Beach House

Beach House

La dimora dei sogni

Beach House è la deliziosa dimora di Victoria Legrand e Alex Scally, duo di Baltimora che nelle proprie canzoni fonde evocazione, teatralità, incanto e disincanto pop. Un mix ipnotico e avvolgente che li consacra tra i protagonisti del dream-pop contemporaneo, tra organi suggestivi, penetranti vocalizzi, carillon sbiaditi e slide guitar al valium

di Giuliano Delli Paoli, Fabio Russo e Claudio Lancia

La storia dei Beach House inizia nel 2004. In quel periodo, Victoria Legrand, nata a Parigi ma cresciuta a Philadelphia - nipotina dell'illustre compositore francese Michel Legrand e della cantante Christine Legrand - decide di lasciare l'École Internationale de Théâtre "Jacques Lecoq", dov'era tornata per conseguire il diploma di recitazione, e seguire l'istinto dall'altra parte dell'oceano, verso la più sobria ed "economica" Baltimora. Qui incontra Alex Scally, uno stravagante studente di geologia divenuto nel frattempo apprendista falegname, col quale è subito intesa. I due si annusano fin dal primo momento, condividendo la stessa passione per organetti e suoni vintage. Di lì a poco, nasce il progetto musicale Beach House. In breve tempo, il duo matura un suono intrigante, avvolgente, sognante, luccicante sotto il profilo acustico, capace di rievocare in un sol colpo angeli e demoni. Tutto volge a un flusso anestetico e persuasivo di accordi mielosi e ritmiche sbronze, mentre l'assenza di orientamenti prestabiliti rende i due liberi dal peso di nuovi ingaggi. Difatti, la tavolozza è composta essenzialmente da tre elementi: slide guitar, tastiera e batteria programmata. Il risultato è privo di artifici esterni.

A un primissimo impatto, verrebbe da pensare di scatto a tante altre entità autosufficienti, su tutti gli svedesi Wildbirds & Peacedrums. Ma è nell'approccio melodico ai limiti del favolistico, nella modellazione oppiacea delle singole sfumature che i Beach House lasciano nell'ascoltatore un segno indelebile che fugge, anche solo in parte, da qualsiasi accostamento possibile. Le canzoni seguono una giostra che potrebbe ricondurre i nostri sogni ai Mazzy Star più celesti, o ai più recenti Brightblack Morning Light, passando per Sugar Plant, Big Star e Galaxie 500. Ma è solo un simpatico gioco di incastri e rimandi di circostanza. La forza del duo risiede tutta nella strabiliante fluorescenza delle melodie estrapolate con garbo da Scally e nell'ugola caldissima della Legrand, nella sua accattivante espressività. Non a caso, è la stessa cantante-tastierista a fornire un'anima grafica e testuale ai Beach House, evidenziando l'urgenza di correlare al suono anche una dirompenza visiva.
Il primo frutto di tale operato, "Apple Orchard", viene lanciato nell'etere nel 2005 attraverso uno splendido video amatoriale girato nei vagoni del Bullet Train che collega Philadelphia e New York. E a soli dieci giorni dal suo ingresso in rete, migliaia di click ne sentenziano già impetuosamente la valenza. Così, i Beach House penetrano ufficialmente nelle camerette di mezzo mondo. A tal proposito, la Legrand affermerà più volte di voler realizzare un Dvd contenente tutti i video della band, a conferma di quanto originariamente pattuito.
Altro aspetto fondamentale nell'evoluzione del suono targato Beach House, è la componente live. Sin dai primi passi, la coppia gira in lungo e largo tutte le maggiori capitali degli States, fino a coprire ben sessantaquattro date in diciassette Stati, rafforzando un sodalizio già di per sé indissolubile e delineando a ogni esibizione un'identità sempre più marcata. Se ne accorgono in successione Cat Power, Grizzly Bear, Fleet Foxes, Dum Dum Girls, solo per citare alcuni dei nomi eccellenti a cui i due prestano supporto.

