Sigur Rós

Sigur Rós

Se l'emozione avesse un suono

Come nella loro terra il ghiaccio si unisce al fuoco, così la musica dei Sigur Rós è il frutto dell'incontro tra tante e diverse suggestioni artistiche, dalla psichedelia al dream-pop, dallo shoegaze al post-rock. Il suono che ne risulta, interpretato secondo una sensibilità tormentata e con gusto tipicamente nordico, è qualcosa di unico e fortemente caratterizzato in senso istintivo

di Raffaello Russo

È opinione diffusa che l'attuale modalità di fruizione della musica non permetta più lo sviluppo di quella dimensione collettiva e partecipata del fenomeno musicale che per decenni è stata alla base della percezione delle varie stagioni del "rock". Per quanto tale opinione sia suffragata da numerosi riscontri oggettivi, non risulta aliena da poche ma significative eccezioni che, anche in questi disorientanti anni 2000, sono riuscite a catalizzare su di sé le attenzioni di un'ampia fetta di pubblico, con non altro mezzo se non la qualità e le capacità comunicative delle loro produzioni artistiche.
Comunque la si pensi sulla loro espressione musicale, i Sigur Rós rappresentano senz'altro una di queste eccezioni (accanto forse ai soli Radiohead): una band capace di trasformare in fama e successo di dimensioni planetarie le proprie origini sotterranee dall'affascinante quanto periferica Islanda, terra con la quale dimostrerà sempre un forte senso di appartenenza, ritrovandovi rifugio ed elevandola a principale fonte di ispirazione della sua musica.

Gli elementi per ammantare di un'aura mitologica la storia della band ci sarebbero tutti, dalla provenienza geografica al sorprendente iter artistico, fino alla caratterizzazione da (anti-)personaggio di Jón Þór (Jónsi) Birgisson, autore dalla sensibilità unica e cantante dalla voce particolarissima. Ma di tutto ciò i Sigur Rós possono fare tranquillamente a meno poiché, accanto a tali fattori in parte esogeni al contesto musicale, ve ne sono tanti altri ben più rilevanti che costituiscono il punto di partenza della storia di una band nata, come tante altre, nel brulicante underground islandese di metà anni 90 e impostasi a un'attenzione sempre crescente per la naturalezza con cui ha saputo coniugare atmosfere eteree e sognanti con impennate talora impetuose, tutte dotate di un forte impatto emotivo.
Nel corso degli anni, è stata proprio la straordinaria capacità di creare musica "emozionante" a rappresentare il principale elemento caratterizzante dei Sigur Rós, al di là di ogni dato tecnico e di qualsiasi definizione di "genere", e finanche degli aspetti comunicativi più immediati. Tanto più efficace risulta infatti l'effetto istintivo ed emozionale della loro musica quanto più impenetrabili sono i loro testi, cantati in islandese o, in alternativa, in vonlenska (o hopelandic), lingua totalmente inventata, alla maniera dei Cocteau Twins, i cui fonemi riescono a comunicare oltre il significato delle parole, grazie all'interpretazione coinvolta e fortemente espressiva di Jónsi.

La storia dei Sigur Rós comincia nel 1994, il giorno stesso della nascita della nipote di Birgisson, chiamata per l'appunto Sigurrós (nome femminile piuttosto diffuso in Islanda, il cui significato è "rosa della vittoria"). Inizialmente la band è un terzetto, composto, oltre che da Birgisson, dal bassista Georg Hólm e dal batterista Ágúst Ævar Gunnarsson.
Il loro primo singolo, "Fljúgðu", viene subito notato dalla loro più illustre connazionale, Björk, che decide di inserirlo in una raccolta da lei curata per festeggiare i cinquant'anni di indipendenza islandese dalla Danimarca.
Nonostante siffatta "madrina", il percorso iniziale della band è tutt'altro che repentino, e resta anzi confinato alla sola Islanda.
Sono necessari oltre tre anni perché, sulla principale etichetta nazionale, la Smekkleysa, veda la luce l'album di debutto, simbolicamente intitolato Von ("speranza"). Si tratta di un'opera ancora acerba, nella quale la personalità artistica della band è delineata solo in parte, affiancata com'è a richiami piuttosto espliciti a spunti e riferimenti estrapolati da un background musicale fatto di ispirazioni ancora soltanto prodromiche alla creazione di un suono semplicemente unico, del quale in Von iniziano tuttavia a essere posti a coltura i vitalissimi germi.

