Una lezione di storia. La tua vita-logìa che ti scorre di fronte agli occhi. Buona parte del canzoniere che è risuonato per decenni prima nei tuoi mangiadischi, poi nelle fonovaligie, hi-fi stereo e infine Spotify. Un eterno ragazzo che, con i suoi modi e i suoi tre compari, ha cambiato la storia dello scorso secolo. E, inevitabilmente, anche la tua. Tutto questo, e di più, nelle quasi tre ore in cui Paul McCartney, figurino sottile e così simply cool, finalmente i capelli grigi mostrati con orgoglio, canta suona e scherza attraversando con leggerezza i suoi ultimi 76 anni.
Non so, non sappiamo, se questo tour planetario sarà l'ultimo, per
Sir Paul. L'età è ormai quasi biblica, almeno per il rock, ma la vena creativa ancora scorre felicemente, il suo ultimo "
Egypt Station" uno dei migliori del suo secondo millennio. E sul palco, che nel suo
understatement non richiede le massacranti sette fatiche di
Springsteen, ma che non è mai una passeggiata - anche se l'apparato intorno a lui è sicuramente preciso come un orologio svizzero e il vivere sano è evidente - Paul si muove con una
nonchalance e una classe infinite.
La verità è che McCartney è uno dei pochi, pochissimi geni ancora in attività, e in questo mondo di
fake promises e poca profondità, tutto al presente e nessuna ambizione "storica", né di storicismo, ogni tanto è necessario mettere in prospettiva le cose e le persone, nutrirsi d'arte, abbeverarsi alla fonte di eterna giovinezza della fantasia. A Paul queste cose non serve sottolinearle né celebrarle, lui è un
natural, ne è l'impersonificazione. Ma i 15mila presenti nella Royal Danske Arena, Copenhagen, età
over 50 ma tantissimi ragazzi ad abbassarla, lo sanno, e l'atmosfera è rispettosa ed entusiasta allo stesso tempo.
Preceduto da un
dj vintage che suona
Beatles per mezz'ora, alle 20 ti aspetti l'inizio ma - come se i ripassi non bastassero mai - con un gioco grafico di un palazzo che sale sempre più su, partendo dalla casa natale di Paul affacciato bambino in fotomontaggio, si ripercorre la
Maccalife tutta daccapo. Colonna sonora che parte con una "Besame Mucho"
teenageriale e via via mentre scorrono canzoni "minori", arrivano
John,
George e infine
Ringo, e mentre le case di Liverpool diventano i palazzi di Londra, e poi le architetture del Mondo Nuovo, i ruggenti anni 60 diventano i "familiari" anni 70, Linda e bimbi, e i Wings, e gli anni solisti, con tutti i loro riferimenti temporali e personali.
Quaranta minuti dopo, sul crescendo finale di "The End", che per Paul è veramente "il"
bookend, compare nei
ledwall gigantesco il basso Hofner, il suo basso, strumento iconico del
beat che non ha mai più lasciato. Ok, ci siamo: sugli applausi arriva con questa piccola grandissima band (due chitarre/cori, Brian Ray e Rusty Anderson, batteria/cori e tastiere, Abe Laboriel Jr. e Wix, più trio di fiati su alcuni brani) che lo accompagna da vent'anni e ha il magnifico dono di suonare "come" i Beatles (stessi arrangiamenti) ma in fondo "meglio" dei Beatles stessi: 50 anni dopo, il digitale permette "quegli" effetti sonori irripetibili dal vivo, e da "Eleanor Rigby" a "Being For The Benefit of Mr. Kite" tutto è possibile. Ricordo quella sensazione di
deja-vu/hi-tech in una notte incantata di mezza estate 2003 sullo sfondo del Colosseo. Paul era tornato a suonare "tutti i Beatles", e quel monumento di classicità romana era un confronto, un
reminder, un'alchimia di difficile ripetizione. I due poli dell'Impero, quello antico e quello pop che si toccavano.
Magic moments.
La pennata iniziale di "A Hard Day's Night" apre una mega-scaletta di 38 (trentotto!) pezzi, e da quel momento l'intreccio di Beatles, Wings e album solisti, nuovo incluso, è continuo, mentre dietro scorrono immagini - spesso rare, sempre evocative - montate con gusto e cura. "All My Loving" è un altro tuffo indietro, le fughe dalle fan impazzite nella
musical-comedy in
b/n di Richard Lester, "A Hard Day's Night", a ricordarci che il fenomeno nel '64 era esploso, la
Beatle-mania stava conquistando Londra e l'Inghilterra e presto l'America, e il meglio doveva ancora venire.