Ma è l'assetto cinematografico fornito alla musica a stimolare sopra ogni cosa Victoria Legrand. Dichiaratasi fan di David Lynch, l'ex-teatrante di Parigi non ha mai celato la propria ossessione per la recitazione e la gestualità scenica. E così il terrore inteso come estatico possesso, elemento imperante nelle complesse strutture visive del regista di Missoula, diventa fonte d‘ispirazione per le partiture del duo. Ne risente in parte l'omonimo esordio Beach House, disco che mostra i sintomi di una profonda inquietudine, camuffati da un impasto sonoro trasognato, etereo e oscillante. Ad aprirne il sipario, è un carillon che gira a rilento sempre nello stesso verso, mentre un organetto sfasato incalza una nenia soporifera. Sullo sfondo, la Legrand pare addormentarsi in un sonno travolgente.
L'album è caratterizzato da una decadenza melodrammatica sospinta in un climax lo-fi denso di evaporazioni elettroniche, fraseggi vocali ovattati e sussurri noir. I testi narrano di frutteti dove ristabilire i propri sensi ("Apple Orchard"), di amori incondizionati ("Saltwater"), di sacrifici, attese e pagine bianche da riempire ("Auburn And Ivory"), di cuori infranti fatti di lacrime e sorrisi dai denti dorati ("Heart And Lungs"). Tutto vira verso l'amore perduto o un'estrema padronanza del proprio partner. E così, il calore fisico della persona amata diviene ossigeno per i polmoni. La Legrand calca, mediante le sue parole, i sentieri di una nuova forma di neoromanticismo, dove la corporeità e il dominio predominano sulle ragioni del cuore e della mente. L'album racchiude, seppur in forma acerba, le coordinate future del progetto Beach House.

Smaltite le prime fatiche produttive, nel 2008 i due decidono di dar vita a una nuova danza. Devotion riunisce i cocci dell'omonimo esordio in un puzzle slow-core ancor più mieloso e fatato. Una sequenza di canzoni dream-pop che scorrono come elegie tristi e felici, dolci e antiquate. Un perpetuo flusso sonico evoca un fascino remoto e inscena una creatura smarrita nel mare di luce. Victoria è un'esule, seduttrice e sedotta dal diluvio onirico e simbolico che è sparso dalle armonie. I suoi vocalizzi sono tenere e affannose pieghe di dolore quasi emanate dall'ambiente; contemplazioni di una Giovanna D'Arco avvolta in spire di panico, persa nell'abisso. Le tastiere e le chitarre irradiano i colori accesi e desolati d'un tramonto, echeggiando passione. Il canto è placido e ascetico come un sogno sospeso ed etereo. L'ascoltatore ne segue persuaso le ascese magnetiche e fendenti nella cornice d'una sfavillante decadenza, nel reticolo di un nobile e sensuale fardello nostalgico che satura lo spazio ("Gila", "All The Years"). La tintura musicale si distende e si fa anelito incrollabile, avvolto in un'aura di desiderio senza nome, che trascende il mero panneggio atmosferico. Le modulazioni romantiche mosse dal vento impregnano i sensi.
È il capolavoro del duo, la vetta incantata. Seguiranno "devozioni" e celebrazioni da tutto il web e da buona parte delle riviste indipendenti.

I due acquistano di fatto una notorietà che li condurrà fino al sommo produttore indie Chris Coady (Blonde Redhead, Celebration, Architecture In Helsinki, Tv On The Radio, Foals, e tanti altri). Ne consegue una maggiore fedeltà sonora, l'atteso sbarco a terra, la soluzione che lava e che libera. Teen Dream è sintesi florida e decisiva, reazione puntigliosa e civetta. Sempre più efficaci le lusinghe emozionali di Victoria, che ancora una volta incarna l'inquieta regina dell'isola, la sovrana di alture arcaiche e di tramonti che traspirano immobili, che va a perdere lo sguardo nel mare. Se la strumentazione vintage resta la stessa, più netti rispetto al passato sono i contorni, sui quali ha buon gioco Coady. Ripuntati i timbri, minuziosa la forma, smaltate le superfici cromatiche senza attenuarne l'ardore o scalfire l'estasi.
In Teen Dream la casa sulla spiaggia è rifugio e asilo senza tormento. Tra attese e promesse non v'è margine che per il sogno, e brani come "Zebra", "Used To Be", "Norway", "Silver Soul", "Lover Of Mine", "Better Times", "Real Love", "Take Care"... svelano tutti il soffio inebriante del classico e tracimano cariche di luce chiara; pallori di incanto atmosferico, a congiungere acqua e cielo.
Le risacche di corde e tastiere, d'organi e campane invitano l'ospite a restare e guardare dentro, a rinfocolare, ad assimilarsi. La spiaggia è lì, adornata dalle onde, dalle dune e da suggestive dimore per cuori dispersi.

