MASSIMO DELLANILLA - Aqua (2017, autoproduzione)
songwriter
Il disco d'esordio del bresciano Massimo Gabanetti, in arte Massimo Dellanilla, possiede tutto il fascino e la sensibilità del cantautorato dei tempi antichi. In "Aqua" - scritto alla latina - sono infatti presenti dieci canzoni molto distanti dal panorama indie attuale, ma viceversa più vicine alla storica scuola cantautorale italiana. Massimo Dellanilla si presenta così senza sovrastrutture, con chitarra, voce e testi di spessore, che invitano l'ascoltatore a riflettere sulle cose semplici della vita. Sembrano quasi dei piccoli dipinti impressionisti in chiave acustica, che raffigurano scene quotidiane che passano quasi inosservate: se in "I vecchi" i protagonisti sono gli anziani che "continuano a giocare a carte indifferenti", "L'occasione persa" è invece popolata dalle "voci giocose dei bimbi felici/ confuse dal fischio del vento". Un disco affascinante, in bilico tra la nostalgia di una generazione passata e l'amara consapevolezza che è necessario andare avanti (
Valeria Ferro 7/10)
ROMOLO - Bunker Records (2017, autoproduzione)
fusion, psych rock
Registrato a Pozzuoli presso lo studio "Il Bunker", con missaggio e mastering di Claudio Auletta Gambilongo, "Bunker Records" è il primo Ep del musicista e producer napoletano Giulio Romolo. E' un incrocio tra la fusion più energica e un'elettronica
bristoliana, dai contorni cinematografici (l'introduttiva "Celle25", l'esotica "Sole di Marzo", il vortice magnetico e
morriconiano della conclusiva "D10s" omaggiante Maradona) a prendere quota in questo succulento lavoro, nel quale il giovane compositore e poliedrico strumentista (bassi, synth e chitarre sono live) si dimena alla grande, portando a compimento qualcosa di unico. Nel disco, c'è spazio anche per la digressione
krauta e tremendamente funky, con i divini
Can nel mirino, della magnifica "Sole d'aprile". Un piccolo trip con tanto di cambio di ritmo tribale a metà strada che spiazza e mostra un'assoluta intraprendenza, e un'elevata cura per le parti armoniche dall'andazzo sciamanico. A conti fatti, questa prima uscita del talentino partenopeo è un eccellente squillo e porta alla luce un musicista dalle grosse potenzialità. Romolo mette sul piatto la notevole capacità di organizzare il proprio sound in maniera versatile ed efficace. Segnare sul proprio taccuino il nome di questa giovane promessa è il minimo che si possa fare (
Giuliano Delli Paoli 7/10)
MATTEO FIORINO - Fosforo (2018, Phonarchia)
songwriter
Spezzino, Matteo Fiorino debutta con il casalingo Ep "L'esca per le acciughe" (2011); il seguito lungo "Il masochismo provoca dipendenza" (2015) mostra già il suo interesse per la varietà stilistica e arrangiamenti dotati di vita propria. E questa è la vena del secondo "Fosforo". La produzione di Nicola Baronti lo rende un'esperienza che stordisce udito e coscienza. Proprio la traccia eponima è la trovata più schizofrenica: un'introduzione a cappella del solo Fiorino, melodioso come uno jodel altoatesino sperso tra la folla della metropoli anziché in mezzo ai monti, e una conclusione di scatenata danza sudamericana, sferzata da violino e tromba e caricata d'elettronica. Ogni canzone è una piccola apoteosi di suoni eterogenei, dal blues elettronico di "Gengis Khan", al battito guerrigliero di "Madrigale", stemperato da vaudeville, fratture e cambi di tempo alla Zappa, al refrain trascendentale di "Darmo" sciolto in battito contagioso, fino al techno-pop lanciato a velocità boogie di "Canzone senza cuore". Senza tralasciare i momenti più vicini al suo passato, "Un cubo" (mandato in gloria da fanfare e vagiti gospel) e "Calcide" (impreziosito da tocchi da camera). Un infrequente caso di arrangiamento al contempo abbondante e tenuto sotto controllo, e anzi sfruttato in splendide evoluzioni che mischiano commedia e dramma, stornelli veraci e canzone sofisticata, un insolito caso d'ispirazioni più che palesi nella voce (
Dalla,
Battisti), al limite dell'imitazione spudorata, portate con vibrante snellezza, del tutto connaturate al sound. Superiore a
Brunori per più di qualche motivo. Interpretato bene da tutti: anzitutto Lidio "
Shiva Bakta" Chiericoni, concittadino di Fiorino, e Matteo "Tegu" Sideri, e poi le comparse di
Iosonouncane,
Etruschi From Lakota,
Ottone Pesante, Calvino (
Michele Saran 7/10)
EDOARDO CHIESA - Le Nuvole Si Spostano Comunque (2018, Dreamingorilla Records/L'Alienogatto)
songwriter