E qui, ho un primo strano
flash: guardo Paul, il vecchio Paul con dietro il giovane Paul con gli altri tre, e mi appaiono tutti i Beatles, ancora capelloni, sopravvissuti e sornioni, come gli amici
Stones, tutti ancora in pista, fanculo il
britpop.
Wow. È un attimo, abbastanza da pensare a quanto sarebbe stato tutto diverso: la musica loro e la nostra e tutta la musica in generale. La mitologia
Fab Four che il tempo ha creato e conservato. E questa stessa serata. Chissà se un giorno la tecnologia ci darà anche questa pillola blu acida da Alice nel Paese delle Meraviglie. Ma è veramente un attimo, stai lì a venti metri da Paul che si sfila il giubbotto nero ("questo sarà l'unico cambio scena dello spettacolo", ironizza) a fianco di Alessandro, il primogenito che ha probabilmente ascoltato più Beatles di te nei suoi 23, e che conosce un bel po' di anedottica: tu ti affidi a "Revolution In The Mind" di
Ian McDonald, ogni singolo brano raccontato nel dettaglio, e lui: "Guarda che Paul ha detto che un bel po' se le è inventate". Vai a sapere. Ale è come se fosse di fronte a Gesù. Beh, Dio, avrebbe detto John. Immagino che un po' di volte anch'io abbia avuto la sua faccia. La mia invece è un sorriso da Gatto Cheshire, appunto, 165" di una sorta di paresi facciale che mi accompagnerà fino all'epilogo.
Mi ha preso così, mi piace un sacco ma il brividone non è ancora arrivato. Ci sono
jam bluesistiche, la nuova "Who Cares", "I've Got A Feeling" e "Let Me Roll It", la citazione di "Foxy Lady" di
Hendrix, che quella notte di luglio del '67 aveva suonato allo Speakeasy la
title track di "
Sgt Pepper's" - non ancora uscito - di fronte al
music set di Londra, loro e
Clapton inclusi ("Eric, mi accordi la chitarra?"). C'è il pop dei Wings, e la dedica alla terza moglie Nancy su "My Valentine", con dietro il video di Natalie Portman e Johnny Depp che mimano le parole nel linguaggio dei segni. Amore al di là delle lingue per il Paul
crooner, una sorta di passione recente, un altro dei punti da connettere in una mappa che nel tempo ha abbracciato tutto quello che il suo poliedrico talento ha saputo toccare: dal
r'n'r all'Oratorio, dal pop al jazz, dall'elettronica sperimentale alla Pop Art.
"Maybe I'm Amazed" è sempre un approdo sicuro: l'inquadratura del Paul di oggi ai due lati e al centro quella foto con barba di Linda, rustico nel suo montone ad avvolgere Mary appena nata, è pura tenerezza visiva. Ora Paul è nonno, la saga dei McCartney - la figlia Stella stilista di tendenza in quel campo della moda che papà aveva lanciato con la Swingin' London - è una favola moderna, tragedie incluse. Grandi amori, qui era per Linda, grande canzone.
Ci vorrebbe un po' di potenza in più, controllo dei semitoni, ci vorrebbero forse anche corde giovani a sorreggere canzoni che non eran facili da cantare neanche allora. La voce di Paul, un miracolo 60ennale di bellezza rifrangente, capace di svariare timbro da Little Richard a Buddy Holly, non è eterna. Non lo siamo noi, non lo è lui. Qui di eterno c'è solo quello che ha creato. Per me basta. Il rispetto per la vita che passa, che deve passare, è dovuto. Col cuore (e poi certe mancanze lì non si percepivano, sentire i
clip a casa è un'altra storia). E comunque, le canzoni mica sono dilaniate in un grugnito incomprensibile, Paul ci tiene, è uno che il suo pubblico lo ama. Si amano, sempre stato così. Mai stato recluso, mai se l'è tirata, e Dio solo sa quanto ne avrebbe avuto la possibilità.
È un intrattenitore consumato, avesse le pantofole sarebbe in salotto, il suo fare a mossette, gesti, facce ammiccanti, le battute di cui dissemina il percorso sono sempre giuste, ironiche, mai sopra le righe, solo
humour. Come quando racconta della prima incisione dei Beatles, senza Ringo e con Colin più Duff al piano. "Incidere il disco costava cinque sterline, ognuno ne ha messa una, e ce lo siamo tenuto una settimana a testa a casa. Tutti, tranne Duff, se l'è tenuto per vent'anni... e me l'ha rivenduto, con tangibile guadagno". Su questo aneddoto del
prequel, lo spettacolo ha un giro di boa, ricomincia: "In Spite Of All The Danger", una ballata country in stile
Elvis scritta nel '58 con George, i cinque in modalità
unplugged, apre a un po' di
stop-and-go e cori con il pubblico, e di colpo si apre una finestra sul mondo che nasceva: "From Me To You", la facciata A che
George Martin non voleva, salvo poi salvarla dicendo loro di velocizzarla. "Love Me Do",
moolto più gonfia dell'originale. Poi, arriva "Blackbird".
