port-royal

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Post-dance a dimensione planetaria

I genovesi Port-Royal hanno esordito con "Flares" per la label inglese Resonant. La loro musica strumentale e sognante, pur affine a quello di tante band nordiche e mitteleuropee, ha da subito rivelato una sensibilità originale e rivolta a sperimentazioni elettroniche molteplici, consacrate nei successivi "Afraid To Dance" e "Dying In Time", che coniugano con estrema naturalezza universi musicali diversi, quali dance, shoegaze e ambient

di Raffaello Russo

La storia dei Port-Royal comincia a Genova nei primissimi anni 2000, quando la comune passione musicale di Attilio Buzzone ed Ettore Di Roberto pone le prime basi per la scrittura di composizioni originariamente concepite per sole tastiere e chitarra che, con la costituzione di una vera e propria band formata da cinque elementi, amplieranno ben presto le loro originarie influenze post-rock fino a comprendervi un variegato approccio con l’elettronica.

La prima prova artistica dei Port-Royal sono i poco meno di venti minuti, dell’Ep Kraken che, seppure in forma embrionale, lasciano intravedere alcune delle coordinate di riferimento della band genovese. I quattro brani di Kraken, dai titoli tutti in tedesco, accostano chitarre e campionatori dando luogo a una musica dai prevalenti tratti malinconici e avvolgenti, come nel soffuso incipit di “Gelassenheit” e nel finale di “Regine Olsen”, ma allo stesso tempo, nel primo caso, vibrante di battiti elettronici incalzanti e, nel secondo, permeati da una sottile asprezza, che rimanda agli Arab Strap di “Philophobia”, non a caso uno dei primi amori di Attilio ed Ettore. L’interpretazione dell’elettronica da parte dei Port-Royal si presenta da subito molto varia, come dimostra l’andamento lieve di “Divertissment” e quello ellittico di “Geworfenheit”, sostenuto da loop e campionamenti vocali, e le soffuse rarefazioni che, puntellando qua e là tutte le quattro composizioni, adombrano i contorni di un suono già piuttosto personale, che ben presto diverrà chiaramente riconoscibile.

L’effettivo debutto su vasta scala dei Port-Royal è però l’album Flares, significativamente uscito per l’etichetta britannica Resonant, che raccoglie in una forma complessa e ricca di variazioni oltre due anni di lavoro, inteso a filtrare attraverso la specifica sensibilità della band, influenze ed esperienze musicali anche piuttosto diverse tra loro. Le dieci tracce strumentali incluse nei quasi ottanta minuti dell'album spaziano infatti ampiamente, in un flusso mentale unico, tra reminiscenze di classica contemporanea, atmosfere dilatate e sognanti, tracce di elettronica minimale e passaggi dominati da beat più marcati.

L'idea della ricchezza e varietà del contenuto di questo lavoro proviene già dall'iniziale "Jeka", che esordisce con tre semplici note di pianoforte alla Sylvain Chauveau su una texture sintetica rarefatta e avvolgente, che prende ben presto il sopravvento instaurando una sospesa quiete ambientale, alla maniera di Labradford o Stars Of The Lid, appena squarciata da un flebile parlato in lontananza.
Analogamente spettrale è l'incipit della successiva "Spetsnaz/Paul Leni", scosso da una frenetica percussione elettronica che, dapprima dissolta in una spessa coltre di drone, riprende su un ritmo quasi ballabile, per poi disperdersi, sopraffatta da impalpabili suoni ambientali e da un inaspettato accordo di chitarra, preludio a un finale ipnotico, pervaso da iterativi segnali interstellari, galleggianti su una distorsione cosmica. Ben più impetuoso è il percorso degli oltre 12 minuti di "Karola Bloch", brano dalla costruzione simile ad alcune delle prime produzioni dei Mogwai - rispetto alle quali le chitarre sono però sostituite da un febbrile ritmo elettronico - che non solo ne scandisce il tempo, ma lo conduce attraverso territori di sottile e glaciale psichedelia destrutturata.

