Tom Waits

Tom Waits

Una vita dalla parte sbagliata

La sua passione per gli eccessi sta tutta in una sua celebre frase: "Non riesco a capire coloro che si rifugiano nella realtà perché hanno paura di affrontare la droga". Oggi Tom Waits tenta di condurre una vita meno sregolata. Ma la sua voce ruggine e miele, ormai devastata dall'alcol, continuerà a cantare che la vita ha il suo "wrong side".

di Claudio Fabretti, Antonio Ciarletta + AA.VV.

Tom Waits è uno dei massimi artisti rock (e non solo) lasciatici in eredità dal 900. Nell'arco di trent'anni di carriera, si è costruito una reputazione invidiabile, fondata su un'etica professionale mai scalfita da tentazioni commerciali o suggestioni divistiche, ma soprattutto su una serie di album di qualità elevatissima.
Dal punto di vista iconografico, l'arte di Waits è l'arte di un cantastorie che ha sempre contemplato l'America e i suoi ideali in modo critico, preferendo raccontare la cosiddetta "wrong side" dell'immaginario a stelle e strisce, abitata da vagabondi, anime erranti senza meta ("rain dogs") e da ogni genere di reietti. L'immaginario di Waits è il medesimo di Bukowski e di quei poeti cresciuti in seno alla controcultura underground statunitense, i quali, negli anni 60 e 70, hanno assunto un atteggiamento avverso, se non sprezzante, nei confronti dell'American way of life. Waits narra di un sogno americano che, ammirandosi borioso negli specchi deformanti di un luna park, si riscopre improvvisamente incubo. Ma ancor prima che nei cantori della beat generation, i prodromi della poetica waitsiana possono essere riscontrati nelle narrazioni maledette di Robert Johnson e ancor prima nel concetto stesso di americanità, o meglio nella sua negazione. Essere americano significa condurre una battaglia per liberare se stessi dalle limitazioni con cui nasce l'individuo, spiega Greil Marcus in "Mystery Train".
In altre parole, l'America trae linfa vitale dalla volontà di ogni suo cittadino di migliorare la propria condizione esistenziale sfruttando le innate e peculiari attitudini, e confidando nella promessa di possibilità infinite che il grande paese mette loro a disposizione. Ed è proprio dalla vanificazione di questa promessa, dalle sconfitte personali che irrimediabilmente la sconfessano, dall'annientamento di speranze bramosamente inseguite, che nasce un microuniverso di macabra desolazione e quotidiana emarginazione, che costituisce a sua volta il corpus emozionale da cui hanno attinto i maggiori cantautori americani, Waits compreso. Nonostante la portata sperimentale della sua musica, Waits rimane fondamentalmente un artista americano con tutti, comunque e ove se ne sentisse il bisogno, i distinguo del caso.
Ma le sue storie, nell'universo immaginifico della canzone americana, costituiscono l'esatto contraltare della poetica springsteeniana. Il Boss, in un narrare populistico, se non demagogico, racconta le difficoltà, le tragedie, le sconfitte della gente comune, che tuttavia in un impeto nazionalistico, o meglio in un volersi ostinatamente cullare nel grande sogno americano, riesce orgogliosamente o quantomeno dignitosamente a farvi fronte. Springsteen nutre la gente con ciò che essa vuole sentirsi dire. La nazione di Waits è invece abitata dal popolo dei bassifondi, rassegnato a vegetare al di sotto della soglia di sopravvivenza, tagliato fuori da una qualsivoglia possibilità di riscatto. Sono "freak" nella condizione sociale, nati con il marchio incancellabile dei vinti. Nella sua poetica è quindi sottintesa la critica all'America, ma anche ai cantori di regime che ne esaltano la grandezza , circa l'ipocrisia e l'indifferenza con cui costoro vengono trattati.
Waits rimuove le fette di salame dagli occhi dello zio Sam insito nell'americano medio, scoperchia le pentole, evidenzia il marcio che sottende quella patina di falsa solidarietà tipica della parte conservatrice del paese.

Nato a Pomona, vicino a Hollywood, in California, nel 1949, Tom Waits incontrò presto un altro grande "maudit" come Charles Bukowski con cui condivise la scelta provocatoria dell'eccesso e dell'emarginazione. La loro "amicizia stellare" scoppiò in un fumoso locale di Los Angeles in mezzo ai fan del vecchio "Buk". Waits cantava una ballata accompagnandosi con la chitarra, mentre Hank si cimentava in uno dei suoi reading (l'incontro fu filmato da Ron Mann in "Poetry in motion" del 1982).
Cantori del sottosuolo, della "wrong side" (parte sbagliata), del fallimento del sogno americano, i due avevano alle spalle una lunga tradizione di "beati e battuti", che comprendeva Henry Miller, i poeti beat e tutta la cultura underground californiana.
La carriera artistica di Tom Waits nasce dalle difficoltà economiche della sua infanzia. Ancora adolescente, è costretto a fare umili lavori per guadagnarsi da vivere. Sono gli anni in cui vagabonda tutta la notte per le strade di Los Angeles, ascoltando storie di prostitute, di ubriaconi, di clochard, di piccoli e grandi poeti beat, storie che torneranno nelle sue canzoni. La sua passione per gli eccessi sta tutta in una sua celebre frase: "Non riesco a capire coloro che si rifugiano nella realtà perché hanno paura di affrontare la droga".

Poi una sera, sotto l'effetto dell'alcol, comincia a strimpellare un vecchio piano nel ristorante in cui fa il lavapiatti. La gente ascolta le sue storie strampalate, partecipa, ride, si commuove e dialoga con la sua voce da vecchio bluesman. Il gestore ne comprende il talento e propone al giovane cameriere di intrattenere ogni sera il pubblico. Waits guadagna pochi dollari, ma riesce a mettersi in luce cantando vecchie canzoni degli anni '40 e '50, ascoltate da bambino. Il padre gli aveva dato i primi rudimenti musicali e trasmesso la passione per il jazz, in particolare per il grande batterista Gene Krupa. E' la fine della "eroica merda" (Bukowski), dei lavori umili e delle squallide camere prese in affitto. E' l'inizio della storia del giovane Tom, che comincia a farsi accompagnare da un'ottima band di musicisti jazz, con cui fa il giro dei locali di Los Angeles. Da autentico artista underground rifugge i riflettori, la fama, lo show business. Vive nei sotterranei della metropoli ed esce fuori di notte, regalando poesia disperata e struggente, piena d'amore.

Il suo primo album è Closing Time, del 1973, il cui titolo allude all'orario di chiusura dei locali. Non è ancora un capolavoro, ma contiene la bellissima "Ol'55", canto d'amore per la sua vecchia auto. La passione per le macchine e per le folli gare in autostrada gli rimarrà sempre.
Anche la seconda traccia, "I Hope That I Don't Fall In Love With You", sfodera subito tutta la sua poesia disperata, velata di tristezza, raccontando il possibile amore di una vita volato via per superbia e indecisione. Sulle stesse tonalità dolenti anche "Martha", istantanea di un amore sbiadito nel tempo, e l'altra ballata "Ice Cream Man".
Nel complesso, è un album d'esordio intimista e confidenziale, che lascia già intravedere molte delle qualità del Waits-balladeer, nonché la sua abilità nel costruire atmosfere sofferte con il minimo degli orpelli, come nello strumentale che dà il titolo all'album, "Closing Time".

E' un periodo intenso, di vita sregolata da "rain dog" (così chiamano i vagabondi di Los Angeles), di colossali ubriacature, amori passeggeri e incontri con grandi personaggi.
Nel 1974 arriva il secondo album, Heart Of A Saturday Night, un "viaggio al termine della notte", dove l'oscurità vive anche nella luce del giorno, come in alcuni famosi quadri di René Magritte. Decisiva la mano del produttore Bones Howe, che costruisce atmosfere fumose e notturne a far da cornice alle tracce. Ma è un lavoro di transizione, sospeso tra le intuizioni degli esordi e la definitiva affermazione del suo stile, che passerà anche attraverso l'evoluzione del suo caratteristico timbro vocale.
Sono ancora le ballate a fare da padrone ("San Diego Serenade", "Shiver Me Timbers", "Drunk On The Moon"), con accenti sempre molto poetici e struggenti, cui si abbinano arrangiamenti calibrati ed essenziali. L'appassionata "Diamonds On My Windshield", per voce e contrabbasso, delinea invece quel modello di talking blues waitsiano che avrebbe preso piede nei dischi successivi.

Nel 1975, ecco un'altra pagina intensa e graffiante con il doppio Nighthawks At The Diner (1975), ispirato dal celebre dipinto del 1942 di Edward Hopper, intitolato appunto Nighthawks. E' una collezione di talking blues in versione live, che Waits interpreta da par suo, affiancato da un quartetto jazz, tra amori alcolici e istantanee marcite di una Los Angeles notturna, affollata di personaggi torbidi e poco raccomandabili ("Spare Parts", "Warm Beer And Cold Women").
Il cantautore californiano viaggia tra le sue amate bettole, assecondato da un incisivo sottofondo jazz. E quasi ogni traccia viene preceduta da un interludio in stile cabaret, in cui l'autore narra la genesi del brano, spesso in chiave comica.
Tra gli episodi più riusciti, "Better Off Without A Wife", in cui Waits snocciola da par suo i vantaggi dell'essere "single": "Midnight howlin' at the moon/ Goin' out when I want to, comin' home when I please/ Don't have to ask permission if I want to go out fishing/ Never have to ask for the keys". A chiudere il brano, però, è proprio una beffarda marcia nuziale... Nell'introduzione di "Putnam County", invece, Waits offre la birra agli spettatori del concerto, aggiungendo poi che tanto qualcuno del bar li fermerà all'uscita con il conto.
Ma, a parte la qualità ironica dei testi, spiccano le armonie musicali di episodi di grande fascino, come "On A Foggy Night", "Eggs And Sausage", lo struggente jazz ad andatura lenta di "Warm Beer And Cold Women" e la spiazzante "Big Joe and Phantom 309", con Waits impegnato alla chitarra.
Waits plasma la materia blues a suo piacimento, e la padroneggia come solo pochi altri (Nick Cave e Captain Beefheart) sanno fare.

Nel 1976 il cantautore di Pomona allarga ulteriormente i suoi orizzonti musicali con Small Change. Aperture jazz, malinconici blues, canzoni d'amore e di solitudine fanno di quest'album il suo primo grande capolavoro. Bozzetti alticci e disperati come "Jitterbug Boy", "The Piano Has Been Drinking", "Invitation To The Blues" e "I Can't Wait To Get Off Work" strizzano l'occhio agli standard jazz e blues, superando i canoni tradizionali e aprendo così nuove prospettive ai generi.
In "Tom Traubert's Blues" il tipico deliquio waitsiano è assecondato da un'orchestra chamber-pop, mentre "Wish I Was In New Orleans" è un altro affondo in territorio jazz-blues, dagli accenti sempre nostalgici e malinconici. La quasi-parodia di Armstrong nel dixieland jazz di "Step Right Up", infine, mostra tutta la vitalità esuberante di un artista ancora in piena crescita, ma già padrone dei suoi mezzi espressivi, inclusa la sua voce, sempre più fuligginosa e rauca, veicolo ideale per penetrare nei recessi più inconfessabili della metropoli americana.

Ma non c'è tempo per le pause, perché Tom ha voglia di suonare, di sperimentare ancora. E' il tempo di Foreign Affairs. La sua scrittura attinge dai ricordi d'infanzia. La canzone "Burma Shave" prende il titolo dalla marca di una schiuma da barba che il piccolo Tom credeva essere un luogo immaginario. "I Never Talk To Strangers" racconta delle difficoltà d'incontrarsi tra un uomo e una donna che diffida degli sconosciuti. "Jack & Neal" è invece un viaggio folle e disperato alla ricerca della libertà dei due poeti beat per eccellenza, Jack Kerouac e Neal Cassidy. E poi il capolavoro "Potter's Field", tratto dai ricordi d'oltretomba di una strana Spoon River.
In questi anni, Waits è legato sentimentalmente alla cantante Rickie Lee Jones, che mette fine per un po' ai suoi innumerevoli flirt.

Nel 1978 esce Blue Valentine. E ancora una volta Waits sceglie di stare "dalla parte sbagliata" ("Wrong Side Of The Road", come intitola proprio una delle ballate più efficaci del disco), dalla parte di chi non ha voce ed è tagliato fuori dalla storia, di quei perdenti e di quegli emarginati descritti dal suo amico Bukowski. E' un disco di lettere (il titolo allude alle "Blue valentines", alle lettere d'amore del giorno di San Valentino), scritte con il pudore di chi soffre e di chi sa che è sempre più difficile amare in una grande metropoli.
Forse più accessibile, anche quando si imbarca nei suoi soliloqui notturni ad alto tasso alcolico (la tormentata "$29.00", la struggente title track), Waits non rinuncia a spingere il pedale dell'istrione, del consumato maestro del cabaret ("Christmas Card"), ammiccando ancora una volta al jazz ("Romeo Is Bleeding") o lanciandosi al galoppo in orrorifici blues ("Whistling Past The Graveyard", "A Sweet Little Bullet", "Red Shoes"), che riportano in auge una mitologia da gotico sudista, poi così cara al suo miglior discepolo, Nick Cave.
Tra le bettole fetide del sottosuolo e il palco luccicante di Broadway, si consuma un'altra memorabile pagina del film waitsiano, un kolossal della desolazione umana, condito sempre da accenti lirici straordinari.

Due anni di pausa e Waits incide Heartattack And Wine (1980). La sua voce si fa sempre più roca, da "licantropo". I più maligni affermano che "c'è tanto catrame da poter costruire un'intera autostrada". L'album presenta ancora i temi cari, come l'amore, il blues, suonato con vecchi organi hammond, e l'infanzia.
Apre in gloria la title track, che punta dritto al cuore, come da titolo, con il consueto armamentario di trucchi emotivi e fumi d'alcol. Dominano toni depressi da post-sbronza, con blues alticci come "Mr. Siegal" e ballate narcolettiche come l'iniziale title track.
Ma non mancano nuove incursioni crude nelle viscere urbane ("Downtown"), impennate dal piglio selvaggio ("Til' The Money Runs Out") e odi amorose da music-hall ("Ruby's Arms", "On The Nickel"). L'album contiene anche la classica "Jersey Girl", che sarà ripresa da Bruce Springsteen.

Ma quest'incontro musicale non sembra piacere troppo a Waits, che ancora una volta rifugge il successo e cerca nuove strade. L'occasione gli è offerta dal regista Francis Ford Coppola, che gli chiede di scrivere la colonna sonora del suo film "Un sogno lungo un giorno" ("One From The Heart"). Incontro che diventerà anche un incubo per Waits a causa della ossessiva maniacalità del regista di "Apocalypse now".
Da queste collaborazioni nasce anche la carriera cinematografica di Waits. Prima piccole parti con lo stesso Coppola nei "Ragazzi della 56° strada", in "Rusty il selvaggio" e "Cotton Club", poi un ruolo tutto suo in "Down By Law" (Daunbailò) del 1986, diretto da Jim Jarmush, con un esilarante duetto con Roberto Benigni. Nel film appare il Waits più vero, con cappello, "alligator's shoes", le sue caratteristiche scarpe a punta che sembrano "coccodrilli" (da cui il nome) e quel suo buffo e indolente dondolarsi come una scimmia.

Il cinema però non lo allontana dalla musica, anzi gli permette nuove sperimentazioni: l'eccellente Swordfishtrombones (1983), infatti, si impone come punto di rottura importante nella sua carriera. Segna il netto e irreversibile mutamento da semplice, per quanto dotato, pseudo-crooner cocktail jazz da night club fumoso a erudito compositore post-moderno, in grado di concepire una sorta di musica totale, debitrice tanto ai maestri del cantautorato americano, quanto a forme musicali diverse, proprie del folklore afro, europeo e non solo. L'amalgama di suoni tanto differenti ha dato vita a una serie di asimmetrie ritmiche, disarmonie e stonature cabarettistiche, che hanno però la stimmate della classicità, in quanto classici (nel senso di tradizionali, ormai patrimonio condiviso e decodificato) sono i modelli musicali che hanno generato i suddetti suoni.
Gli emarginati, ma più in generale i "looser" (ma non "beautiful"), rimangono i protagonisti.  Il cuore concettuale dell'opera è dato dalla convergenza dicotomica salvazione-dannazione; i personaggi di Waits, dolorosamente consapevoli del proprio essere, sembrano quasi aspirare, in una sorta di vuoto etico, a un evento che, auspicabile o amorale che sia, funga da catarsi della propria condizione. E in questo senso il mood umbratile, a tratti depresso, dei pezzi fa del disco una messa cantata, attraverso cui assicurare le anime irredente alla salvazione di un inferno paradisiaco, di sicuro maggiormente desiderabile rispetto all'atroce e inesauribile caducità della vita quotidiana.
Così si spiega la lucida e grottesca follia di Frank in "Frank's Wild Years", o lo squallore celebrato in "Gin Soaked Boy", stralci narrativi che rinnovano la figura archetipica del perdente oltre ogni plausibile possibilità di riabilitazione.
Scandita da una ritmica marziale da marcetta militare, mentre la chitarra elettrica asseconda le intonazioni vocali di Waits, con corno e basso acustico a conferire una dimensione rurale, "Underground" è forse la metafora di tutta la poetica waitsiana. Raccontando di una città (miniera) sotterranea, operosa mentre il resto del mondo dorme, Waits evoca quell'universo di miserabili, che quasi clandestinamente veleggia, come un relitto, nel mare dell'opulenza borghese. In un'atmosfera rarefatta, ma cupa, da film noir, Waits sfodera con "Shore Leave", uno dei suoi esperimenti più geniali sulla commistione di sonorità difformi. Una ritmica da ballo afro-caraibico (favorita da marimba e tintinnii assortiti) accompagna un banjo bluesy che svisa free-form, con la voce profonda di Waits a completare questo nonsense collagistico di esotismo "swamp". "Dave The Butcher" è un piccolo gioiellino strumentale, dove basso e percussioni intrecciano un tappeto ritmico sbilenco, su cui l'Hammond va a posare una serie di frasi melodiche dall'effetto straniante, più che psichedelico.
La vena romantico-malinconica emerge nella splendida "Johnsburg, Illinois", dove Waits, accompagnandosi esclusivamente con il piano e il basso di Greg Cohen, recita liriche che sarebbero più consone al repertorio di un Chris Isaak: "There's a place on my arm where I've written her name/ Next to mine/ You see I just can't live without her/ I'm her only boy and she grew up outside McHenry/ in Johnsburg, Illinois". Dopo tanto romanticismo, irrompe all'improvviso il crudo rock'n'roll di "16 Shells From A 30.6", e che potrebbe apparire come un pezzo di Beefheart suonato con la linearità ritmica dei Cramps.
Da "Town With No Cheer" colano umori di una cittadina australiana (Service Town) abbandonata a se stessa, con un Waits che biascica parole su un impianto sonoro minimale, dopo una suggestiva introduzione di cornamusa a richiamare l'idea di una città-fantasma spettrale e solitaria. L'accompagnamento di "In The Neighborhood" è realizzato da una vera e propria fanfara, integrata da strumenti percussivi e dall'immancabile organo Hammond: sembra di essere proiettati a Twin Peaks o, meglio, nella cittadina-scenario del "Cacciatore" di Michael Cimino, dove matrimoni, funerali e partenze per il fronte turbavano, ma solo in quell'istante/evento, l'umore di una comunità continuamente uguale a se stessa. "Just Another Sucker On The Wine" è un altro delizioso strumentale dove l'harmonium di Waits, dolcemente contrappuntato dalla tromba di Joe Romano, riesce a creare uno spleen malinconico. Nel delirio talking-jazzy di "Frank's Wild Years" si perde ogni parvenza di civiltà, e la barbarie che ne consegue è il prodotto di una mente lacerata dal flusso di una mediocre quotidianità. Ancora una recitazione da commediante consumato in "Swordfishtrombone", mentre in "Down Down Down" Waits sfodera il corredo semiotico degli arcaici bluesmen di provincia con tanto di ritmica incalzante, voce catramosa, deturpata da fumo e alcol, e storia allucinata.
Il vertice emotivo del disco è però "Soldier's Things", in cui Waits, trasfigurato in un Frank Sinatra del ghetto, narra di una scatola di effetti personali appartenuta a un soldato caduto in battaglia. Ancora un bluesaccio da locale malfamato è "Gin Soaked Boy", con la chitarra elettrica a far la parte del leone come nei pezzi di B.B. King. "Trouble's Braids" è un soliloquio maledetto alla Nick Cave, accompagnato da clangori percussivi e da un basso acustico che rende incalzante la ritmica.

Swordfishtrombones è un documento poliedrico sulla root music americana, un saggio postmoderno sulla reinvenzione del corpo blues sulla base di materiali musicali autoctoni, che nelle mani di Waits assumono carattere trans-etnico.

Trasferitosi a New York, nel successivo Rain Dogs (1985) Waits vira verso una formula leggermente più immediata, flirtando con la forma-canzone e con atmosfere teatrali. A dargli man forte una pattuglia di ospiti d'eccezione, come John Lurie, Robert Quine, Marc Ribot, e Keith Richards.
Anche se l'incipit di "Singapore", con piglio tribale e ammiccamenti esotici, mostra ancora l'istrionismo del bluesman-orco, con la sua voce profonda tutta ruggine e catrame, gli eccessi dissonanti del disco precedente sembrano essersi leggermente stemperati, in favore di strutture più vicine a canoni pop-rock e folk (rispettivamente, “Clap Hands” e “Hang Down Your Head”).
Cionondimeno, il disco si rivela un altro capolavoro, grazie a una collezione di perle che conferma tutta la classe e la poliedricità del maestro di Pomona. L'ode acustica di “Time” mette a nudo il lato più tenero di un Waits a cuore aperto, capace di sdilinquirsi fino a tarda notte con la sua ugola caligginosa tra le note dell'epica “Jockey Full Of Bourbon”, impregnata di alcol, rughe e disperazione, così come la conclusiva “Anywhere I Lay My Head”, o sulle cadenze struggenti della title track, altra poesia del sottosuolo impastata di catrame e sentimenti.
Non mancano bluesacci d'antan ("Gun Street Girl"), fisarmoniche da musicisti di strada (la title track), nuove spiazzanti odi romantiche ("Blind Love"), atmosfere sospese e nostalgiche ("Walking Spanish"), mentre “Tango Till They’re Sore” mette in mostra tutta l'abilità del Waits arrangiatore, con toni oscuri e cinematici, che sfociano poi quasi in una sorta di liturgia dell'orrore nella convulsa "Big Black Mariah".
La vena epica riaffiora nell'inno springsteeniano di "Downtown Train", che Waits veste di tonalità cupe e melodrammatiche. Ma il talento si vede anche dagli episodi più brevi e concisi, come la farneticante “Cemetery Polka” scandita a suon di trombone - cui uno come Vinicio Capossela dovrà indubbiamente molto - mantiene il legame con il sound esuberante di Swordfishtrombones.
I testi mescolano ironia demenziale, nonsense, horror e disperazione, in un miscuglio poetico d'indubbia suggestione, che spiazza e sorprende costantemente. Waits scava ancora nei dirupi dell'animo e sembra riuscire a scendere sempre più in profondità, scoperchiando le viscere più inconfessabili del genere umano col ghigno di un impenitente guitto da night-club.

Nel 1987 è la volta di Frank's Wild Years (1987), altra tappa significativa dell'evoluzione artistica del maestro di Pomona, ispirata a una commedia musicale con lo stesso Waits nei panni del protagonista, a sua volta scaturita dalla canzone di quattro anni prima.
Per assurdo Tom Waits diventa, con la sua voce "infernale", una sorta di Frank Sinatra (cui rifà il verso in "I'll Take New York") dell'altra faccia americana, quella underground. Marimbe, banji, percusioni, la chitarra di Keith Richards e l'amore per la musica del grande Kurt Weill creano una geniale fusione di elementi apparentemente distanti tra loro, facendo di Waits uno dei più originali musicisti rock americani di sempre. Anche la sua scrittura diventa sempre più concisa, scarna, allusiva, quasi cinematografica, mentre il corredo strumentale si arricchisce di percussioni homemade, vecchie chincaglierie e persino un corno di bue usato per filtrare la voce.
Nascono così ballate sofferte e desolate, come l'iniziale "Hang On St Christopher", scandita a passo di fanfara e sfregiata dalle chitarre, il requiem spettrale di "Blow Wind Blow", per organo e mandolino, l'allucinazione febbricitante di "Straight To The Top", il western spettrale di "Yesterday Is Here". E' musica costruita con pochi orpelli sonori, scabra e nuda nella sua malinconia cosmica: a "Innocent When You Dream" basta un organetto per nobilitare una nenia cavernosa e imbottita di whisky, mentre la fisarmonica di "More Than Rain" e "Cold Cold Ground" trasporta dritti in una Parigi piovigginosa e irreversibilmente prigioniera del passato.
Episodi più eccentrici, come l'esotica "I'll Be Gone", con fisarmonica, marimba e trombone sugli scudi, e la stravagante serenata di "Telephone Call", aprono qualche squarcio di luce, ma la commedia umana di Waits non risparmia niente e nessuno, culminando nella disperata ode di "Train Song", epitome del pessimismo universale del maestro di Pomona.