A due anni di distanza dal successo riscosso con Teen Dream, Alex Scally e Victoria Legrand procedono spediti nel rimodernare la loro bella casetta sulla spiaggia, tra organetti vintage tirati a lucido e colori pastello con i quali tingere le pareti. Riposti definitivamente i primi vagiti lo-fi esposti nei primi due album, con Bloom (quarto disco sfornato in sei anni) i due Beach House paiono essersi allegramente adagiati verso una brillante e minuziosa formula dream-pop. Dunque maggiore cura di ogni singola rifinitura e melodie ancor più fatate e leggiadre a sottolineare la capacità di intrattenere l'ascoltatore mediante un neoromanticismo pop florido e ardente di passione.
Inserire Bloom nel lettore significa essere invitati a una festa in cui ogni stanza è accuratamente adornata di fiori e palloncini da far esplodere allegramente al proprio passaggio, tra giochi di luce e sorrisi smaglianti. Le atmosfere celestiali assumono dunque una centralità ancor più assoluta e ad ogni flemmatica partenza segue un'esplosione di gioia in cui poter cullare i propri sogni ("Wishes", "Lazuli"), con il buon Scally sempre più a suo agio nelle vesti dell'arrangiatore travestito da giullare. E anche quando pare subentrare per alcuni momenti un'insolita malinconia, è la consueta trasognata sospensione vocale della Legrand ad alleggerire gli umori ("Troublemaker").
Se Teen Dream poneva le basi per un "nuovo" celeste cammino, Bloom ricalca a meraviglia una formula dream-pop mai così perfettamente riconoscibile, confermando appieno la bontà e le preziose doti compositive del duo di Baltimora.

Ad agosto 2015 è la volta dell'attesissimo Depression Cherry, il disco che conferma il duo come miglior portabandiera possibile di quel che resta nel nuovo millennio del dream-pop. I Beach House continuano a scrivere l’ipotetica colonna sonora di un sogno ad occhi aperti in grado di cullare l’ascoltatore e trasportarlo in una dimensione meravigliosamente onirica. Un mondo etereo e soffuso, quasi fatato, perfezionato attraverso dischi clamorosamente belli, fatti di canzoni intense ed emozionanti, architettati ponendo al centro della scena la sensuale voce di Victoria e i suoi sinuosi synth, arricchendo il tutto con i gentili intarsi chitarristici di Alex e la drum machine ad accompagnare con la dovuta discrezione. Inutile cercare fra questi solchi chissà quali rivoluzioni copernicane, i Beach House si spostano pochissimo, quasi nulla dal proprio saldissimo baricentro musicale, basti l’ascolto della seducente “Space Song”, il fiore all’occhiello di “Depression Cherry”, in pratica una nuova “Wishes”, una traccia che mantiene saldissimi i legami con il passato. Nella successiva “Beyond Love”, una di quelle canzoni così strappacuore che dovrebbero essere vietate per legge, arrivano le incancellabili stimmate elettriche a completare un quadro emozionale con pochi uguali al mondo. L'ipnotica “10:37” e la zuccherosa “Wildflower” restano ai margini dell’altro caposaldo del disco, “PPP”, chiuso da una sontuosa coda strumentale dove le semplici ma efficaci linee di chitarra prendono il sopravvento.
La signora Legrand fissa i droni sonori con la mano destra, mentre con l’altra ricama melodie, su frasi musicali mandate in loop i due Beach House improvvisano per ore, e ciò che viene fissato su disco non è altro che la migliore sintesi possibile del loro processo compositivo, perfettamente rappresentato dall’evoluzione dell’iniziale “Levitation”. In Depression Cherry quasi tutto è lasciato volontariamente ad uno stato minimale, una sorta di ritorno alla semplicità, tutto è misurato, un’estasi malinconica che resta delicata persino quando l’impostazione ritmica e delle voci arriva a lambire i My Bloody Valentine più oppiacei (“Sparks”). Raffinatissimi intarsiatori di infallibili melodie, i Beach House compiono l’ennesimo miracolo di scrittura, un sano nutrimento per l’anima che trova epilogo nella celestiale “Days Of Candy”, un congedo eucaristico, una mini sinfonia angelica di ascensione, e se lasciate il lettore in modalità continua, ripartirà da “Levitation”, e la magia non avrà mai fine.
Con Depression Cherry, il duo di stanza a Baltimora  resta artisticamente fedele a sé stesso, e nel frattempo aggiunge nove diamanti purissimi al proprio prezioso carniere. Se siete degli inguaribili romantici, se desiderate un disco che rappresenti la malinconia dell’autunno oramai alle porte, se avete bisogno di innamorarvi ancora, oppure di lasciarvi lacerare il cuore, se dalla musica cercate emozioni in grado di entrarvi dentro in punta di piedi e dilaniarvi con lentezza, beh, Depression Cherry non sarà per tutti voi soltanto uno dei dischi dell’anno, sarà uno dei dischi della vita.