Nel pomeriggio abbiamo viaggiato fino al Museo Louisiana affacciato sul Mare del Nord (con splendida mostra sulla Luna, dal primo film dei fratelli Lumiere alle performance
hi-tech di
Laurie Anderson, illustrazioni antiche e immagini pazzesche della Nasa, la tuta di Aldrin e le foto della prima impronta) ascoltando tutti gli Esher Demos, finalmente pubblicati nei cofanetti celebrativi del 50ennale del "
White Album". Il leggendario materiale scritto da John e Paul e George nell'
ashram del Maharishi e inciso a casa di George nell'Essex, forse l'ultimo momento di vera unione. Dall'India avevano scritto a Ringo, che aveva levato le tende per primo: "Scalda le pelli dei tamburi, abbiamo materiale per un doppio". E così era stato, bei tempi che tempi un doppio dei Beatles. Quella manciata di brani dal sapore cantautorale che hai ben stratificati nella memoria, risentiti - ancora più essenziali - rimarcano le dimensioni di un talento in piena esplosione. Incontenibile. Da quello scrigno di tesori Paul ne suonerà quattro: "Ob-la-di-Ob-la-da", "Back in the USSR" e "Helter Skelter" arriveranno alla fine. L'altra arriva adesso, per il momento più emotivo della serata (ancora non lo sai ma non può essere che così).
Paul con l'acustica viene molto più vicino, su un frontale elettronico che lentamente si alza. "In Inghilterra alle news sentivamo delle lotte per i
Civil Rights negli Stati Uniti. E abbiamo voluto mandare un messaggio a quella gente in Arkansas, a Little Rock, che stavano vivendo la loro battaglia". Mentre il palco lentamente si eleva, l'arpeggio di "Blackbird" riempie la sala, un grande coro a sostenere la fragilità di quel simbolico "uccello nero che canta nella notte/ prendi le tue ali rotte e impara a volare/ tutta la tua vita hai solo aspettato che questo momento arrivasse.... Hai aspettato solo questo momento per poter essere libero". Come se non bastasse, Paul accetta a pollici alzati tutto il lungo, commosso applauso, e mentre compare una foto della terra, tocca la corda più profonda. Il nervo che più a lungo è stato scoperto.
Quanto si sono amati e poi odiati quei due? Ricordate il crescendo? I primi dissidi interni nel gruppo, il 3 contro 1 nell'affidarsi al rapace Allan Klein come manager (l'unico che ha fregato la
royalty inglese, sia Beatles che
Stones). E poi i comunicati, le frecciate, i muri contro muro, la rottura, le cause legali, le due vite ormai lontane al virare dei 70: John a fare la
Primal Therapy e il rivoluzionario con
Yoko in America, Paul a vivere in una fattoria in Scozia, fra montoni e focolare, con la sua prima famigliola. "How do you sleep"? "Silly love songs"? E Yoko, tutte le storie sul suo potere, sulla volontà di separarli. In fondo, gli Esher Tapes erano proprio l'inizio della fine, Paul e John non si sarebbero più guardati
eyeballs into eyeballs, ognuno a dare una mano all'altro nello scrivere capolavori. In studio ormai erano in cinque, e fa bene Paul oggi a dire "John era innamorato di Yoko, e io lo rispettavo". Sì, oggi. "...anche se la situazione in sala era effettivamente strana". Ecco, meglio.
Ma due anni dopo la morte del "nemico fraterno", Paul aveva scritto "Here Today", e la presenta dicendo come spesso si rimandi una cosa da dire a una persona che ami, e a volte diventi troppo tardi: "...Se tu fossi qui oggi... per quanto mi riguarda io mi ricordo com'è stato prima, e non trattengo più le lacrime... I love you...". Dopo aver chiamato una lunga ondata di applausi per John, Paul la canta, e la voce che si incrina forse non è colpa del falsetto.