Von rende tuttavia già palese la fascinazione dei giovani islandesi per atmosfere sottilmente psichedeliche, a cavallo tra derive interstellari floydiane e un'ovattata e inquietante ambient post-industriale, che avvolge in un cupo fluttuare i quasi dieci minuti dell'iniziale "Sigur Rós" e la successiva "Dögun", ove cominciano ad affacciarsi i primi timidi vocalizzi di Jónsi. Dopo questo oscuro incipit, i brani acquistano strutture definite, attraverso ritmiche secche e una sensibilità più spiccatamente "rock", tradotta nella densità di chitarre esplicite, che riecheggiano sonorità tra il garage e lo shoegaze, nell'inno alla madre terra "Hún Jörð", e in particolare quest'ultimo nella liquida e trascinante "Myrkur", brano ossimoricamente solare (il suo titolo significa "oscurità"), sfociante in rapido mantra melodico che cresce avvolgendosi in rilucenti spirali sonore, quasi in odor di Slowdive.
Ma è nella seconda parte di Von che alcune delle caratteristiche sopra evidenziate cominciano a miscelarsi in quella forma unica ed emozionante che si affermerà quale riconoscibile "marchio di fabbrica" dei Sigur Rós. Tra le incertezze stilistiche di "Veröld Ný Og Óð" e il nebbioso interludio "Mistur", questa parte dell'album regala tre anticipazioni di quel che sarà il successivo percorso della band, esemplificato dal drumming deciso e dalle soffici melodie della title track - prima vera e propria "canzone" - e dalle articolate composizioni delle immaginifiche "Syndir Guðs" e "Hafssól". Questi brani riportano in superficie sentori cristallizzati dal tempo, lentamente dipanati tra melodie sospese, che rivelano le stimmate del futuro suono della band e la sua capacità di creare una morbida tensione, da liberare poi in un caleidoscopio di emozioni, qui ancora solo parzialmente espresse, attraverso modalità dilatate, sognanti, misteriose, dolcemente impetuose e dotate di un'efficacia descrittiva davvero unica, come dimostrano le immagini dell'arcobaleno e dei timidi raggi di sole attraverso le nubi, menzionate nello scarno testo di "Hafssól" e da sole esemplificative di un'intera poetica musicale.

Il successo di pubblico conseguito da Von è piuttosto scarso, ma quello di critica comincia a far circolare il nome dei Sigur Rós nel panorama musicale islandese e anche al di fuori, in particolare in Inghilterra. I primi risultati tangibili dell'interesse intorno alla band si traducono nell'album di remix Von Brigði (1998), che contiene rimaneggiamenti dei brani di Von esclusivamente ad opera di artisti islandesi, tra i quali spiccano i Gus Gus e i Múm, oltre ad un auto-remix di "Leit Af Lífi", brano originariamente pensato per essere compreso nell'album d'esordio ma escluso per motivi di tempo legati al missaggio. Il secondo frutto della crescente stima guadagnata dalla band è il contratto discografico con Fat Cat e PIAS (firmato dopo il rifiuto di più di un'offerta da parte di major americane), che pone le premesse per il definitivo decollo dei Sigur Rós dall'Islanda al continente e ben presto al resto del mondo.

Il primo importante passo della band fuori dall'Islanda è Ágætis Byrjun, il cui titolo, casuale ma emblematico, significa "un buon inizio". E di un (nuovo) inizio si tratta davvero per i Sigur Rós, poiché, rispetto al lavoro precedente, Ágætis Byrjun vede assestarsi per la prima volta la line-up definitiva della band, con l'ingresso in formazione di un nuovo batterista, Orri Páll Dýrason, e la preziosissima aggiunta del polistrumentista Kjartan Sveinsson (chitarra, pianoforte, tastiere, flauto).
Anche in virtù dei cambiamenti d'organico, la genesi dell'album è alquanto sofferta, tanto da richiedere oltre due anni tra il momento iniziale della scrittura, l'elaborazione sonora e infine la registrazione dei brani.