Il grande circo di Tom Waits viene suggellato nel 1988 dal suo primo live, Big Time, contenente buona parte del suo miglior repertorio degli anni 80. Una testimonianza delle straordinarie esibizioni di uno dei massimi entertainer della storia del rock.

In questo periodo Waits si dedica prevalentemente alle colonne sonore, con One From The Heart (1981) e Night On Earth del 1992, forte di nuovi saggi del suo cabaret surreale ("Good Old World") e di efficaci strumentali ("Los Angeles Theme", "Dragging A Dead Priest"), mentre il successivo lavoro teatrale "The Black Rider" (1993), portato in scena nel 1990 ad Amburgo da Robert Wilson, con William Burroughs alla voce, include parte della musica reincisa da Waits con un cast differente.

In questo periodo di caotica attività per il cinema e il teatro, Waits riesce comunque a piazzare l'affondo di Bone Machine (1992), il suo primo disco contenente materiale originale e non appartenente a una colonna sonora degli ultimi sette anni. L'album richiama ancora una volta al fianco del cantautore di Pomona una serie di ospiti di lusso, come Keith Richards, il bassista dei Primus Les Claypool, David Hidalgo dei Los Lobos e il solito Ralph Carney.
La scaletta propone un'alternanza in chiaroscuro, in cui ogni canzone cupa ha il suo contraltare in un’altra un po’ più leggera e scanzonata. Svetta l'inno festoso di "I Don’t Wanna Grow Up", un'ode eccitata e quasi infantile alla sua eterna giovinezza sregolata. "Black Wings" si libra su un'apertura melodica radiosa, cui si può accompagnare idealmente il sentimentalismo sincero di "Whistle Down The Wind", mentre "Goin' Out West" si concede perfino un'esuberante andatura surf.
Ma non mancano altre immersioni nell'incubo, nei suoi tipici paesaggi noir, come l'iniziale "Earth Died Screaming", il requiem nerissimo di "Dirt In The Ground" e l'altrettanto funerea "Such A Scream", mentre "All Stripped Down" fa salire in cattedra ancora una volta il licantropo-intrattenitore, al contempo spaventoso e ormai un po' prevedibile.

L'ottima antologia Beautiful Maladies (1998) segna un punto nella carriera del maestro di Pomona, raccogliendo 23 suoi memorabili successi, tra cui "Hang on St. Christopher", "Underground", "I Don't Wanna Grow Up", " Downtown Train", "Singapore" e "16 Shells From A Thirty-Ought Six".

Nel frattempo il cantautore californiano non conduce più la vita sregolata di un tempo. Non beve più. E' sposato con Kathleen Brennan (divenuta amministratrice unica di tutti i suoi beni) e ha due figli. Ma continua sempre a urlare, con la sua voce ormai distrutta dall'alcol, che la vita ha il suo wrong side. "Non ho sposato un uomo, ma un mulo", gli disse una volta la moglie. E lui rispose: "Sì, ma ho subìto anch'io i miei cambiamenti...". Così Tom Waits ha scelto il titolo per Mule Variations (1999), letteralmente: "I cambiamenti del mulo". Il cantore dell'America underground e della "vita dalla parte sbagliata" torna ad ammaliare, con le sue storie di provincia, i suoi cuori solitari e la sua voce ruggine e miele. Una voce granulosa che si effonde in blues aspri e febbrili, ma sempre intrisi di una vena malinconica, come nella splendida "Chocolate Jesus".
Il tempo passa, la sua voce si fa sempre più simile a una grattugia, consumata da una ferrea dieta di alcol e sigarette, ma il pianoforte è sempre lì a portata di mano e le idee non mancano. E Mule Variations, composto con la collaborazione della moglie ("io procuro il cibo e lei cucina", spiega Tom Waits a proposito del processo creativo), offre ancora una volta una manciata di canzoni sincere e emozionanti. Sono sedici pezzi in bilico tra momenti duri e improvvisi slanci romantici, come nella miglior tradizione del cantautore americano. Sono gracchianti e spesso deliranti blues, segnati da clangori e percussioni di ogni tipo, suoni gutturali e distorti. "L'idea era di suonare qualcosa che fosse a metà fra il surreale e il rurale. Sono insomma canzoni surrurali", spiega.
Pacificato dalla positiva esperienza del matrimonio, Waits si concede il suo disco più leggero, mettendo in evidenza al tempo stesso tutte le armi di cui dispone: i baccanali cacofonici dell'istrione ("Big In Japan", Filipino Box Spring Hog", "Eyeball Kid"), i blues alticci da late night show ("Get Behind The Mule", "Black Market Baby", "Lowside Of The Road"), ma anche le ballate struggenti di "Hold On" e "Cold Water", l'abilità del pianista da cabaret di "Georgia Lee", il numero honky-tonk di "House Where Nobody Lives", l'inno gospel di "Come On Up To The House".
Se, come dice Waits, "l'unica ragione per scrivere canzoni nuove è che ti sei stancato delle vecchie", sette anni di attesa non sono passati invano. Sono serviti a riascoltare il Waits dei tempi migliori, capace di ammaliare e commuovere con la sua voce roca, quasi stonata, da cantante di un piano bar stralunato e surreale, con la sua sincerità di cantautore libero e le tinte malate delle sue ballad.

