Potrà anche sembrare uno scontato gioco linguistico parlare di trasformazioni di una forma musicale - nella fattispecie quella del post-rock più dilatato ed emotivo - a proposito di una band che si presenta sotto il nome kafkiano di Gregor Samsa, ma in fondo poche altre espressioni riescono a inquadrare meglio la poliedrica opera di questo quartetto originario di Richmond, Virginia, che dopo due Ep e qualche collaborazione (da ultimo, lo split dello scorso anno con i Red Sparrowes), si cimenta per la prima volta in un lavoro sulla lunga durata, avente per titolo soltanto due cifre: "55:12". In esso, la band, già segnalatasi per la grande capacità di rideclinare in maniera obliqua e passionale le talvolta inafferrabili astrazioni "post", fornisce una splendida conferma del proprio talento, combinando le sue originarie caratteristiche con stili diversi, ma non in fondo così lontani, in un ampio spettro musicale che tende a coniugare i Mogwai più dilatati con elementi del suono 4AD e Creation dei primi anni 90.
Il lavoro si presenta da subito con le caliginose e contorte trame di "Makeshift Shelters", la cui dilatata immobilità è contrappuntata dal soffice intreccio delle voci di Champ Bennett e Nikki King, che lasciano poi il campo a frequenze lontane e quasi impercettibili. Una distante e opaca prospettiva segna anche l'
incipit di "Even Numbers", nella quale si intravede però un accenno di ritmo, un suono più denso e concreto, facilmente interpretabile come il preludio a un'impennata in classico stile post-rock emotivo, che infatti non si fa attendere più di tanto, nell'arco dei dieci minuti di durata della traccia; ma proprio quando si ha l'impressione che il brano stia per snodarsi secondo un canovaccio ormai ben noto, i ritmi rallentano all'improvviso, lasciando ancora spazio al dialogo tra le voci, sospeso su atmosfere minimali e inafferrabili, prima dell'ulteriore apertura chitarristico-orchestrale, concentrata nei soli novanta secondi finali.
A questo punto, si potrebbe pure pensare che in fondo la cifra stilistica di questo "55:12" sia rappresentata esclusivamente dalla trasposizione, in chiave più melodica, fruibile e almeno un po' prossima alla forma canzone, delle cavalcate di
Godspeed You! Black Emperor e seguaci; invece, lo sghembo pianoforte che introduce la splendida "What I Can Manage" riporta il suono sui delicati terreni di soffuso ed etereo romanticismo sui quali si stabilizzerà la restante parte del lavoro, alternando magistralmente curatissimi passaggi dalle ottime sembianze
slowcore e più complesse aperture armoniche, tali da riportare alla mente addirittura sensazioni
shoegaze e sottilmente psichedeliche, il tutto impreziosito da un tocco lieve e raffinato, capace di depotenziare, riducendole al minimo, ruvidezze ormai troppo scontate.
Dopo il breve interludio strumentale "Loud And Clear", "These Points Bilance" dilata poi all'estremo la delicata lentezza delle composizioni in quella che, per struttura, potrebbe essere un'angelica ballata degna dei
Mojave 3, qui trasposta secondo cadenze
codeiniche e con un approccio che riporta alla mente i
Low più eterei. Qualche improvvisa asperità si riaffaccia in "Young And Old", brano che dapprima si avvolge su se stesso in un florilegio d'archi, culminante in un sofferto ma non durevole apice di chitarre impetuose, prima che l'intricata matassa del suo fluire scolori in una morbida coda orchestrale. Ma, dopo "We'll Lean That Way Forever" - altro breve raccordo atmosferico, caratterizzato da piccoli rumori sinistri e da una voce spezzata ed evocativa su ritagli sonori assemblati in reverse - la sublimazione del suono dei Gregor Samsa arriva con la conclusiva "Lessening", vero e proprio manifesto di un suono incantevole, che riempie di emozione le sospensioni temporali, talvolta anche piuttosto lunghe, tra una nota e l'altra, mentre ancora l'alternanza tra cantato maschile e femminile (entrambi sempre morbidi e sognanti) si staglia ora su un'irreale immobilità di fondo, ora su catartici passaggi orchestrali, ora anche su impeti appena repressi da una malinconia latente ma sottile nel suo manifestarsi.
La matrice fondamentale della band resta pur sempre quella del post-rock romantico, come già dimostrato nelle sue precedenti produzioni, ma senza dubbio le suggestioni di questo "55:12" sono molteplici, dalla sfuggente vena shoegaze che affiora qua e là, alle contaminazioni slowcore e alle fluttuanti tracce psichedeliche che richiamano alla mente, tra le migliori e più fresche espressioni dei rispettivi generi, Mimi Secue e Timonium.
"55:12" risulta insomma un'opera affascinante, nella quale possono riscontrarsi tutti gli elementi strutturali, concettuali ed emotivi del toccante astrattismo del post-rock degli ultimi anni, gradevolmente ibridati secondo una delicata ed eterea sensibilità introspettiva, che senza pretese di assolutezza stilistica riesce ad abbracciare in maniera coerente intuizioni riconducibili a forme espressive tra loro anche molto diverse.
25/04/2006