Sigur RosL'album esce in Islanda nel 1999, ma solo nell'agosto dell'anno successivo in Inghilterra e nel resto d'Europa, e rende subito evidente che il suo lungo periodo di gestazione è stato messo a frutto nel migliore dei modi possibili, poiché il suo risultato è, semplicemente e con immensa naturalezza, la definizione di uno stile unico, qui compiutamente declinato secondo molteplici sfaccettature, ognuna delle quali rende tangibile un suono inaudito, che scompagina categorizzazioni e cervellotici tentativi ricostruttivi, in favore di un approccio particolarissimo e toccante, tutto incentrato sull'espressione e sulla sollecitazione di emozioni profonde. 
Ágætis Byrjun è un'opera quanto mai varia e articolata, in perenne equilibrio tra dolcezza e irruenza, tra levità e cupezza, tutte ricondotte al comune denominatore di una musica risultante dall'incontro di un impianto "rock" elettrico con un afflato orchestrale, entrambi connotati dal cantato vibrante di Jónsi, disorientante nel suo tono da elfo, ora etereo ora acuto, ma sempre incredibilmente espressivo.
Dopo una breve "Intro" (che altro non è se non una parte della title track suonata al contrario), sono i reiterati vocalizzi di Jónsi a conferire caratteristiche aliene a "Svefn-G-Englar", brano mutante di dieci minuti che, tra chitarre in torsione verticale e melodie celestiali, introduce in atmosfere oniriche e sofferte, di grande tensione e coinvolgimento.
Tali tratti distintivi possono essere lontanamente accostati a quelli del post-rock più emozionante, nel cui indistinto calderone la musica dei Sigur Rós sovente è stata annoverata. Tuttavia, tanto le premesse che la sensibilità qui dimostrata dalla band islandese risultano diverse e del tutto peculiari poiché, se è vero che il crescendo trasognato di "Viðrar Vel Til Loftárása" e il suo sfociare nel suono pronunciato delle chitarre presentano tratti del cosiddetto "post-rock orchestrale", gli elementi e la sensibilità compositiva sono ben diversi e intesi al romanticismo arioso e per nulla stucchevole che caratterizza gli arrangiamenti di quasi tutti i brani.
Tra rigore compositivo e fresca giocosità, contrappunti elettronici e toni sofferti, l'album disegna una costante ambivalenza tra sensazioni armoniche avvolgenti e testi permeati da forte pathos emotivo, costellati da arrangiamenti ariosi e imprevedibili increspature ritmiche, che in più di un'occasione ("Ný Batterí", "Hjartað Hamast") assumono forma di sinuoso beccheggio, palese richiamo a sentori nordici e flutti ghiacciati, ora cullanti, ora spaventosi.
La forte connotazione geografica d'origine, percepibile nei suoni di buona parte dell'album ed espressa altresì attraverso l'orgoglioso utilizzo dell'idioma islandese per tutti i testi, aggiunge ulteriore, affascinante imperscrutabilità a un lavoro già denso di suggestioni derivanti dalla sua particolarissima ibridazione stilistica, risultante da un inaudito mélange tra etereo romanticismo, orchestralità, matrici psych e spunti latamente post-rock.

A ragione, Ágætis Byrjun funge da rampa di lancio dei Sigur Rós a livello mondiale, e questo non solo per la sua eccelsa qualità e per la sua diffusione, invero ancora piuttosto limitata, ma soprattutto per l'attenzione destata in numerosi ambienti artistici tra loro diversi. Non è un caso, infatti, che due band in vista ma artisticamente distanti, ovvero Godspeed You! Black Emperor e Radiohead, li abbiano scelti per fare da supporto a loro eventi dal vivo, i primi in occasione di un concerto alla Royal Festival Hall e i secondo in numerose date del tour successivo a "Kid A".

Tra l'attività dal vivo e quella di preparazione del disco successivo, il periodo 2000-2001 è caratterizzato anche da due uscite parallele che vedono i Sigur Rós cimentarsi in due particolari collaborazioni, che esulano in parte dal solco fin qui tracciato, testimoniando un interesse musicale dallo spettro amplissimo.
La prima è la partecipazione, alla colonna sonora del film Englar Alheimsins ("Angels Of The Universe"), nella quale, accanto a quindici frammenti orchestrali da "modern classical", ad opera del compositore Hilmar Örn Hilmarsson, trovano spazio due brani dei Sigur Rós, considerabili quasi quali outtake da Ágætis Byrjun poiché di quell'album richiamano lo stile e il coinvolgimento emotivo, sospesi come sono tra le melodie di "Bíum Bíum Bambaló" (rifacimento di un'antica ninnananna islandese) e impulsi elettrici incisivi, che in "Dánarfregnir Og Jarðarfarir" toccano livelli estremi di irruenza e drammaticità.

Intanto, la band rivolge ancora il suo sguardo alla tradizione della sua terra, in seguito all'incontro con il cantore e poeta Steindór Andersen, maggior esponente vivente del poema epico islandese chiamato Rímur, lo stesso titolo assunto da un Ep stampato in sole mille copie e comprendente sei tracce, in tre delle quali la band accompagna Andersen, dando luogo, soprattutto nel brano "Fjöll Í Austri Fagurblá", a uno splendido esempio di sincretismo tra il cantato baritonale del poeta e la musica dei Sigur Rós, sfondo moderno e compassato a una declamazione solenne e dalle tinte ancestrali.

Nel 2002 giunge quindi l'attesissimo seguito di Ágætis Byrjun, per il quale la band opta per una scelta tutto fuorché strategica dal punto di vista commerciale, licenziando un album in cui davvero tutto è lasciato alla musica e alle sensazioni da essa evocate, senza sovrastruttura alcuna, a partire dall'artwork incolore, dall'assenza di titoli e note di copertina e persino dal mezzo di comunicazione linguistica. Nell'album, comunemente indicato come ( ), Jónsi canta infatti interamente in vonlenska, attraverso vocalizzi improvvisati e privi di significato, utilizzando la voce a mo' di ulteriore strumento musicale.