Waits così si rimette in carreggiata, nonostante gli anni che passano. E nel 2002 torna addirittura con due album, Alice e Blood Money, che lo rivelano ancora una volta compositore bizzarro e versatile oltre che interprete graffiante, con canzoni inedite che risalgono agli anni 90 e sono nate come colonne sonore per rappresentazioni teatrali

Alice parte con il brano omonimo: una ballata di una malinconia atroce con un accompagnamento molto jazzy; è la ballata notturna e decadente a dare la cifra stilistica al disco, a volte con risultati superlativi (come in "No one knows I'm gone", I'm still here", "Fish and bird"), certo non mancano momenti diversi come nella danza spastica di "Everything you can think" o nel cabaret surreale di "Kommienezuspadt" e di "Reeperbahn", o come in " Table Tap Joe", quasi parodistica nel suo ostentato riferirsi al jazz vocale della prima metà del 900, ma è nelle ballate plumbee e dolcissime che l'autore e il disco trovano la loro dimensione più piena, a volte avvolgendo la voce con tenui ipotesi di classicismo nell' uso degli archi come nella già citata "No one known I'm gone", un pezzo dal limpido impianto melodico, o come in "Poor Edward" o nella struggente "Lost in the harbour"; il breve ed evocativo strumentale "Fawn" chiude un disco delicatamente malinconico.

Di clima un po' diverso è invece Blood Money, che parte con la marcia di "Misery is the river of the world" e prosegue con la rumba estraniante di "Everything goes to hell"; disco musicalmente più ambizioso, con struttura strumentale che si concede alcuni tentativi di dissonanza nei suoi maggiori gradi di libertà, specie nell' uso dei fiati, come ad esempio in "Knife Chase", disco anche di impianto lievemente più aspro e più schizofrenico, con un uso molto più limitato degli archi e con un'impostazione vocale più estremizzata, come in "Starving in the bell of a whale" o in "God's away on business", o se vogliamo più teatrale. Un pezzo come "Coney Island baby", adattissimo ad essere cantato sotto l'albero a Natale mentre fuori nevica, rimane nel cuore, "All the world is green" è splendida e a volte, come attraverso una lente deformante, si colgono dei fantasmi: gli anni 30, lo Zeppelin, il Titanic che affonda con gli orchestrali, Lili Marlene.

Una doppietta, quella di Alice e Blood Money, che mette in chiaro come il Tom Waits del nuovo millennio non sia assolutamente disposto a cedere lo scettro alla nuova generazione di cantautori che si affollano "sul lato sbagliato della strada", nel nuovo risorgimento indie.

Due anni dopo arriva così Real Gone (2004),  il disco postmoderno di Waits, intriso di ritmi caracollanti e vuoti adrenalinici laddove ti aspetti chitarre robuste. C'è Marc Ribot in un paio di pezzi, e ciò si avverte nel latineggiante tango sudista "Hoist That Rag"; altrove, invece, il blues sghembo dei primordi incontra dinamiche funk, come in "Metropolitan Glide", o ancora in "Shake It", che egli stesso ha definito "funk cubista".
Veniamo sorpresi da balordi hip-hop incastonati in improbabili rhythm'n'blues, e "Baby Gonna Leave Me" ne è un esempio. Ma non mancano le consuete "murder ballads" waitsiane, con "Dead And Lovely" che aspira a entrare nel novero delle migliori.
Chiude degnamente l'album "Day After Tomorrow", personale cartolina di protesta ai signori della guerra. Un disco forse un po' troppo autoreferenziale, ma certamente di gran classe.