Se già le intelaiature di questi brani possono risultare ben complesse, il gruppo genovese esprime compiutamente, anche dal punto di vista concettuale, la sua non banale vivacità compositiva nei due brani suddivisi in tre movimenti ciascuno, "Zobione" e "Flares", il primo dei quali mostra una struttura articolata e mutevole, mentre la composizione che dà il titolo al lavoro presenta un andamento circolare con numerose variazioni sul suo tema.

"Zobione" si snoda dalla sinistra e densa nebbia psichedelica della sua prima parte, che pian piano si dirada fino a sciogliersi nel caldo e avvolgente ritmo liquido della seconda, caratterizzata da apeture liriche di ampio respiro, tra le quali sembrano scorgersi atmosfere floydiane, rivitalizzate da una delicata vena umbratile, non così distante da quella dei Sigur Rós; decisamente consacrata a un suono elettronico è infine la terza parte, costruita sull'alternanza tra un beat incalzante e minimali passaggi cinematici.
L'incantevole "Flares" disegna invece melodie sognanti e avvolgenti, che si rincorrono nelle sue tre parti: la prima (senza dubbio il brano più affascinante dell'intero lavoro), costellata da un pianoforte romantico e chitarre languide avviluppate in crepitii elettronici, a metà tra le atmosfere di Pan American e dei Sigur Rós di "( )"; la seconda, caratterizzata da suoni di caldo crescendo emotivo e ricca di suggestioni romantiche, tra le quali si intravede una lieve psichedelia post-canterburiana, filtrata dalle esperienze di gruppi quali Slowdive e, ancora, Sigur Rós; la terza, improntata a un'elettronica ambientale, a chiudere idealmente il cerchio, reinterpretando ancora il tema portante della composizione, che alla fine ritorna brevemente nella forma originaria della prima parte.

Seppur l'album risulti affine, per concezione e ambientazioni sonore, alle pregevoli opere di The Album Leaf e dei compagni d'etichetta Stafrænn Hákon e Blindfold, la molteplicità di riferimenti stilistici e compositivi presenti in esso rende difficile ascriverlo a un qualche specifico "genere", essendo in esso coniugati tanto beat elettronici quanto stratificazioni chitarristiche, tanto statici scenari ambientali quanto passaggi emozionali in continuo divenire.

Dopo la piacevole rivelazione del debutto, i Port-Royal hanno trascorso due anni tra esperienze e collaborazioni internazionali molteplici, attraverso le quali sono state poste le basi per il secondo lavoro, anticipato di pochissimo da un Ep, uscito per l’etichetta canadese Chat Blanc sotto il titolo Honved, che, accanto a un paio di composizioni recenti, comprende rielaborazioni di altre più risalenti e remix di due brani del primo album.

La parte iniziale dell’Ep è caratterizzata da suoni liquidi, prima dilatati lungo i due minuti e mezzo di “Stasi” e quindi sovrapposti a texture di tastiere e synth dai contorni indefiniti in “The Beat Of The Tiger”, brano dalla spiccata impronta descrittiva. I restanti tre brani sono frutto di collaborazioni e rimaneggiamenti sonori: il primo, “Song Of Megaptera”, vede i Port-Royal affiancare il musicista italiano Andrea Penso, alias Selaxon Lutberg, in una serie di controllate manipolazioni elettroniche tendenti al glitch, che sfociano nei soffici toni di un finale etereo. Parzialmente diversi i due remix affidati a Landing e Millimetrik, che reinterpretano secondo le rispettive sensibilità i primi due movimenti di “Zobione”: Landing ne trasforma, infatti, la prima parte in un continuo flusso ambientale solcato da drone, mentre Millimetrik stravolge quasi il ritmo avvolgente della seconda, innestandovi profondi e oscuri suoni metropolitani.