Appena due mesi più tardi, il 16 ottbre 2015, annunciato soltanto una settimana prima, giunge inaspettato un altro album dei Beach House, presentato dal duo non come una raccolta di versioni alternative o potenziali b-side, bensì come un vero e proprio nuovo disco: Thank Your Lucky Stars. Preso da un momento di inarrestabile ispirazione, il duo di Baltimora avrebbe potuto prendere il meglio dei due album e realizzare un inattaccabile capolavoro, ma al momento di dover selezionare la tracklist del successore di “Bloom” non è riuscito a scendere sotto le 18 tracce, ed ha deciso di dare autorevolezza e autonomia a un bouquet di canzoni che stanno molto bene assieme, pubblicandole dentro Thank Your Lucky Stars. Così come in Depression Cherry, anche fra questi solchi non scoviamo alcuna rivoluzione nel sound e nello stile dei Beach House, aumenta semmai il livello di malinconia, sino a livelli di guardia (ascoltate un po’ “She’s So Lovely”, una sorta di gemella meno appariscente di “Beyond Love”), ed aumenta la percezione della band come la più importante rappresentante del filone dream-pop contemporaneo.
Con Thank Your Lucky Stars si perfeziona una sorta di ritorno alla semplicità dei Beach House, alle atmosfere che caratterizzavano le loro prime uscite: tutto torna ad essere rarefatto, a tratti perfino impregnato di apparente immobilismo (è il caso di “Common Girl”), anche se qualche piccolo muro di chitarre ogni tanto si staglia all’orizzonte (“One Thing”). Pur senza i fenomenali picchi di “Depression Cherry”, questo nuovo lavoro di Victoria e Alex Scully riesce a raggiungerne la medesima qualità media, in virtù dell’assenza di riempitivi o pezzi deboli, e grazie alla presenza della memorabile “Elegy To The Void”, il brano più lungo e bello del disco, nel quale il pop educato si impenna in un crescendo emozionale commutandosi lentamente in light shoegaze. Onirico, notturno, soffuso, elegante, sensuale, infinitamente melodico, Thank Your Lucky Stars è il disco che muta il destino dei Beach House, perché se una band riesce a pubblicare due lavori così forti nello spazio di un paio di mesi, esce fuori dalla rispettabilità della propria nicchia e diventa un’istituzione. Quello architettato da Victoria e Alex è un mondo confortevole, nel quale ciascun indie dreamer si sente a proprio agio, sigillato dalle atmosfere d’antan di “Somewhere Tonight”, le quali sembrano uscire da una vecchia foto sbiadita, magari quella stessa che campeggia in copertina, ed il cerchio si chiude, così, come per magia. Custodite gelosamente Thank Your Lucky Stars, lasciatelo decantare, centellinatelo, e conservatelo per le vostre serate indimenticabili, non ve ne pentirete.

A fine giugno del 2017, per ingannare l’attesa fra l’inaspettata accoppiata Depression Cherry/Thank Your Lucky Stars e il successivo lavoro in studio, Victoria Legrand e Alex Scally danno alle stampe B-Sides And Rarities, un contenitore con tutte le B-side e gli outtake disseminati o lasciati in un cassetto lungo gli oltre dieci anni del primo tratto della loro carriera: 14 tracce fra alternative take e inediti mai comparsi in nessuno dei sei album fina allora pubblicati. Il risultato finale brilla per omogeneità, a testimonianza di quanto il duo di Baltimora si sia sinora mosso sui medesimi binari, quelli di un dream-pop fortemente emozionale, nel quale a svettare sono i synth e la voce di Victoria, confortevolmente adagiati sui morbidi tappeti costruiti dalla batteria e dalla chitarra di Alex. Per rendere la compilation ancor più intrigante i Beach House inseriscono due inediti, “Chariot” e “Baseball Diamond”, entrambi provenienti dalle session che condussero ai due album del 2015, e la personalissima cover di “Play The Game” dei Queen, pubblicata nel 2008 in un disco a supporto della ricerca sull’AIDS (i ragazzi continueranno a donare a tale scopo ogni provento dallo sfruttamento della propria versione).
Da alcune note scritte dal duo, apprendiamo che la canzone più vecchia inclusa è “Rain In Numbers”, risalente al 2005, una delle prime registrazioni di fortuna compiute dalla band, utilizzando il pianoforte  scordato di un amico (ancora non ne possedevano uno) e il microfono di un quattro piste portatile con il quale catturarono il tutto: il brano originariamente divenne la ghost track del loro omonimo debutto. “I Do Not Care For The Winter Sun” è la remastered version del regalo donato ai fan all’indomani del tour del 2010, all’epoca resa disponibile on line in free downloading; “Wherever You Go” era invece una secret song di “Bloom”. “Saturn Song” ed “Equal Mind” uscirono dalle medesime session, in particolare la seconda non venne inclusa in “Bloom” soltanto perché aveva esattamente lo stesso tempo di “Other People” e “They Are Like Twins”. Ci sono anche alternative take di brani già editi, come “White Moon”, "Norway” (entrambe riprese da una live session per iTunes e remixate per adeguarle all’attuale estetica del duo) e “10 Mile Stereo”, riproposta in una versione remixata. In particolare in “Norway” è presente un bridge alternativo rispetto alla versione edita in “Teen Dream”. Tutte queste canzoni vengono quindi sottratte al rischio dell’eterno oblio e in questo B-Sides And Rarities raggiunge alla perfezione l’obiettivo prefissato: quello di far completare la conoscenza della produzione della più importante band dream-pop del nuovo millennio.

A lanciare il settimo disco dei Beach House, intitolato senza troppi escamotage semplicemente 7, sono i singoli “Lemon Glow” e “Dive”. Il primo, sganciato volutamente nel giorno di San Valentino, e accompagnato da un post di auguri a tutti gli innamorati apparso sul loro profilo Instagram, è una ballata amorosa che ricalca tutti gli stilemi del duo, con il piano a compiere orbite sinuose sullo sfondo, e la chitarra di Scally tanto squarciante, quanto trattenuta. Un brano che sembra provenire da quello che resta ancora oggi il capolavoro della coppia, Devotion. “Dive” punta a sua volta le lancette ancora più indietro, e riprende l’essenzialità dell’omonimo esordio, con la Legrand avvolta in un flusso melodico morbidissimo, al solito estremamente cullante. Una nenia che ci riconduce solo per metà al primissimo passato, prima che la sezione ritmica acceleri e ci spedisca in un crescendo estatico dosato al meglio.
7 è un disco che poggia le proprie credenziali lungo una corda sospesa nel vuoto, tra le nuvole, in un delicato equilibrio di sogni e disincanti, come ben espongono anche i versi di “Loose Your Smile”: “Lose your smile/ Dreams, baby, do come true”. Tale mix segnala una saggia alternanza compositiva, con i testi mai così vari, in bilico tra empatie sentimentali e decadimenti del cuore. A spennellare ulteriore psichedelia sulle pareti di casa, è per giunta l’ex-Spacemen 3 Peter Kember, che aiuta ufficiosamente i due amici in cabina di regia. E i risultati si sentono, soprattutto nel giretto ipnotico di “Woo”, in perfetta linea con le derive della band madre del buon Peter.
Un album che si divide dunque nel più confortante dream-pop di matrice Cocteau Twins, come accade nella corale “L'Inconnue”, con tanto di parti in lingua francese -  terra carissima alla Legrand, essendo nata a Parigi ma cresciuta a Philadelphia, e soprattutto essendo nipotina dell'illustre compositore francese Michel Legrand e della cantante Christine Legrand, parimenti legata all’École Internationale de Théâtre "Jacques Lecoq", dov'era tornata per conseguire il diploma di recitazione, prima di accasarsi nella sobria ed "economica" Baltimora - e in celeri tratteggi noir che lasciano a loro modo esterrefatti, evidenziati dal passo ipnotico di “Black Car”.
Non manca di certo la consueta sospensione paradisiaca che tutto trascina con sé, vedi il battito di “Pay No Mind” e la suadente “Girl Of the Year”, quest’ultima traccia ispirata da una delle superstar di Andy Warhol, Edie Sedgwick, che nel 1965 era conosciuta per l’appunto come "Girl of the Year"; e per altri versi dal duplice lato delle donne, spesso travolte da una fragilità eccessiva e allo stesso tempo attratte dal fascino dell’autodistruzione. 
7 è in fin dei conti un ritorno gradito, e ci consegna dei Beach House dannatamente vivi e ispirati, sinuosi ed eleganti.

I paesaggi sonori e i colori psichici di 7, il pulsare delle stelle e lo sfrigolare delle comete racchiusi nelle vesti di seta delle undici composizioni, rimangono i punti di riferimento per il nuovo imponente e ambizioso lavoro che il duo annuncia nell'autunno del 2021. Si tratta di una raccolta costituita da diciotto canzoni, suddivise in quattro capitoli rilasciati a circa un mese di distanza l’uno dall’altro. Once Twice Melody (2022) è una narrazione, una traiettoria emozionale. I video dai tratti decisamente psichedelici che accompagnano ogni brano sembrano infatti suggerire l’intento di Victoria e Alex di avventurarsi al di là di un’esperienza puramente razionale e sensoriale. E se la musica del duo si è sempre mossa ai limiti di questa soglia, ora prova a varcarla, a lambire e a penetrare le pareti dell’Ultraterreno. E per poter rappresentare in musica un simile viaggio, i Beach House si sono dovuti appropriare di un linguaggio simbolico ed espressionista che fosse in grado di ombreggiare e pennellare con dei colori vividi questo spazio mentale che anela all’infinità. Ed ecco allora che Victoria tratteggia scenografie cosmiche, soliloqui interiori nel ventre del cielo e monologhi che paiono aleggiare nel vuoto universale, ma che sono invece diretti ad un concistoro siderale.
Il capitolo introduttivo è forse quello caratterizzato dal linguaggio più astratto e anticipa e mette in scena anche il movimento conflittuale che caratterizza l’intero disco, cioè il contrasto tra l’idillio dell’amore nascente e il momento del frantumarsi della relazione, tra la dolce rimembranza del periodo gioioso e il ricordo sofferto della sua fine. Il duo si inserisce nella dinamica contrastiva di questo spazio interstiziale ed esplora il carosello emotivo che vi dimora. “Pink Funeral”, forse l’esempio emblematico di questa avventura di ricerca, è un vero e proprio requiem per Amore e si libra tra orchestrazioni sinistre e rigogliose tonalità rosacee, nostalgia ed estasi, lamentazione funeraria e un tramonto indimenticabile.
Sono gli organetti di Devotion filtrati dal romanticismo di Depression Cherry a introdurre chi ascolta nel secondo capitolo del disco. Qui nei primi tre brani ci si allontana dall’astrazione precedente e si abbraccia una dimensione più tangibile e concreta. Lo spazio interstiziale del regno d’Amore viene osservato ora da un’altra angolazione e divengono centrali i temi della fuga e della distanza e della premonizione della fine di una relazione amorosa.
Se non fosse per le inaspettate ondate sintetiche di “Masquerade”, il terzo, sarebbe invece il capitolo più “tradizionalmente Beach House”. Si ritrovano infatti qui atmosfere malinconiche, luci crepuscolari, aloni di polvere di stelle (“Sunset” e “Illusion of Forever”), arpeggi scintillanti di tastiere (“Only You Know”), effetti e filtri vocali, fumosi tappeti d’organo (“Another Go Around”) e quel beat di “Illusion Of Forever” che richiama immediatamente alla memoria tattile il velluto rosso di Depression Cherry.
Il capitolo conclusivo è quello più introspettivo e solipsistico: la luce dell’altro diventa fioca e il monologo interiore prende il sopravvento. E mentre il firmamento stellato giganteggia nella sua immensità, le ballad “The Bells” e “Many Nights” ripropongono un dream-pop narcolettico, memore dell’eredità artistica dei Mazzy Star. Eppure, prima del gran finale di "Modern Love Stories", trova spazio il romanticismo luminoso di “Hurts To Love”, un vero e proprio inno all'amore e alla vita, che condensa in pochi minuti l'essenza dello spirito musicale del duo di Baltimora.