Sigur RosLa riduzione a un grado zero semantico è testimoniata anche dal fatto che gli otto lunghi brani di ( ), pubblicati privi di un titolo identificativo, lo hanno in realtà perso nel corso delle sessioni di registrazione dell'album, durante le quali i Sigur Rós hanno lavorato per sottrazione piuttosto che per aggiunta, alla ricerca di un minimalismo del mezzo, diametralmente opposto a quello della sostanza comunicativa, che invece fluisce copiosa, liberata da ogni schema predefinito.
Altrettanto essenziale, eppure ricchissimo, è il profilo musicale di ( ), che riduce allo stretto necessario le partiture orchestrali e le sperimentazioni elettroniche dei primi due album, qui presenti soltanto sotto forma di qualche timido field recording, in favore di un approccio di intima e umbratile delicatezza, tradotto in note dipanate con lenta grazia e puntellate dai vocalizzi di Jónsi, costanti ma mai melensi nella loro sofferta dolcezza.
Tre quarti dell'album scorrono in maniera uniforme, attraverso atmosfere incantate, inizialmente improntate a un lirismo spiccato e a melodie accessibili, spesso però diluite in atmosfere rarefatte e al rallentatore ("Untitled #2" e "Untitled #4") o trasformate in vere e proprie sinfonie da camera ("Untitled #3", brano guidato da un giro di piano di meravigliosa semplicità).
Le composizioni, in apparenza uniformi ma invero assai complesse, trascendono ancora una volta ogni possibile coordinata stilistica, trasformando in un'intimità fragile e accorata la sottile psichedelia di suoni soffusi e l'indolente ma inesorabile avanzare di ritmiche catatoniche, viatico irrinunciabile a un rapimento emotivo che, come le canzoni, va ben oltre la parole, tanto da poterne fare tranquillamente a meno.
Gli affascinanti suoni brumosi che caratterizzano ( ) e che a un impatto superficiale potrebbero anche apparire di difficile permeabilità, si diradano poi pian piano, dischiudendo uno scrigno di sensazioni fuori dallo spazio e dal tempo, fino a riassumere tangibile concretezza nei due brani finali ("Untiled #7" e "Untitled #8") che, oltre ad essere i più lunghi dell'album (entrambi oltre i dieci minuti), sono anche quelli in cui l'impatto emotivo dei crescendo elettrici, sullo stile di quelli di Ágætis Byrjun, viene perpetuato e anzi portato a conseguenze estreme, fino a generare esplosioni di irruenza vibrante e disperata, ulteriore dimostrazione della sensibilità tormentata che scorre carsicamente sotto la musica dei Sigur Rós, come magma lavico sotto una superficie ghiacciata.

Sorta di altra faccia della medaglia rispetto all'album che lo ha preceduto, ( ) mostra il volto più delicato ed entropico della band, regalando un messaggio non meno affascinante né meno importante per la definizione di una fisionomia artistica che qui si stabilizza, perpetuando i caratteri delle prime opere ed accentuandone le tinte più delicate e personali, fino a conseguire un risultato diverso ma che merita, quanto meno, dignità pari ad Ágætis Byrjun.
Il lavoro segna anche l'inizio di un'importante collaborazione, ovvero del duraturo sodalizio che lega i Sigur Rós al quartetto d'archi femminile Amiina, da qui in avanti insostituibile supporto dal vivo, ma altresì parte integrante dell'incantata ricchezza sonora dei lavori in studio.

È il successo riscosso dall'album e dal successivo tour mondiale a lanciare definitivamente la band sul mercato discografico, facendola emergere quale fenomeno conosciuto e apprezzato su scala ormai planetaria.
Così, dopo la parentesi della colonna sonora per il documentario Hlemmur (diciannove brevi tracce strumentali a base elettronica, alcune delle quali variazioni dello stesso tema), diventa quasi inevitabile la firma di quel contratto con una major che la in precedenza aveva orgogliosamente rifiutato. Per fortuna, si tratta però di un passaggio tutto sommato indolore, scelto e progettato in coerenza con la sensibilità dei quattro ragazzi islandesi.

