse tutto al gioco, tutto, anche “La ditta di acqua minerale” che una volta possedeva e nella quale si ritrovò degradato a semplice impiegato, condannato per sempre a guardare le carte da spettatore. Oppure alla mamma che chiede al figlio di vestirsi per bene, con massima cura per gli indumenti intimi, perché se per disgrazia si finisce in ospedale non si fa brutta figura, e da qui parte un parallelo con il Generale spagnolo Josè Sanjurjo, caduto in mare nel 1936 con l'aereo che lo stava conducendo ad assumere l'incarico di Capo dello Stato. Le chitarre post-rock di Egle, il drumming giocato su tom e rullante di Vittoria, la nostra Maureen Tucker, il basso corposo e l’emozionante declamato di Mimì, sempre vivido e centrato, Magari senza gli slanci rabbiosi di un tempo ma rafforzato dall'acquisita maturità, dalla consapevolezza dell’autore di spessore. Il nuotatore non possiede i vertici emozionali di “Cattive abitudini”, ma ha una qualità media elevatissima, e rinuncia all’elettronica sperimentata in “Aspettando i barbari”: tutto quello che si ascolta sono chitarre.
Post-rock e letteratura, citazioni di John Cheever, di recente omaggiato anche da Matt Berninger in “Carin At The Liquor Store”, l’immagine così onirica de “Il nuotatore”, la più bella del disco: l’attraversamento delle piscine dei vicini, vuote, di giardino in giardino, con le foglie morte al posto dell’acqua, per raggiungere l’ingresso della propria casa, e trovarla con porte e finestre distrutte. Scostando il velo si rischia spesso di scoprire realtà peggiori di quella temute: meglio conservare le proprie radici, senza appropriarsi della storia altrui, evitando ingannevoli apparenze. C'è anche Dostoevskij, nella preghiera di chi si percepisce escluso “Nostra Signora del caso”, c'è una passeggiata veneziana con Nietzsche, nella “Fred” dove scopriamo un Clementi persino protettivo. Infine tutti in cerchio a chiedersi se si può vivere senza il proprio lato oscuro: un mondo immerso per sempre nella luce sarebbe poi così tanto auspicabile? “L’ultima notte del mondo” è un presagio che inaspettatamente intimorisce. Un’altra immagine forte, un altro momento di riflessione. In questi tempi frenetici abbiamo sempre più bisogno di fermarci ogni tanto a riflettere. Anche per questo motivo la seconda vita dei Massimo Volume rischia di diventare ancor più necessaria della prima.

Da anni introvabile, a ottobre del 2021 la piccola ma intraprendente label Love Boat rende di nuovo disponibile l'unico disco realizzato a nome El Muniria, Stanza 218, con un plus di quindici versioni remix messe a punto per l’occasione, commissionate ad artisti e producer italiani, ognuno dei quali ha rielaborato il materiale secondo la propria sensibilità. Il risultato è di altissimo livello, con non poche punte di eccellenza.
i tratta di reinterpretazioni che, pur partendo da punti di vista diversi rispetto a quelli degli autori, confermano, e in alcuni casi amplificano, la natura ipnotica, scura, ossessiva, a tratti narcotica degli originali. Colpiscono soprattutto i colpi a sorpresa, come quando Maria Valentina Chirico nella sua versione di “Insieme” utilizza la voce di una bambina al posto di quella di Emidio, ottenendo un effetto straniante, oppure quando Blak Saagan ci trascina in un trip iper psichedelico di tredici minuti, trasformando “Forse fra un attimo” in un flusso irresistibilmente eccitante.

La pandemia pone in naftalina l'attività della band, e quando il mondo ne sta finalmente uscendo, il 12 luglio 2023 arriva la tragica notizia dell'improvvisa scomparsa di Gabriele Ceci. Fino al 1998 chitarrista dei Massimo Volume, quando aveva lasciato la band per ricoprire un ruolo da Dirigente nella Poliservice, società che gestisce il ciclo dei rifiuti in un'area dell'Abruzzo, Ceci aveva 53 anni ed è rimasto vittima di un incidente stradale mentre si trovava a compiere una visita ispettiva.

Il 2023 si chiude con la pubblicazion di Stagioni, un disco-tributo fortemente voluto da Mimmo Pesare della NOS Records, contenente dodici canzoni equamente distribuite fra pre e post-reunion, in rigoroso ordine cronologico. Fra i protagonisti delle riletture si segnalano in particolare le presenze di Mauro Ermanno GiovanardiSpartitiCesare Basile, Francesco BianconiBachi da PietraGiovanni SucciMarco Ancona e Maverick Persona, il nuovo progetto di Amerigo Verardi.
Il diverso modo di porre gli accenti, di scandire le parole, di evidenziare le situazioni narrate, da parte degli artisti protagonisti di Stagioni, ha il pregio di lasciare emergere come ulteriori significati, sfuggiti all’epoca alle nostre orecchie, o magari è lo scorrere del tempo, il senno del poi, che oggi li porta a galla, lasciandoli magicamente comparire. Ci sono punti che avevamo tralasciato, sottovalutato, dato per scontati. E ci sono punti, tanti punti, che ci confermano quanto era alta - già all'epoca - la poesia di Mimì, e di quanto il percorso dei Massimo Volume sia stato un unicum, anche piuttosto sottovalutato, all'interno del decennio d'oro della scena "alternativa" italiana.


Contributi di Claudio Lancia ("Stanza 218", "Split Ep", "Aspettando i Barbari", "Il Nuotatore", "Stanza 218 reissue", "Stagioni"), Francesco Nunziata ("Cattive Abitudini") e Michele Palozzo ("Luce mia")

Massimo Volume

Discografia

MASSIMO VOLUME:

Demo Nero (autoprodotto, 1992)

6

Stanze (Underground, 1993)

7,5

Lungo i bordi (Wea, 1995)

8,5

Da qui (Mescal, 1997)

8

Club Privè (Mescal, 1999)

6

Almost Blue (soundtrack, 2001)

6

Bologna, Nov 2008 (live, 2008)

6,5

Cattive Abitudini (La Tempesta, 2010)

7,5

Split Ep (con Bachi Da Pietra, La Tempesta, 2011)

7,5

Aspettando i barbari (La Tempesta, 2013)

7

Luce mia (autoprodotto, 2015)

7,5

Il nuotatore (42 Records, 2019)7

EL MUNIRIA:

Stanza 218 (Homesleep, 2004)

7

Stanza 218 (reissue con bonus, Love Boat, 2021)

8

FRANKLIN DELANO:

All My Senses Are Senseless Today (Zahr Records, 2004)

Like A Smoking Gun In Front Of Me (File 13 Records, 2005)

7

Come Home (Ghost, 2006)

6

EGLE SOMMACAL:

Legno (Unhip, 2007)

6

Tanto non arriva (Unhip, 2009)

6

Il cielo si sta oscurando (Unhip, 2014)
6,5
L'atlante della polvere (FalloDischi/Martire Records/Sangue Dischi, 2016)7
EMIDIO CLEMENTI:
Notturno americano (Santeria / Audioglobe, 2015)7,5
SORGE:
La guerra di domani (La Tempesta, 2016)7
EMIDIO CLEMENTI E CORRADO NUCCINI:
Quattro quartetti (42Records, 2017)7
Pietra miliare
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