Nel 2006 Waits torna con un lavoro tutto incentrato sulla sua versatilità vocale: Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards, triplo cd che prova a raccontare tre lati più o meno distinti di quanto il cantautore di Pomona ha creato in questi decenni di carriera. Non è una raccolta, perché contiene per la maggior parte pezzi inediti, ma al tempo stesso è anche una raccolta visto che al suo interno trovano spazio molte chicche, tra le quali canzoni create per film e documentari e diverse cover apparse su dischi-tributo ad altri artisti.
Il primo disco ci illustra il lato di Waits più recente, quello dei blues rochi e dei boogie, il Waits da locanda e da osteria, come dicono bene le note del libretto; il cd contiene tanto blues, si va da quello luciferino di “Lucinda” a quello quasi gospel del traditional “Lord I’ve Been Changed”, dalla cover di Leadbelly “Ain’t Goin’ Down To The Well” alla “Buzz Fledderjohn” registrata in esterni con tanto di can che abbaia in sottofondo, dalla beefheartiana “2:19” alla conclusiva “Rains On Me”, sporca e potente. Non di solo blues canonico vive però "Brawlers": c’è lo psycho-billy di “Lie To Me”, il garage di “LowDown”, il punk-blues di “The Return Of Jack & Judy” (apparsa in “We Are Happy Family – Tribute To Ramones”) e la splendida “Walk Away”, uno dei pezzi migliori della colonna sonora di “Dead Man Walking”.
Il secondo cd, "Bawlers", vuole fotografare il lato romantico e sommesso di Waits, quello delle ballate tristi, ed è anche il più fitto di canzoni già edite, quasi tutte utilizzate per colonne sonore, dalla “Take Care Of All My Children” del 1984 alla recentissima “You Can Never Hold Back Spring” scritta per il film di Benigni “La tigre e la neve”. Nel cuore del disco si trova un momento di grande intensità emotiva, in cui Waits dà fondo a tutta la tenerezza di cui è capace, prima con “Tell It To Me” (incisa da John Hammond con il titolo di “Louise”) cui segue la celtica “Never Let Go (presente nei titoli di coda di “American Hearts”), ma l’apice arriva con “Fanning Street” in cui la voce di Waits diventa leggera come una piuma in un sussurro appena velato da una chitarra di sfondo e che ricorda le cose migliori dello springsteeniano “The Ghost Of Tom Joad”. Le emozioni continuano nelle seguenti “Little Man” (splendida) e “It’s Over”, in cui il cantante californiano veste la muta del cantante da jazz-club tra aliti di sax e tromba, pianoforti dal tocco lieve e spazzolate di batteria, o nella “If I Hav To Go” che ricorda i tempi di “Closing Time” e “Blue Valentines”.
I bastardi ("Bastards") sono i figli del Waits diverso, sperimentale e stravolto, e infatti in questo disco si trovano parecchie cose cui i fan del Tom più canonico non saranno abituati; in primis gli spoken word, forse un po' eccessivi. Non mancano però pezzi interessanti: dalla brechtiana “What Keep Mankind Alive” alla psicopatica versione di “Heigh Ho” (la marcia dei sette nani come se volessero uccidere la strega o, peggio, Biancaneve). Ma le chicche non finiscono qui; c’è una stralunata versione di “Dog Door” degli Sparklehorse, c’è la gracchiante e sbuffante “Spider Wild Ride” e una tribale “King Kong” (da “Late Great DDaniel Johnston – Discovered, Covered”), una “Alter Boy” che riporta al dimenticato “Nighthours At The Diner” e due versioni della “On The Road” di Kerouac, una in forma di ballata e l’altra suonata blues, entrambe splendide.

Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards è una testimonianza non banale, al di là cioè della logica di un “Best Of”, dell’arte di Waits in tutte le sue forme, la fotografia delle sue molteplici personalità musicali. 

 

Passano cinque anni ed è la volta di Bad As Me (2011). Un disco in cui il cantautore di Pomona rilegge tutte le sfaccettature della sua lunga carriera, sorvolando a volo d'uccello la ventina di album dati alle stampe e pescandone elementi qua e là. Il blues luciferino di "Chicago" che apre il disco è una catapulta nell'universo bislacco e diseguale di Waits che ci fa fare un salto indietro fino ai suoi ruggenti anni 80. Con la seguente "Raised Right Men", dall'incedere acidamente malato, e la ballata fumosa "Talking At The Same Time", forma un trio da brividi, che non avrebbe sfigurato all'interno di Swordfishtrombones o Rain Dogs. Il jazz'n'roll con finestra sui Sixties di "Get Lost" rianima dopo l'inizio dark, ma è solo una parentesi prima della ballata desertica "Face To The Highway".
La dolente nenia "Pay Me" apre la strada all'afflato tex-mex di "Back In The Crowd", prima che si torni all'inferno con l'inquietante title track, terrificante nelle brevi strofe parlate che paiono arrivare direttamente da Satana. Di straziante eleganza la ballata in punta di vinile "Kiss Me", vagito premonitore del blues rantolante di "Satisfied". Il cameo di Keith Richards nella desolata "Last Leaf" impreziosisce l'album senza aggiungere granché prima della grandiosa accoppiata finale. "Hell Broke Luce" è l'ultima, cavernosa cavalcata marziale della carriera di Waits, che tra urla e spari si dissolve nella languida morbidezza corale di "New Year's Eve".

Sarà sempre la solita solfa, dirà qualcuno. Ma Waits non perde un colpo e ammalia come trent'anni fa. Ruggine e miele si confondono senza soluzione di continuità, un mix agrodolce che abbiamo già assaporato ma del quale non ci si stanca mai.

Contributi di Antonio Ciarletta, Valerio Bispuri, Luigi Toni, Michele Chiusi, Gianni Candellari, Marco Pagliariccio

Tom Waits

Discografia

Closing Time (Asylum, 1973)

7

The Heart Of Saturday Night (Asylum, 1974)

6,5

Nighthawks At The Diner (Asylum, 1975)

6

Small Change (Asylum, 1976)

7

Foreign Affairs (Asylum, 1977)

6,5

Blue Valentine (Asylum, 1978)

7,5

Heartattack And Wine (Asylum, 1980)

7

Swordfishtrombones (Island, 1983)

9

Rain Dogs (Island, 1985)

8,5

Anthology of Tom Waits (1985)

Frank's Wild Years (Island, 1987)

7,5

Big Time (Island, 1988)

The Early Years (1991)

Red Hot And Blue (1991)

Night on Earth (Island, 1992)

Bone Machine (Island, 1992)

7

The Early Years, vol. 2 (1993)

The Black Rider (Island, 1993)

Beautiful Maladies (anthology, 1998)

Mule Variations (Anti, 1999)

7

Alice (Anti, 2002)

7

Blood Money (Anti, 2002)

6

Real Gone (Anti, 2004)

6

Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards (Anti, 2006)

7

Bad As Me (Anti, 2011)

7

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