Smentiti timori e luoghi comuni legati a tale genere di transizioni, nel 2005 Birgisson e compagni firmano il loro ritorno con Takk...: undici tracce, questa volta tutte recanti un titolo, nonché dotate di un testo in islandese. Per quanto si tratti di elementi meramente formali, già la presenza di titoli e testi veri e propri sembra indicare una maggiore estroversione nell'attitudine compositiva del gruppo, confermata poi dall'ascolto di Takk... (che in islandese significa "grazie"), dal quale emerge un mood più leggero rispetto alla struggente malinconia di ( ), perfettametne esemplificato da "Glósóli" - primo singolo e ideale archetipo della filosofia sonora ed esistenziale della band islandese - con la sua narrazione della storia di un bambino che, svegliandosi nell'oscurità, teme che il sole sia stato rubato, così va alla sua ricerca, fino a ritrovarlo lì dove è sempre stato. Il tutto in un delicatissimo caleidoscopio emotivo che va dal cantato sommesso e intimista di Birgisson della prima parte del brano all'apoteosi chitarristica della seconda, fino al breve ritorno della quiete negli ultimi secondi del brano. Andamento analogo presenta anche "Sæglópur", con il suo inizio tutto pianoforte e campanelli e un maestoso crescendo che pare un'invocazione liberatoria. 
Accanto alla ritrovata forza espressiva di questi brani vi è però anche un trittico di episodi lenti e sfumati, composta dalla filmica "Sé Lest" (che culmina in un finale vagamente folk), dalla lirica ed eterea "Andvari" e da "Heysátan", ninnananna dolce e umbratile, adeguata quiete successiva alle tante travolgenti tempeste emozionali, originate da fascinazioni psichedeliche e da movimenti impercettibili.
Altrove, i Sigur Rós sembrano richiamare lo stile dei loro primi lavori: è il caso di "Gong", il pezzo più diretto dell'album, caratterizzato com'è da una netta impronta ritmica wave e incentrato su un vorticoso mantra di vocalizzi. La dolcezza e il lieve cantato di "Hoppípolla", oscillante tra la semplicità di una filastrocca e ariose aperture orchestrali, così come il coro leggiadro della sua breve appendice "Með Blóðnasir", sono infatti racchiusi in un apparato lirico simile a certi passi di Ágætis Byrjun.
Certamente meno sorprendente rispetto ai lavori precedenti, Takk… ne sublima in forma merfetta le caratteristiche, tanto da potersi considerare una sorta di summa dell'espressione musicale maturata dalla band.

Sigur RosDue anni dopo Takk…, i Sigur Rós si ripresentano con un doppio cd, Hvarf/Heim, nel quale, accanto a un paio di pezzi inediti, trovano ampio spazio rivisitazioni di brani più o meno recenti della loro discografia.
Non si tratta, tuttavia di un'operazione meramente commerciale, volta a mantener vivo l'interesse del pubblico per la band islandese, nonostante l'assenza di un album vero e proprio, poiché i Sigur Rós si cimentano con impressionante naturalezza nella rielaborazione dei brani già editi, ai quali si aggiunge il vecchio demo "Salka" e due inediti, "Hljómalind" e "Í Gær". Dei due cd di cui si compone Hvarf/Heim, il primo perpetua la magia della musica dei Sigur Rós nell'abituale habitus elettrico, reso in prevalenza fluido e arrotondati, ma che non disdegna impennate chitarristiche, come quelle dall'inconsueto sapore psych-prog di "Í Gær".
Il secondo cd, "Heim", contiene invece sei brani già editi, riproposti in una forma totalmente unplugged, nella quale rifulgono le componenti orchestrali del suono della band e viene esaltato il fondamentale contributo ad esso delle Amiina, in particolare nelle profonde rielaborazioni di brani quali "Ágætis Byrjun" e "Starálfur", dai quali traspare la novità di una lieve solarità, che dimostra come bastino voce, archi e una limitata strumentazione acustica per conseguire ancora una volta un risultato assolutamente da brividi.
Nonostante la sostanziale assenza di evoluzioni stilistiche, Hvarf/Heim rappresenta qualcosa più di una semplice raccolta per appassionati: anzi, tanto dai brani "classicamente" elettrici, quanto dalle ricchissime reinterpretazioni acustiche, emerge con chiarezza la straordinaria capacità espressiva di una band unica, consolidata nella maturità di un suono che ammette poche variazioni ma ciononostante riesce ogni volta a colpire, toccando con sapienza le giuste corde dell'anima.