Once Twice Melody è un album grandioso e sfaccettato, caratterizzato da un sound maestoso capace di sfruttare completamente gli inediti arrangiamenti per orchestra di cui si sono avvalsi i Beach House. È la summa delle diverse anime del duo, ma anche, e soprattutto, pura melodia, angelica e trasognata. Non c’è un singolo momento debole in questa raccolta di canzoni e la rete di richiami intratestuali è fittissima.
Forse non sarà il disco più bello o non diventerà il più amato, ma di certo si impone come il monolite definitivo della loro carriera. Se e quando decideranno di tornare, Alex e Victoria dovranno ricominciare da zero. L’abbraccio del respiro cosmico ha posto la parola fine a una parabola artistica che trova ben pochi eguali nel panorama musicale indipendente degli ultimi vent’anni. E se questa, dunque, è la fine, ci sarà bisogno di un nuovo inizio. Un inizio che dovrà saper fare tesoro di questa recente esperienza e che dovrà, ancora una volta, andare in quell’Oltre che solo i Beach House sono in grado di visualizzare o, meglio, di immaginare.

Once Twice Melody non ha esaurito il materiale composto durante le session di registrazione: a distanza di oltre un anno altri cinque brani vengono raccolti nell'Ep Become, assemblato per il Record Store Day 2023. Si tratta di canzoni che mostrano sia i punti di forza che quelli di debolezza della premiata ditta Legrand/Scully, capace di costruire meravigliose atmosfere oniriche, sospese, eteree, dreamy, come direbbero gli anglosassoni, ma al contempo di ripetere pedissequamente sempre i medesimi cliché già battuti – e meglio – più volte in passato.
E’ materiale che la coppia non ha ritenuto sufficientemente valido per essere inserito nella tracklist di “Once Twice Melody”, e questo la dice lunga, ma l’estro dei due produce comunque risultati mai meno che interessanti. Become merita pertanto di essere ascoltato, vuoi per la grande coesione interna che dimostra di possedere, vuoi per il crescendo controllato di “American Daughter” che ci riporta verso il light shoegaze di 7, vuoi per il sensuale abbraccio di “Devil’s Pool”, vuoi per l’avvolgente chorus indossato dalle sinuose chitarre in ”Black Magic”, vuoi per certe derive wave intraprese dalla title track. Sono loro, i Beach House, dentro Become, potresti riconoscerli persino ad anni luce di distanza.

Contibuti di Daniel Moor ("Once Twice Melody")