Ma se Honved costituisce una pur valida anteprima, la compiuta espressione della rinnovata dimensione artistica della bad genovese proviene dall’album Afraid To Dance, che traduce la medesima intersezione di influenze (post-rock, ambient, shoegaze) già propria di “Flares” secondo una più marcata sensibilità elettronica, esplorando diverse sfaccettature delle potenzialità dell’uso di synth, campionamenti e filtraggi elettronici di ogni tipo. L’evoluzione dei Port-Royal risiede infatti soprattutto nell’approccio compositivo e nel modo in cui passaggi diversi si snodano e si sovrappongono gradualmente nel corso dell’album e quasi sempre anche all’interno dei singoli brani.

Lo si comprende fin dal segmento iniziale del lavoro che, in omaggio ai riferimenti culturali teutonici della band, parte dallo zoo di Berlino (“Bahnhof Zoo”) accostando atmosfere avvolgenti, solcate da frequenze disturbate e variopinte manipolazioni sonore, a un profondo battito elettronico, che dona al brano corpo e sinuoso movimento. Immediata conferma di come uno dei tratti salienti di Afraid To Dance sia costituito da un caleidoscopio di raffinatezze elettroniche è fornita, dopo il breve preludio di distorsioni persistenti di “Pauline Bokour”, dalla splendida “Anya: Sehnsucht”, lungo la quale si dipanano toccanti visioni metropolitane e residui sentori nordici, intrecciati prima in sottili trame dai ritmi continuamente cangianti e poi tramutati in bozzetti di paesaggi sospesi e sinistri, fino al placido accenno pianistico del finale. Caratteri analoghi e anzi ancor più accentuati presentano anche i nove minuti di “Deca-Dance”, brano dall’impatto immediato e dall’iniziale ritmo ballabile che, intorno a una batteria elettronica sferzante, costruisce una notevole tensione sintetica, sfumata soltanto da melodie limpide ma contorte, dissolte in un finale etereo e spettrale, tra echi di voci lontane e languidi flutti ambientali.

Ma non finisce qui: perché se già simile ricchezza di intuizioni sarebbe sufficiente a riempire album interi, nelle restanti composizioni i Port-Royal offrono una serie di variazioni su temi elettronici che spaziano dalle increspature glitch di “German Bigflies”, alle lente tessiture elettroacustiche che in “Roliga Timmen (Longing Machines)” fanno da contorno a un’impennata ritmica centrale e a seducenti movenze di impronta quasi shoegaze. In questa traccia e nella successiva “Internet Love”, i Port-Royal lasciano trasparire addirittura potenzialità prossime alla forma canzone, fornendo compiuta prova del cuore caldo e romantico di una musica che non rinuncia alle sue potenzialità emotive ma, filtrandole attraverso componenti più dense e cerebrali, ne elude la mera ripetizione secondo canovacci ormai scontati. 

Tante altre variazioni di registro espressivo si rivelano ancora nelle pieghe sottili di un album che dimostra la freschezza e l’impressionante efficacia della formula artistica della band e la completa riuscita della scelta di porre l’accento su strutture compositive complesse, padroneggiate con abilità tale da conseguire un risultato dai tratti senza dubbio originali. È infatti vero che i Port-Royal sono rimasti coerenti con le radici della loro ispirazione artistica, ma in Afraid To Dance ne hanno svolto e trasformato gli elementi, non accontentandosi di risultare una pur valida emulazione delle band già richiamate nel disco d’esordio, ma anzi dimostrando che i loro orizzonti sono molto, molto più ampi.

A un anno esatto dalla pubblicazione di Afraid To Dance, la band genovese si guarda indietro, affidando i brani di Flares a importanti artisti di origine e formazione diversa, che li rielaborano ognuno secondo il proprio stile e la propria sensibilità.
Flared Up, infatti, altro non è che una raccolta di remix dell'album di debutto, la quasi totalità dei cui brani viene sottoposta a rimaneggiamenti che, senza alterarne le caratteristiche strutturali, da un lato sono volti a enfatizzarne le componenti ritmiche, dall’altro a renderne più liquide e ovattate quelle ambientali.
Già la scelta degli artisti chiamati ai remix testimonia tanto la versatilità dei brani originali quanto la stima diffusa che i Port-Royal hanno saputo sin qui guadagnarsi con i loro lavori, se è vero che accanto a nomi validissimi ancorché noti quasi solo in sotterranei ambiti elettronici (è per esempio il caso di D_rradio, F.S. Blumm e Skyphone) partecipano al lavoro artisti che non necessitano certo di presentazioni, quali Dialect, Stafraenn Hákon e Ulrich Schnauss.

Tra suoni soffici e ritimi frammentati, tra accenti nordici e coinvolgenti crecendo di chitarre, tra divagazioni folktroniche e stratificazioni atmosferiche, Flared Up, lungi dal poter essere sospettato di costituire un mero riempitivo utile solo a tener vivo il nome della band, offre concreta e piacevole testimonianza della versatilità delle sue composizioni, rivelandone attraverso queste riletture le potenzialità già riscontrabili nei lavori precedenti e conferm, se ancora ve ne fosse bisogno, la credibilità artistica internazionale meritatamente acquisita dalla band genovese.

Pochi mesi più tardi, a chiudere un anno denso di attività, ancorché privo di nuovi full lenght, esce in edizione limitata a cinquecento copie uno split con il giovane artista greco George Mastrokostas, aka Absent Without Leave. Intitolato Magnitogorsk, comprende otto tracce, equamente ripartite in tre tracce inedite e un remix reciproco a testa.

I tre brani inediti della band genovese riportano date che vanno del 2003 al 2008 e sono, in effetti, inediti solo fino a un certo punto, almeno avuto riguardo ai quasi nove minuti dell'iniziale "Ernst Bloch", che richiamano Flares e – non a caso – il brano "Karola Bloch", del quale questo sembra costituire l'altra faccia della medaglia, più asciutta e maschile, ma pur sempre costellata da sonorità dense e rilucenti, nonché da field recordings vocali, la cui identità rispetto al brano compreso nell'album di debutto stabilisce con evidenza il legame. Benché anche qui non manchino incursioni ritmiche prossime allo stile di "Afraid To Dance", le atmosfere risultano più dilatate e notturne, contemplando la deriva quasi ambientale di “Severnaya” e gli inserti di strumentazione reale di “Agent 008 Codename Littlehorses (Aka The Lazybones)”, che inizia con un ottimo pianoforte (elemento indubbiamente suscettibile di ulteriore valorizzazione) per poi presentare un improvviso irrompere di chitarra. Analogamente denso e lavorato risulta il rimaneggiamento in una cupa chiave metropolitana di "Zobione Pt. 2".

Classica "uscita minore", Magnitogorsk conferma la passione riposta dai Port-Royal nell'esplorazione di nuovi territori e collaborazioni basate sulla sola comunanza di sensibilità e del tutto incuranti di ogni logica commerciale, come dimostra la scelta dell'edizione limitata e della piccola etichetta greca Sound In Silence.

Scritto nel corso di ben tre anni, il successivo album Dying In Time incarna un graduale mutamento di rotta, pur nel segno di una continuità sulla quale i Port-Royal lavorano di cesello, incardinando elementi nuovi sul loro consolidato tessuto sonoro e palesando suggestioni in precedenza ravvisabili soltanto tra le righe.
Da un lato, l'album esaudisce la facile aspettativa di ritmi più serrati, bassi profondi e linee ritmiche febbrili; dall'altro, la transizione verso una formula di elettronica diretta e (più o meno) ballabile è tutt'altro che scontata e anzi esplicitata solo in sporadiche occasioni, venendo piuttosto quasi sempre affiancata da una notevole varietà di soluzioni, che affondano le proprie radici in un fertile humus dalla ricca composizione di retaggi shoegaze e reminiscenze sintetiche, aggiornate e convogliate in un contesto in perenne trasformazione.