Poi è solo apologia
beatlesiana: "Lady Madonna" fra
vaudeville e r'n'b con assolo di sax, e una "Eleanor Rigby" di voci, acustica e tastiera digitale a ricreare un'intera orchestra con coro. "Mr. Kite" è un'esplosione di psichedelia e vecchia Inghilterra, un altro coloratissimo omaggio a John. Sarà l'unico brano del Sergente Pepper, "Reprise" a parte. Poi arriva quello a George, "che suonava benissimo l'ukulele, lo sapete?", e stompeggiando sulle corde della chitarrina canticchia "Something in the way she moves..." che poi si apre in quel memorabile assolo di chitarra e un finale maestoso, col volto di George da ragazzino, da superstar, infine negli anni 90, segnato dall'avanzare dell'età e della malattia, mentre il cuore si rompe in mille pezzi.
Siamo in pieno Beatles-territorio,
Pepperland al suo più classico
status mischiato con il post, tipo il Wings-5 stelle di "Band On The Run". Poi arriva il delizioso
twist'n'roll di "Back in the USSR", e Paul lo introduce raccontando di quando finalmente c'è arrivato, nella Piazza Rossa, ormai da solo. "C'era tutta la nomenclatura: il ministro della Difesa, doveva essere un pezzo grosso, mi dice 'ho imparato l'inglese ascoltando i dischi dei Beatles'. E alla fine, mi stringe la mano e mi dice '
Hello Goodbye!'... Accidenti, c'era quasi arrivato, gli mancava tanto così...!".
È una
gag, ma ti fa pensare che dietro a molti di questi brani c'è un mondo intero. Non solo nella loro creazione e nel loro significato, ma soprattutto nelle ricadute che hanno avuto a livello planetario, come ben sanno i due giapponesi, marito e moglie, che seguono tutto il tour dalla prima fila, bandierine e vestiti
jap-pop e bandana del Sol Levante a ricordarlo, e che Paul omaggia - in giapponese of course. Perché l'onda dei Beatles ha investito i cinque continenti, nessuno ne è rimasto immune, grandi e piccini, democrazie e dittature, in Russia i dischi-pirata giravano persino stampati sulle lastre a raggi-x. Il primo Corso d'Inglese in commercio nella Russia comunista!
Quell'ottimismo, quel senso di una nuova generazione che andava al potere ha cambiato la Storia per sempre. Sarebbe successo anche senza di loro, senza il loro
r'n'r e la loro sfacciataggine perbene, senza quel senso di possibilità senza limiti se non la fantasia stessa che esplodeva in ogni nuovo album? Anche su "Blackbird": Paul ha raccontato solo una parte della storia, perché quando in tour nel '65 si erano rifiutati di suonare in un teatro segregato, bianchi qua neri di là, avevano infranto per la prima volta una barriera invalicata, nel Sud degli Usa. Apripista anche in questo. I Beatles non sono stati solo un gruppo, ma un pensiero liberatorio che è circolato per tutto il pianeta, una missione da super-Eroi che ha simboleggiato il passaggio dal bianco e nero al colore, dal presente al futuro, dall'ordinarietà alla straordinarietà, in tutti i sensi.
Ma non solo, anche canzone d'autore ai massimi livelli: subito dopo, arriva la ballata toccante in cui vede in sogno la madre scomparsa così presto che nel pieno della faida
beatlesiana gli sussurra "words of wisdom", "
Let It Be, lascia che sia...". È un'intimità delicata e preziosa che John e Phil Spector, la notte prima della consegna del nastro, con puttanata suprema gli avevano gonfiato, esagerati, di orchestra, spogliandola della sua interiorità, che qui torna alla sua originale natura. "Live And Let Die" è l'opposto, cinema e
scope, colonne sonore ipertrofiche, fuochi d'artificio giganteschi (veri) moltiplicati (dagli schermi) ad accecare e tramortire.
Poi, il finalone, una "Hey Jude" senza fine, un coro che cantano anche le poltroncine, il nostro sorriso estatico inquadrato come fondale elettronico-umano in mezzo a mille altri sorrisoni. Il
bissone è annunciato dallo sventolìo della bandiera danese in mano al capobanda, quella inglese e l'universale "della pace" da parte degli altri, ed è divertimento puro ("I Saw Her Standing There"), psichedelia ("Sgt. Pepper's Reprise", con straordinaria animazione della copertina), delirio
proto-metal ("Helter Skelter") e il finale. "IL" Finale, intendo, quel trittico di "
Abbey Road" ("Golden Slumbers"/"Carry That Weight"/"The End") che si chiude con la frase che riassume il tutto. "In the end, the love you take/ is equal to the love you make".
Oltre il genio, la Storia, la globalizzazione, il mito e quelle meraviglie sonore, oltre tutto, alla fine, "l'amore che ricevi è pari a quello che dai".
Thanx, Paul.
Forever.