Secondo album per questo cantautore di Savona, il cui suono è quello del classico trio con chitarra acustica, basso e batteria. Melodie di facile ascolto, timbro vocale caldo e gentilmente ruvido, testi che analizzano la realtà attorno a sé per aiutarsi nell'introspezione, sound in equilibrio tra morbidezza e vitalità, grazie al bilanciamento tra carezze, polverosità e un'attitudine a suo modo sfrontata. Chiesa non ricerca la pulizia a tutti i costi, anzi, quella tout court sembra proprio non interessargli, non ha paura di aprire l'ugola e di maneggiare le corde della chitarra con fermezza, ma lo fa tenendo sempre sotto controllo scorrevolezza e immediatezza complessive. L'ispirazione melodica è buona e costante, i testi sono ben scritti e intriganti, piace la capacità di suonare genuini in ogni aspetto senza comunque lasciar mai nulla al caso (
Stefano Bartolotta 7/10)
MARYGOLD - One Light Year (2017, Andromeda Relix)
neo-progressive
Gli scaligeri Marygold, nati dalle ceneri di una cover-band dei Marillion, esordiscono nel 2005 con "The Guns Of Marygold", anche se il battesimo di fuoco arriverà due anni dopo quando vengono chiamati ad aprire ai Balletto di Bronzo per il "Verona ProgFest". Dopo un lungo periodo di riflessone durato dieci anni, il quintetto dei Marygold - Guido Cavalleri (voce e flauto), Massimo Basaglia (chitarra), Stefano Bigarelli (tastiere), Marco Adami (basso), Marco Pasquetto (batteria) - ritorna con un disco targato Andromeda Relix e con l'ottima produzione di Fabio Serra. Il risultato finale è un neo-progressive con forti rimandi classici (i Genesis in primis), in cui è encomiabile l'affiatamento tra i vari strumenti, seppur le tastiere si trovino sempre in primo piano. "Lord Of Time" rimane probabilmente il miglior esempio dell'abilità e della versatilità dei musicisti, capaci di combinare orecchiabilità e virtuosismo (
Valeria Ferro 7/10)
DUNK - Dunk (2018, Woodworm)
alt-rock, songwriter
La storia dei Dunk ha inizio in provincia, fra Bergamo e Brescia, qualche anno fa, quando Luca Ferrari (fratello di Alberto e batterista dei
Verdena) incontra Marco Giuradei, tastiere e synth nel progetto che da anni porta il suo cognome. L'altro Giuradei,
Ettore, che si occupa di voce e chitarre, nel frattempo scrive le tracce che avrebbero dato corpo a questo omonimo esordio. Eseguite le prime prove in saletta, i tre percepiscono come l'esperimento non fosse ancora completo, privo di qualche ingrediente necessario. A completare il tutto ecco allora la chitarra di Carmelo Pipitone dei
Marta sui Tubi. Fra qualche momento acustico ("Intro") e molte tracce elettricamente briose ("Avevo voglia", "E' altro", "Amore un'altra", "Noi non siamo"), si raggiunge l'eccellenza almeno in corrispondenza di "Mila", che parte tenera per schiudersi su un finale a due passi dallo
shoegaze, e nelle code strumentali che rendono epici i due atti di "Ballata". A tratti emerge una certa similitudine con il songwriting dei Verdena, ma "Dunk", pur con qualche battuta a vuoto, si impone come lavoro decisamente personale. Con tali risultati, dubitiamo possa trattarsi di un mero
divertissement occasionale (
Claudio Lancia 6,5/10)
ROBERTO VENTIMIGLIA - Bees Make Love To Flowers (2018, autoprodotto)
acoustic songwriter
Intimista, crepuscolare, malinconico, misurato: questi i primi aggettivi che vengono in mente ascoltando la deliziosa opera prima di Roberto Ventimiglia, musicista di area romana con un trascorso in grado di unire studi classici (è diplomato in Composizione al Conservatorio) e innato gusto per la sperimentazione (oltre ad adorare - e praticare - suoni rock, non privi di derive
noise, è stato parte integrante dell'esperienza
Desert Motel). Per dare il via all'avventura solista, ha scelto di rivestire le prime sei tracce da lui prodotte soltanto con una chitarra acustica e con poche note di pianoforte, e il risultato finale non lo pone a troppa distanza dalle migliori proposte internazionali di settore, da qualche parte fra lo
Springsteen di "Nebraska" e il primo
Elliott Smith. Basti l'ascolto di "May", la seconda traccia di "Bees Make Love To Flowers", per scoprire il fragile ma al contempo solidissimo mondo di Roberto, un cantautore pronto, già maturo, che se in futuro saprà modellare la propria scrittura in una forma di moderno
songwriting, regalerà al mondo non poche perle. Nel frattempo anche questo inverno terminerà, e le api torneranno a rincorrersi di fiore in fiore... (
Claudio Lancia 6,5/10)
BARACK - Lose The Map Find Your Soul (2017, Prismopaco)
songwriter
Messo a segno un primo Ep ("Journey I Never Made", 2011), il cantautore e chitarrista Lorenzo "Barack" Clerici prosegue approntando il debutto su lunga distanza "Lose The Map Find Your Soul", sempre all'insegna d'uno spiccato impressionismo. In "Lines" la progressione e il fulgore epico sono, infatti, quasi degni di