Non mancano episodi dall'incedere trascinante, ma anche in questi finiscono per affiorare dissolvenze e flutti liquidi che rimandano alle origini della band o, al limite, sviluppano una peculiare (deca-)dance, costruita su texture dilatate e percorsa da sciabordii, impennate sintetiche, ma anche riverberi, suoni analogici e calde pennellate organiche.
L'album sembra infatti qualcosa di molto simile al risultato di un gioco ad incastri tra questi elementi fondamentali, miscelati con sapienza tanto in funzione di smussamento della rinnovata enfasi ritmica quanto di vivificazione di placidi passaggi ambientali, talora segmentati, come nel caso di "Exhausted Muse/Europe", da improvvise incursioni di synth e tastiere pronunciate e luminescenti. Inoltre, l'inserimento in quasi tutti i brani di frammenti vocali eterei traccia corpose linee melodiche, che accentuano la fisionomia dreamy ma al tempo stesso estremamente densa di un lavoro di elettronica pulsante e vitalissima come raramente capita di ascoltare, tanto più da parte di una band dal retroterra eclettico come i Port-Royal.
E non è certo da tutti riuscire a tradurre, nel corso dello stesso album, evanescenze shoegaze al tempo dei laptop, mantenendo nel contempo intensi abbracci emotivi e recuperando con classe suoni sintetici filtrati attraverso esperienze quali quelle di Boards Of Canada e Autechre. Il tutto, ancora una volta, con una naturalezza tale da poter essere apprezzata anche da quanti non masticano abitualmente sonorità elettroniche più "spinte".

Dalle stesse session di Dying In Time provengono le quattro tracce racchiuse nell'Ep Afterglow e pubblicate l'anno successivo all'uscita dell'album su poche copie in solo vinile dall'etichetta canadese Sang D'Encre Fatory, facente capo a Pascal Asselin aka Millimetrik, al quale l'Ep è altresì accreditato.
Non si tratta però di semplici outtakes, poiché nel corso dei venti minuti dell'Ep l'integrazione (musicale e di immaginari, come testimoniano i titoli dei brani) tra i protagonisti del lavoro offre incursioni in sonorità profonde, declinate tanto nei loro profili più vivaci quanto soprattutto in quelli più liquidi e spettrali. Dalle modulazioni delineate dal protendersi e ritrarsi delle riconoscibili texture di matrice Port-Royal risultano composizioni non meno curate rispetto a quelle di "Dying In Time" ma tangibilmente più dense e tenebrose, dalle quale sembrerebbe profilarsi addirittura un'inversione di tendenza rispetto alle accentuazioni più schiettamente dance-oriented, evidenti negli ultimi due dischi ed enfatizzate nelle esibizioni dal vivo.
Se da un lato le morbide folate ambientali e gli accordi filtrati di "Frederic Back" possono trovare riscontri nella precedente produzione della band genovese, dall'altro le torbide atmosfere della prima parte di "Petržalka" e gli ombrosi abbandoni trance-delici di "Pink" lasciano affiorare affreschi di un'inquietudine quasi del tutto inedita, che pure rimanda alle più intricate radici rock/shoegaze della band genovese.