In contemporanea col doppio cd, esce anche il film-documento Heima, testimonianza di una serie di concerti tenuti in diversi, particolarissimi contesti islandesi, che, viene a ricordarci che, anche nell'era di internet e dell'accesso globale, la musica è fatta di persone. Che è espressione di una cultura, di un popolo, di una terra. Di una heima appunto, termine evidentemente vicino al tedesco heimat. Patria, diremmo noi. Casa.
Ecco, allora, perché i Sigur Ròs, ragazzi sbalzati dalle cantine delle proprie abitazioni ai palchi incandescenti per i riflettori, non sono piovuti dal cielo. Sono piuttosto la banda di ottoni che attraversa un paese di venti anime. Il bambino che si arrampica su un cumulo di scarpe, e la ragazza che pranza a piedi nudi. Sono, soprattutto, il silenzio e la luce di quel capolavoro in terra che è l'Islanda. Quella luce che anche nelle loro canzoni non cede mai il passo al grigiore di un'ombra, nemmeno nei momenti più tesi, come "Untitled # 8". Diventa tutt'al più gioco di rifrazioni violente, abbacinanti. Splendide.
Dobbiamo essere grati dell'occasione concessasi da Heima. Di poter vedere questa musica restituita ai luoghi che l'hanno generata, alla casa a cui appartiene. "Untitled # 1", suonata in un oceano di quiete, è una benedizione. Così come "Staralflur", ricondotta nell'intimità di quattro mura. O ancora "Untitled # 3", posta in chiusura, riscaldata da una schiera di candele.

Il quinto album effettivo della band islandese, Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust, frutto della collaborazione con il produttore Flood, comincia a esplorare strade nuove, attraverso spunti artistici piuttosto diversi tra loro. Gli elementi di novità sembrano tuttavia più numerosi dei retaggi di "conservazione", così come testimonia la stessa struttura dell'album, che si può a grandi linee suddividere in tre parti, delle quali due presentano Jónsi Birgisson e compagni in vesti sonore più o meno nuove, mentre una tende a perpetuare le stesse caratteristiche di fascino e coinvolgimento emotivo tipiche dei loro lavori precedenti.
La prima parte è fortemente spiazzante, e mostra da subito i Sigur Rós sotto una prospettiva quasi del tutto inedita, ammantando le loro melodie soffuse ed eteree di una solarità inconsueta e di una vena pop mai così spiccata.
L'iniziale "Gobbledigook" si presenta con un drumming insistito e accenti ritualistici, che sottolineano nuovamente il legame della band con l'ancestralità islandese, a supporto di un folk-pop psichedelico, completato da cori sghembi e da una melodia solare e dall'effetto trascinante. I Sigur Rós dischiudono qui un mondo nuovo e colorato, ove le canzoni presentano forme definite e persino il cantato di Jónsi acquista una decisione e una linearità finora sconosciute. Questo primo segmento del lavoro si attesta su toni giocosi e incalzanti, sublimati da "Við Spilum Endalaust", popsong da far invidia ai Coldplay, contraddistinta però dal marchio di fabbrica dei Sigur Rós nelle sue progressive aperture armoniche e nell'esito magnifico di un finale tutto archi e vocalizzi. 
La parte centrale dell'album riporta invece al registro più classico della band, con tempi dilatati e con il consueto cantato etereo, dolcemente stillato su un avvolgente tappeto d'archi, il cui inesorabile e in parte prevedibile crescendo anticipa, in "Festival", l'irrompere della batteria e dei cori e l'unico impetuoso finale elettrico presente in questa raccolta. Sulla medesima scia di continuità, ma secondo modalità ben diverse, si colloca la parallela "Ára Bátur", brano pacato e toccante, con la sua sottile malinconia che corre sul pianoforte compassato ed emozionante di Kjartan Sveinsson per poi sfociare in una romantica elegia, innalzata al cielo dalla solennità anthemica degli archi.
È il preludio al terzo segmento del lavoro, quello più intimo e raccolto, in cui Jónsi assurge a protagonista assoluto, dimostrando con la semplicità di voce, chitarra acustica e pianoforte, che l'incredibile capacità comunicativa innegabilmente riconosciuta ai Sigur Rós, può fare a meno persino delle travolgenti cavalcate elettriche per conseguire un effetto parimenti "emotivo".

La struttura tripartita del lavoro, tanto palese da essere stata certamente congegnata di proposito, rispecchia senz'altro il processo di trasformazione in atto, tra passato, presente acustico e ipotizzabile dimensione pop futura. Altrettanto studiato anche dal punto di vista compositivo, Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust riesce tuttavia a bilanciare la prevalente levigatezza dei brani con l'istinto e l'abituale forza interpretativa che, anche in quello che potrebbe essere reputato come un classico album di transizione, regala almeno un brano da amare e ricordare per ogni terzo dell'album, fulgidi esempi di versatilità ed ennesima, (superflua!) dimostrazione che la magia irripetibile, creata dai Sigur Rós, non risiede soltanto nella chitarra suonata con l'archetto e nelle loro mirabili impennate emotive, ma in qualcosa di decisamente più profondo, legato all'approccio e alla sensibilità e inafferrabile con i soli metri formali, se svincolati dall'irrinunciabile elemento percettivo.

Quello che sembrava il principio di una svolta creativa si rivela invece il preludio a un "undefined hiatus", interrotto solo dalle libere uscite di Jónsi e dall'album live Inni, che nulla aggiunge alla precedente raccolta Hvarf/Heim. Dopo di che, quasi all'improvviso, ecco Valtari, omogeneo flusso di cinquantaquattro minuti che lascia l'impressione che per uscire dall'impasse creativa la band abbia inteso rifugiarsi nel sicuro approdo delle abituali sonorità dilatate e sognanti o, meglio, si sia ritrovata per l'ennesima volta in studio dopo aver inserito il pilota automatico deputato a portare a termine le composizioni ad essa più congeniali.
In Valtari si ritrovano tutti gli ingredienti dei Sigur Rós più eterei e sognanti, le armonie vocali impalpabili e le atmosfere di foschia avvolgente che si diradano per lasciare spazio a folate emozionali. Tutto sembra dunque al proprio posto - a tratti persino troppo - diluito com'è in un brodo di coltura dai tenui colori pastello, al limite screziato attraverso l'utilizzo di tessere policrome, collocate sulle note del pianoforte e del vibrafono o corredate da voci bianche e dagli inconfondibili gorgoglii di Jónsi, che per l'occasione appaiono maggiormente ripiegati su se stessi e in genere confinati al ruolo di mero corollario delle ambientazioni sonore. L'unitarietà del lavoro finisce tuttavia per mancare di veri e propri guizzi, inizialmente rilevabili nell'anthemica "Varuð" e nella poetica invocazione orchestrale di "Dauðalogn", offrendo così la sensazione che l'immediatezza realizzativa corrisponda a una precisa opzione in favore di un descrittivismo da colonna sonora, maggiormente filtrato dall'elettronica, ma che a tratti disperde le suggestioni più emozionali, da sempre caratteristiche della band islandese.

Inaspettato. Con Kveikur ("stoppino"), a un anno esatto da Valtari, i Sigur Rós lasciano i loro fan di stucco, e tutto si fa forse più chiaro. Da un lato l'abbandono dello storico tastierista Kjartan, dall'altra una sorta di speranza che si proietta verso nuovo inizio. Quasi fosse una storia che si ripete, il trio rinfocola una fiamma che pareva destinata a esaurirsi, pubblicando un album che profuma di urgenza, forse come solo ()Kveikur si pone sin da "Brennestein" come l'album "rock" degli islandesi. Anche se, a ben sentire, ogni etichetta coglierebbe solo parzialmente la svolta dei Sigur Ros. 
E lo fanno cacciando fuori tutta la grinta che sia in Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust (il loro album freak?) che appunto nel loro disco ambient Valtari, era rimasta soffocata. Il glucosio, lo zucchero, mai come ora viene dosato secondo nuove modalità. Struttura e colonne portanti diventano le chitarre, i riverberi, i climax, muri di suono trascinanti, mai banali. E l'elettronica, l'elemento ritmico, la batteria che calpesta vigorosa ogni cosa gli si pari d'innanzi.
L'iniziale "Brennestein" traccia le coordinate di questo nuovo corso. Ci riconosci la cattiveria di una "Untitled #8", salvo virare il tutto su un versante marcatamente elettronico. Tutta quella dolcezza, loro marchio di fabbrica, viene qui rimodulata secondo coordinate completamente nuove e, cosa non da poco, senza risultare stucchevoli. "Isjaki", per dire, fa rivivere gli scenari di "Hoppipolla", ma con quel 
quid che la rende perla purissima e spontanea.
Nei vocalizzi di Jonsi in splendida forma e negli impeti solo accennati di "Yfirbord", nei carillon onnipresenti in "Stormur" che s'accende in un dolce finale strumentale, nella malinconia dilagante di "Hrafntinna" si riconoscono tutte le peculiarità di questo nuovo corso. E, quando accelerano, riescono a far male. "Rafstaumur", nel suo climax aggressivo, s'accende impetuosa. Nell'inno della title track "Kveikur" si rincorrono gli elevamenti al cubo di quella ferocia compositiva. Fuoco che arde, spruzzi dai geyser che s'elevano verso il cielo, in un gioco in cui la tangente post-rock si tocca quasi col doom. Gli echi lontani e il piano di "Var" spengono quella fiamma inferocita, la sedano come la quiete dopo la tempesta.

Incontro tra la purezza pop di Takk e (), Kveikur è la nuova via dei Sigur Rós verso una forma di post-rock elettrico che incontra il pop. Non tradiscono i fan, ma si proiettano in una dimensione, se possibile, ancor più moderna e universale. Non si legga in tutto questo una volontà di aprirsi, quanto un mettersi in discussione. Nonostante in certi frangenti si abbia la sensazione che procedano col pilota automatico, la prospettiva del rischio ripaga anche quei pochi momenti di stanca. Ritornano a loro modo giovani e punk, recuperando una freschezza d'intenti che pareva essersi un po' perduta. Giocano l'asso che nessuno s'aspettava avessero, vincono la partita nella maniera meno scontata e più difficile. Sorprendendo.

Trascorrono addirittura dieci anni prima dell'arrivo a sorpresa di Átta, che significa “banalmente” otto. Dieci invece i brani, come appunto gli anni di attesa, per quello che la band definisce "il disco più intimo ed emotivamente diretto realizzato fino ad oggi". Parole ovviamente importanti, al netto del lancio di un’opera che ha l’ambizione di porsi come totalizzante di un sentimento di profondo malessere verso la contemporaneità e un mondo occidentale sempre più curvo su sé stesso, tra guerre logoranti e crisi a gettoni.


Significativa è poi la ricomparsa del polistrumentista Kjartan Sveinsson dopo “l’addio” nel 2012, e che quindi si riunisce al frontman Jónsi e al bassista Georg Holm. Stando alle parole del primo l’intento è quello di "voler avere solo una batteria minima”, affinché “la musica fosse davvero scarna, fluttuante e bella”. Per poi proseguire: “Stiamo invecchiando e diventando più cinici, quindi volevo solo che ci commuovessimo in modo che provassimo qualcosa!". Affermazioni che trovano d’accordo Sveinsson: "Volevamo permetterci di essere un po' drammatici e andare lontano con questi arrangiamenti. Il mondo ne ha bisogno in questo momento. È difficile da descrivere, ma per me tutto è sempre aperto alle interpretazioni. Le persone possono pensare e sentire come vogliono". Átta riparte di conseguenza da un involucro che in qualche modo si era fratturato, mostrando fin dall’introduttiva “Glóð” un’armonia vera, un’incantevole compattezza che in alcuni punti dell’album tocca anche quote paradisiache. Si assiste difatti alla riuscita di un afflato orchestrale che punta alla sospensione perenne, alla risalita come atto solo in parte divino, nella fattispecie umano, necessario in un contesto sociale rovinoso, in cui, stando ancora alle parole della band islandese, nello specifico Hólm, la musica ha il dovere e soprattutto il potere di unire, al contrario, ad esempio, delle innumerevoli questioni etiche che negli ultimi tempi hanno impietosamente diviso gli animi: "È quello che la musica chiedeva e diceva da sé". Il primo singolo pubblicato, "Blóðberg", diffuso con sessioni online e post su Instagram del gruppo omaggianti i vecchi album, evoca il ritorno alla madre terra, attraverso versi abbastanza esplicativi, “Kominn heim / Fyrir frið og ró /” (“Vieni a casa / Per la pace e la tranquillità”). Mentre il suono, estremamente etereo alla maniera tipica dei Sigur Rós, tende a farsi minimalista, quasi un movimento ambient fluttuante. Tutto si solleva dal suolo solo nella seconda parte, con il canto in lontananza che crea nebulose e onde sottili. Le immagini del videoclip diretto da Johan Renck restituiscono un senso più profondo: un drone sorvola quello che sembra un deserto marziano, prima che cadaveri disseminati sotto le ombre di alberi rinsecchiti appaiano come foglie cadute, fermandosi sul ciglio di un burrone altrettanto sterile. E’ una visione che coincide con l’umore del trio Hólm, Jónsi, Sveinsson. E che finisce per cozzare con la musica al centro del piatto. La successiva “Skel”, ad esempio, espande in positivo il sentimento contrastante a monte, mediante un dondolio magico che riporta alla luce i migliori Sigur Rós. Gli archi ampliano ulteriormente uno splendente raggio d’azione in “Klettur”, dove compare addirittura una timida sezione ritmica a mo’ di battito cardiaco.
Il cuore del disco, ovverosia “Mór”, è il suo momento più carico di pace e solitudine, grazie a una preghiera maestosa. E’ come se i tre avessero deciso di musicare l’abbraccio tra il miracolo della vita e il decadimento della morte. “Andrà” va oltre, superando la stratosfera, il sole e le stelle del cosmo come ai tempi di Ágætis byrjun. Ne è prova anche “Fall”, la traccia meno “densa”, con il piano a reggere il pathos di un’emozione fuggiasca. La suite conclusiva, di fatto la title track, “8”, è divisa in due tronconi: ascesi ultima in attacco e a seguire mera dissolvenza (ci risiamo) in modalità ambient.

Registrato in più continenti, tra la casa di registrazione di Sundlaugin, i leggendari Abbey Road Studios e svariati studi negli statunitensi, Átta regala il ritorno, tanto insperato quanto riuscito, di una band inequivocabilmente epocale.


Contributo di Filippo Rizzi ("Heima"), Alberto Asquini ("Kveikur"), Giuliano Delli Paoli (Átta)