New York City: se i Velvet Underground aprirono la strada al rumore (dis)organizzato, i Ramones codificarono una volta per tutte l'estetica punk, la new wave la ramificò abbondantemente, la no wave la sbrindellò ulteriormente e i Sonic Youth crearono il sound delle generazioni a venire, gli Unsane - band perfettamente inserita, quantomeno in maniera ideale, all'interno del contesto noise-rock metropolitano - raccolsero tutte le sperimentazioni attuate fino ad allora nella Grande Mela e le trasposero sistematicamente all'interno del formato "rock'n'roll" (più o meno) tradizionale. E innanzitutto, il loro modo di suonare risultava molto più vicino a quello delle band hardcore newyorchesi (o meglio, post-hardcore) che non a quelle di tendenza obliquamente arty o dedite a divagazioni rumoristiche baldanzose. La loro musica era comunque di natura implosiva, poiché nei riff, nelle esplosioni strumentali, negli sfregamenti chitarristici e nella percussività ossessiva e cataclismatica di quel marchio di fabbrica, l'istanza claustrofobica e auto-corrosiva si faceva continuamente strada lungo le canzoni, anche se più che di canzoni forse sarebbe meglio parlare di performance al limite della sopportazione.
Ma, tutto sommato, il loro campo d'azione preferito, le loro coordinate stilistiche privilegiate, erano tutte da ritrovare in quel Detroit-sound che s'incarnò perfettamente sul finire degli anni Sessanta nei classici Stooges e Mc5. Fu proprio da quel modo di suonare il rock che gli Unsane presero le mosse per meglio esprimere la propria visceralità, la rabbia insublimabile e il disagio antropologico, per poi trasfigurarlo tramite pennellate pollockiane di (r)umore nero e potenziarlo grazie alla virulenza dell'heavy metal.
L'intensità tragica raggiunta dalle dodici "mine" di cui è composta l'opera è di una bellezza incomparabile: perché di bellezza in effetti si tratta, soprattutto per quanto di stupefacente sia possibile ritrovare anche nel brutto, o di sgradevole e disturbante nella vita come nell'arte.
Si comincia subito nel "peggiore" dei modi (senza mezzi termini), e in un batter d'occhio "Organ donor" fa il proprio ingresso - d'assalto - privo di un qualsivoglia intro preparatorio, anche solo a voler predisporre in qualche modo l'animo dell'ascoltatore. Ed è proprio una mazzata sulla nuca, col suo ritmo sincopato/rocambolesco a martellare continuamente l'udito tramite una serie di colpi secchi di rullante, con la voce ultrafiltrata (una dichiarazione d'intenti che stabilisce sin da subito le distanze rispetto alla fruibilità dell'opera, rendendo difficoltosa la sua comunicabilità nel complesso) e le chitarre che delineano un crossover debordante, certamente più di là che di qua. Ma già con "Bath" siamo innanzi al primo capolavoro: le linee vocali si inseguono su strani farfugliamenti insperati, i riff all'interno di un cerchio ossessivo, brutalmente coperto da wall of sound allucinati; e la batteria più volte paragonata a un vero e proprio tornado.
Non c'è via di scampo con gli Unsane, puoi solo ascoltare questa furia di strutture e suoni totalmente sgraziati e rimanere fermo, perché il massimo di mobilità suggerito da tale uragano è quello di spasmi repressi all'infinito: tipo teste che esplodono... E la scia di feedback (vagamente industrial) che precede "Maggot" porta direttamente verso un altro calderone hardcore-noise, la cui unica strada può guidare solo davanti ad altrettanti muri da abbattere. "Cracked up" imbastisce un nuovo tornado ritmico, con le chitarre indomite che tracciano scie d'aria malsana e assolo essenziali - come in tutta la produzione della band - ridotti fino all'osso, a solcare la parapiglia disarmonico-percussiva.
E (s)fortunatamente non c'è tempo per riprender fiato, che subito giunge "Slag", un post-hardcore tiratissimo, cattivissimo, sul limite del collasso emicranico.
Un minimo di dilatazione caratterizza invece "Exterminator", dove è possibile "contemplare" finalmente le voci "depurate" da qualsiasi effetto alterante: e il brano avanza con stile nei suoi sei minuti totali, per poi darsi una pausa a metà e ripartire con lo stesso arpeggio di chitarra iniziale, risalire, e concludersi nel caos della sovrapposizione dissonante. Servono "Vandal X" prima e "Hll" dopo a ristabilire la stessa furia di prima, divise dal solito intermezzo noise-industrial e seguite dall'hard-rock con reminiscenze detroitiane e vagamente sludge di "Aza-2000" - col taglio improvviso che lega il pezzo direttamente (appunto) a "Cut", altro brano claustrofobico adeguatamente segnato da armoniche selvagge e da una tonalità davvero lugubre, quasi da dark-wave potenziata all'anfetamina. E dopo l'accelerazione di "Action Man", chiude "White Hand" nella sonnolenza stonata della sua greve cadenza, andando infine a dispiegare ulteriori trame dall'incedere solenne.
Etica ed estetica in un connubio fatale.
18/04/2010