Per celebrare il decennio di attività, nel 2011 la band raccoglie in un'imponente doppio cd (trentatre brani, oltre due ore e mezza di musica) una copiosa fetta di materiale di difficile reperibilità, corredato da un paio di brani inediti.
2000-2010: The Golden Age Of Consumerism è equamente ripartito tra pezzi originali e remix. Si tratta tutt'altro che di materiale di risulta, quanto piuttosto di un compendio di tracce "disperse" tra Ep, collaborazioni e altre pubblicazioni limitate; in linea di massima, questa "produzione parallela" dei port-royal si atteggia come più rilassata e propensa a fascinazioni di carattere ambientale rispetto a quanto espresso in particolare negli ultimi due album.
In tal senso, si possono considerare come conferma i tre brani collocati in chiusura del primo cd, che testimoniano i più recenti dispacci in forma di musica provenienti dalla galassia port-royal. Si tratta dell'eterea "Hans Kelsen" (rilasciata nell'ambito di un'interessante compilation dedicata all'elettronica italiana dalla popolare netlabel Lost Children) e di due brani in precedenza inediti, ancorché strettamente legati alle session di Dying In Time, ovvero "Electric Tears (Nothing's Gonna Change)" e una versione "irrobustita" ed estesa fino a oltre undici minuti di quella "Günther Anders" regalata nell'estate dello scorso anno alla raccolta in free download OndaDrops Vol.2.
I ben diciotto rimaneggiamenti di brani altrui racchiusi nel secondo cd offrono invece una nutrita panoramica dell'"altra faccia della luna" della band genovese, quella che già da tempo si era affrancata dalla "paura di ballare", attraverso manipolazioni talvolta assai sfrontate e dense pulsazioni elettroniche. Tra i nomi i cui brani sono stati oggetto di rimaneggiamento, vanno citati i vari Ladytron, Felix Da Housecat e Illuminated Faces, ma anche Dag För Dag, D_rradio, Bitcrush, Absent Without Leave e Millimetrik, a testimonianza della stima e della considerazione conseguite "sul campo" dai port-royal, dall'Italia al Canada, dalla Russia alla Grecia.

Dopo sei anni di attesa, il 2015 vede la genesi del nuovo album, Where We Are Now.
“Death Of A Manifesto” è il pezzo pop che i port-royal non riescono a tessere, una becera dance da discoteca moldava che è una macchietta. Parte la successiva “Theodor W. Adorno” e l’intro pare un 
loop di “Palazzo d’inverno” di Crono, e torna a girare tutto a meraviglia: spingono l’acceleratore in modalità antemica con avvicinamento progressivo all’apice. Le loro solite scie di suono qui sono sparate ai quattro venti unitamente al climax post-rockiano, alla stasi della seconda metà, e alla reprise finale. 
Il problema sono forse, più che altre volte, i pezzi di raccordo. Il drone in odore di sacralità e Troum (“rovinato” dai carillon finale), l’innocuo e fiacco elettropop di “Alma M”, “Whispering In the Dark” e i suoi volteggi o la chiusura port-royal-prima-maniera di “Heinsenberg” (una “Jeka” trasfigurata dieci anni dopo) lasciano un po’ il tempo che trovano, non danno struttura né sensazione di peso specifico relativo. Si salva la grandeur trance di “Tallin”. 
Questo a sottolineare come i nuovi port-royal fatichino sulle brevi distanze o su tutto ciò che non abbia un taglio magniloquente, tuttavia il loro egregio lavoro su quelle lunghe ancora lo svolgono. La componente antemica gioca in questo senso un plus non irrilevante, e “The Last Big Impezzo” segna il passo come lo fu “Balding Generation”: inizio come una “Zobione”, con le chitarre effettate e l’evanescenza che si espande in tutto ciò che avete in vostra prossimità, il beat che entra secchissimo, e senza troppi preamboli parte la scalata in un turbinio allucinato di suoni che escono da ogni dove. Poi la stasi, poi nuovamente i muri digitali che paiono panzer. Stesso discorso - ma minor appeal - valga per "Karl Marx Song".
 

Questo nuovo lavoro dei port-royal pare uno di quei luna park dove passi una domenica di novembre. Col grigio e quel contorno di disagio bellissimo. Il dramma è che parte la cassa tamarra-bruttina. Hanno fatto un passo laterale e hanno fallato. I port-royal si sono spostati, laddove "Dying In Time" era la protesti electro-gaze del loro sound, ecco che Where Are You Now segna la loro deriva pop-elettronica. Il titolo dell'album pare quasi profetico di una domanda da porre a loro, dove siete port-royal? La giostra, insomma, rimane ferma e c'è ben poco di cui andare felici. 

Contributi di Alberto Asquini ("Where Are You Now")