Quanti parlano di Antony sostenendo che nel suo caso l’artista non possa scindersi dal personaggio probabilmente non lo hanno mai visto esibirsi dal vivo: timidezza appena dissimulata dall’esperienza e straordinaria concentrazione sul suo pianoforte a coda e sulle sue caratteristiche interpretazioni vocali.
Che sia la musica, allora, a occupare il centro del palcoscenico, soltanto preceduta dall’ormai consueta introduzione di una performance di danza di un quarto d’ora, che riempie di un simbolismo da rito macabro e apocalittico l’attesa per l’entrata in scena di Antony e della band, catturando l’attenzione per concentrarla su riflessioni esistenziali e infine sull’essenza pura e diretta della musica.
E la musica inizia con le note di pianoforte suonate nel raccoglimento di un buio quasi totale, nel quale si scorgono appena gli archi in primo piano e la sezione ritmica sullo sfondo, mentre la voce che intona “Where Is My Power” sembra provenire semplicemente da un altro mondo, entità impalpabile che si trasforma in calda sostanza, risuonando tra i legni della Sala Santa Cecilia, ambiente al solito perfetto per la fruizione della musica dal vivo.
Quasi a rappresentare in scena la “luce piangente” del suo lavoro più recente, dal buio si schiude un tenue chiarore, che permette di distinguere la sagoma dell’artista al pianoforte, mentre intona l’
incipit riconoscibile di “Her Eyes Are Underneath The Ground”. È il preludio al trittico estrapolato da “
The Crying Light”, che prosegue con “Epilepsy Is Dancing” e “One Dove”, declinata secondo un basso profilo espressivo e con arrangiamenti ariosi ma estremamente misurati, nei quali il romanticismo degli archi (violino e violoncello, ai quali si aggiunge saltuariamente un secondo violino) esalta la toccante intensità dei brani, alternandosi soltanto al caldo languore di una
spanish guitar e a rifiniture più
jazzy sulle note del sax.
Tutto funziona come in un meccanismo collaudato e perfetto nel quale Antony e la band dialogano senza comunicare, alternando chiavi interpretative e registri diversi, arricchendo di suoni la struttura delle canzoni o alternamente ritraendosi per lasciare il proscenio solo a pianoforte e voce.
Le esecuzioni crescono di tono e la voce di Antony – all’inizio invero piuttosto bassa e non al meglio della forma – comincia a scaldarsi con la partecipata “For Today I Am A Boy” e la successiva “Kiss My Name”: gli arrangiamenti adesso si fanno più complessi e la resa
live dei brani più
uptempo ne denota tuttavia una misuratezza tale da non porre eccessiva enfasi su aspetti marginali rispetto a testi e melodie. È l’abbrivio alla parte centrale dell’esibizione e al primo momento di dialogo di Antony col pubblico, costituito dalla narrazione del significato di “Everglade” e dello spirito panico che l’ha ispirata e si ripete nella forza e nella grazia della natura.
Da qui in poi è tutto un susseguirsi di momenti, di continue trasformazioni sonore che dimostrano la non comune versatilità stilistica dell’interprete e della band, rendendo praticamente impossibile (e più insignificante del solito) riferire definizioni di genere a una musica che trova propria ragion d’essere nella fugace intensità della sua esecuzione. Si passa così senza apparente iato da una spontanea accentuazione soul alla resa incredibilmente sobria in chiave country della
cover di
Bob Dylan “I Was Young When I Left Home” (già eseguita in occasione della raccolta benefica “
Dark Was The Night”). In mezzo, la seconda narrazione della storia di un brano, “The Crying Light”, con annessa dedica a Kazuo Ohno, la cui esecuzione, in evidente omaggio all’artista giapponese, vede Antony corredare il brano di una danza gestuale, riproposta anche in occasione di alcune successive esecuzioni, in un’accentuazione di espressività, quale unica, piccola concessione a un protagonismo ulteriore rispetto a quello delle sole note.
L’esibizione tende ormai a distaccarsi nettamente dal romantico minimalismo degli arrangiamenti iniziali e dai frammenti di cupo raccoglimento sulle note degli archi, presentando piuttosto un’impostazione
full band che esalta i toni della parte conclusiva del
live, nella quale spicca la riproposizione della
soulful “You Are My Sister”.
Dopo un paio di minuti di scroscianti applausi e qualche eccesso di esaltazione da parte del pubblico – che sembra aver provocato un certo fastidio all’artista newyorkese – la band si ripresenta su un palco di nuovo quasi buio. Un debole chiarore illumina soltanto il pianoforte di Antony, che per qualche minuto si diverte a giocare con un ringraziamento in musica in italiano, improvvisato secondo tre-quattro arrangiamenti diversi. Non si può certo trattare dell’embrione di una nuova canzone, come scherzosamente dice Antony, ma senz’altro dimostra la versatilità stilistica sua e della band anche in questo interludio di breve
divertissement.
Minore giocosità si ravvisa invece nella difficoltà dell’artista nel ricreare un completo silenzio dopo “Dead Boy” e prima del momento conclusivo della serata, attimi in cui, accanto all’esigenza di un raccoglimento che nel corso della serata gli è stato solo raramente concesso, traspare la muta sottolineatura di una certa insofferenza, che sa tanto di piccola lezione comportamentale. Ma il “maestro” è benevolo e, ottenuto finalmente l’agognato silenzio, si riappacifica subito col pubblico attraverso le sue note, regalando come biglietto di arrivederci (ritornerà nello stesso luogo il prossimo 28 luglio, accompagnato dalla Roma Sinfonietta) un’intensa “Hope There’s Someone”, sulla quale torna a scemare lentamente la fioca luce apertasi su di lui poco meno di due ore prima.
(30/03/2009)
Foto: Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello