Il genovese cantante e multistrumentista Marco Paddeu, dopo le esperienze post-metal a nome Demetra Sine Die (“Council From Kaos”, 2005, e “A Quiet Land Of Fear”, 2012) e soprattutto i colossi della suite doom-metal in tre parti “Motvs” inclusa in “Hermeticvm” (2010) a nome Sepvlcrvm, si ribattezza Morgengruss per dare alla luce l’omonimo “Morgengruss”.
I primi brani, a parte un’indiscutibile competenza di mastro neo-psichedelico (il gorgo stregato che chiude “Father Sun”, le chitarre rifratte di “River’s Call”), sono anche epigonici del dark-folk dei conterranei Morose (“To An Isle In The Water”, “Apparent Motion”).
Artisticamente parlando, l’album perfeziona i suoi tempi ampi e il suo respiro catatonico negli ultimi due episodi. La mesta “Vena” impiega i suoi 7 minuti in arpeggi senza fine (sovrastati da un’omelia oscura e un sax che intona una melodia da night-club) che assumono una qualità enfaticamente melodrammatica nel muro di droni finale. I quasi 10 minuti di “Hope” aumentano le contraddizioni: piano classico e om tibetani - un’associazione alla “Hosianna Mantra” dei Popol Vuh - e un declamato roco alla Tom Waits si sperdono in echi elettronici e voci fluttuanti nell’etere, sostenuti soltanto da una corda o due di basso.
Il brano, in buona sostanza un decrescendo estenuante di puro impressionismo, e uno dei gioielli del rock italiano degli anni 10, è il quid balistico dell’intero album. Non a caso impiega la parte più spessa delle maestranze coinvolte: Enrico Tarauso a diapason ed effetti assortiti, Emiliano Cioncoloni (anche produttore) a pianoforte e percussioni. Una graziosa metafora della fine.
29/01/2016