Kozelek; "Victory" è in pratica una "For Emily" di
Simon & Garfunkel suonata a metà velocità; la campagnola "Mistake" si rifà quasi esplicitamente a Elliott Smith; una semplice cantata a due come "Follow Me" aspira a diventare coro melanconico angelico. Il medesimo sentimento, soltanto appena meno sbandierato, trapela anche dalla vestina elettrificata, "Breathe". Vi è un piccolo fronte di esperimenti: poco convinto, e poco convincente, è "Fooled", staffetta tra declamato da
chansonnier e lamentazione in falsetto alla
Bon Iver, nel tentativo di mischiare vaudeville a pompa marziale. Fa meglio il minuetto elettronico Cohen-iano della canzone eponima, cantato dietro filtri deformanti. Forte è la derivazione, ma maneggiata con fare risoluto, a tratti anche interiorizzata, di certo sublimata da arrangiamenti meditati (poca batteria e diversi tocchi d'atmosfera), a cura dell'autore a sei mani con i due fondatori dei
MasCara, Lucantonio Fusaro e Claudio Piperissa. Per avere origini metà francesi (e metà varesotte) il canto sta quasi sempre in un sicuro inglese. Nonostante la sua naturale pacatezza, va ascoltato a tutto volume (
Michele Saran 6/10)
CINQUE UOMINI SULLA CASSA DEL MORTO - Blu (2017, autoproduzione)
alt-folk
Indole da musicisti di strada, non per niente forgiati tra le altre cose anche dalle partecipazioni al Buskers di Ferrara e al Folkest, i Cinque Uomini Sulla Cassa Del Morto, appunto un quintetto (entroterra udinese), si dotano infine di un carnet di canzoni fissato su disco, "Blu". L'ispirazione ibrida prima di tutto Fleet Foxes e tinture appalachiane, giustamente mantenute acustiche, e solo in minima parte il folk "rebelde" italico, anche se l'ascolto manca spesso di tatto, fin troppo spavaldamente sopra le righe, per i toni rialzati della produzione (un apparato ritmico rimbombante e un fiddle mortificato che entra quasi sempre in maniera meccanica, prevedibile) e per l'estetica espressa nelle liriche, sempre rigorose in quella tradizione che fa man bassa di ottimismo e facile
joie de vivre. Ma i ragazzi sono parecchio competenti e pure mediamente fantasiosi. Convincono sulle armonie vocali, davvero un portento, in generale per la passione nell'interpretazione canora, e senz'altro per i trucchi che rifiniscono il concept (una giornata, dal levar del sole al tramonto), cioè un buon uso di qualche
field recording, a fungere da scenografia e in qualche caso da olografia. Momenti migliori: "Binari", strutturata e movimentata in sezioni (rap a mo' di motto ubriaco e ska degno dei Pitura Freska), lo spumeggiante ballo sudista di "La danza della luna", e una "Intro" d'aurora, ricollegata ed espansa nella mini-operetta progressiva di chiusa, una saga pensata come trilogia ma misteriosamente monca del primo capitolo, "Il piccolo aeroplanino blu". Già uscito ad aprile in
ghost release (
Michele Saran 6/10)
LORENZO MASOTTO - White Materials (2017, autoproduzione)
new age
Terzo disco in un anno, per
Lorenzo Masotto, successore di "Aeolian Process" ma soprattutto erede ed evoluzione dello spirito casalingo che pervadeva l'Ep "Mountain Paths". In "White Materials" il pianista veronese rinnega l'equilibrismo in chiaroscuro di "Aeolian" e ritorna a testa bassa sulle orchestrazioni eterogenee che poi distribuisce con fare poco chiaro: tra le altre, né lo swing con voce di sirena di "Window", né il trambusto di "Doors" (una confusione di musique concrete, sonata di piano e virtuosismi espressionisti di violino), né la piatterella sonata piano-violino di "Trees", né la sonnolenta andatura caraibica di "Like A Jackson Pollock Painting" (davvero senza alcunché di Jackson Pollock), funzionano così bene. Una ricetta appena più originale appare in "Return", con un grattar di corde d'arco su percussioni grezze, e un equilibrio più riuscito sorregge le voci angeliche e minimaliste riverberate elettronicamente di "Frattali". Affare del tutto famigliare: la moglie Stefania Avolio al canto, la sorella Laura al violino (eccellente!), l'amico Matteo Bogoni all'elettronica, non ultima una batteria, l'elemento (post-)rock che lo riavvicina alle sue
Maschere Di Clara. Il problema è che si va in accumulo anziché in sintesi (l'eccezione che conferma la regola è "Fragile") ottenendo senz'altro un po' di dinamica, tutta salute per la sua estetica, smarrendo però il filo della profondità lirica, finanche rischiando la routine. Tutto autoprodotto: scelta encomiabile, meno al lato pratico. Copertina con una porcellana del cinese Johnson Tsang (
Michele Saran 5,5/10)