Per un songwriter innamorato della comune ossessione per la morte, il tempo che scorre beffardo e inesorabile non può essere solo uno spunto tra i tanti. Mathias Kom, l'ometto barbuto dietro cui si celano da sempre i canadesi Burning Hell, ha ricamato attorno a questo tema un'intera sensazionale carriera, confinata in una nicchia pressoché carbonara non certo per colpe sue. Questo chiodo fisso è stato piantato su nastro quando il Nostro, ukuleleista seriale ed ex docente di storia alla Trent University, si è stufato dei bislacchi e sterili esperimenti in solitaria (da cui sono scaturite quattro raccolte autoprodotte e oggi, di fatto, introvabili) e ha puntato a dare una conformazione più robusta e partecipata alle proprie esternazioni musicali. Quello nato così timidamente, in maniera informale e del tutto amichevole, è un anomalo gruppo folk che suona canzoni allegre con testi che parlano, neanche a farlo apposta, della danza tra un'umanità sbiadita e la nera signora.
Le canzoni si lasciano ricordare. Sono semplici ma già molto ben scritte e adornate con ricchezza d’arrangiamenti, senza che nulla sia davvero di troppo. Tra i passaggi più curiosi va segnalato il duetto impastato (e dai riflessi allentati) di “All The Stars And Parking Lots”, in cui la poesia del marginale del giovane autore ha modo di emergere contagiosa, pur in un’intonazione pigra e indolente. Il rock sovraccarico dei Burning Hell è tenero e scontroso a un tempo, una dondolante schiacciasassi assemblata in maniera artigianale ma anche una formidabile collezione di sgangheratisingalong tipo “Bretton Woods” o “Shangri-La”. La resistenze dei meno cinici si abbassano già dopo un paio di giri sul lettore e l’introduzione al variopinto universo di Kom funziona inesorabile, la simpatia si accende in un amen, a pelle. Sono molte le affinità stilistiche, corali e nell’approccio alla canzone con un altro ensemble canadese guidato da una forte personalità artistica e infarcito di musicisti e sonorità di ogni fatta, i Woodpigeon di Mark Hamilton. Come nel caso di “Songbook”, anche l’atto primo dell’avventura Burning Hell rivela un talento non comune e incontenibile che sa di predestinazione.
Il bozzettismo, che nelle successive produzioni del Nostro prenderà il sopravvento, emerge qui soltanto occasionalmente, nella deliziosa miniatura bandistica di “Little Seagull”, ad esempio, o nella non meno paradigmatica (anche per l’ossessione del trapasso) “Last Will And Testament” dove fanno capolino lo strumento feticcio e i fiati turgidi, comparse sonore che si ritaglieranno presto la parte del leone. Ancora non sembra avere troppo senso l’etichetta dark-cabaret che in seguito sarà appioppata spesso alla formazione di Peterborough, per quanto alcuni episodi parrebbero suggerire comunque la fascinazione del cantante per le ombre, la già citata “Shangri-La” in testa. Anche l’ukulele è ancora solo un modesto comprimario. Che diventa però assoluto protagonista in scena nella chiusa di “99 Months”, una delicata ninnananna che vale come promessa per il futuro imminente e conferma la caratura squisitamente eclettica del cantastorie, incantato più che rassegnato dallo scorrere impietoso delle lancette (e dal loro ticchettare).
26/04/2016