The Smiths

Please Please Please Let Me Get What I Want

The Smiths - Please Please Please Let Me Get What I Want
(1984 - Inclusa nella compilation "Hatful Of Hollow", Rough Trade, 1984)



Certe canzoni hanno il potere di manifestarsi come epifanie, folgoranti apparizioni venute a rivelare un percorso, un itinerario dell’anima, di cui non sai nemmeno l’esistenza e che non immagineresti mai di dover o poter percorrere. Lo farai comunque; anzi sei già in cammino e non lo sai. Perché se non esiste il destino, esiste almeno il caso. E quello non sbaglia mai. La musica – direbbe Kandinskij - è una “necessità interiore”, una vocazione spirituale a cui, anche da semplice ascoltatore, non puoi sottrarti. Manderà i suoi emissari un giorno, ma tu ricostruirai il senso di quell’incontro solamente a distanza di tempo.
 
Avrò avuto dieci anni la prima volta che ho ascoltato “Please Please Please Let Me Get What I Want”. A quell’età a malapena sapevo chi fossero i Beatles, figurarsi gli Smiths. Era la colonna sonora di uno spot di una birra rimasto nella memoria collettiva per quel suo saper condensare in un countdown emozionale tutto ciò che è degno di chiamarsi vita. Insomma, una pubblicità pensata apposta per colpire al cuore i soliti, inguaribili sentimentalisti del cazzo. Senza nulla togliere a quel montaggio meraviglioso, gran parte dell’impatto era dovuto alla musica: da quale abisso dell’anima proveniva quel lamento di cui non capivo una parola ma che mi giungeva come la più atroce e autentica delle preghiere? Da quale razza di inferno era uscito illeso quell’anonimo chitarrista per tirarne fuori delle armonie così malinconicamente celestiali da far pensare al pianto di mille angeli? Avrei dovuto aspettare quasi altri dieci anni (siate clementi, il pop britannico non è stato esattamente la cup of tea dei miei ascolti adolescenziali) per dare un nome a quella voce e a quella chitarra - Morrissey e Johnny Marr -  e scoprire che quella canzone, in realtà, non durava poi tanto più di uno spot: centodieci secondi. Probabilmente, i centodieci secondi più commoventi della storia del pop.
 
Quando i tizi della Rough Trade si videro recapitare da Morrissey una canzone così breve, dovettero assumere un’espressione  beffardamente simile a quella che può avere una ragazza al termine di un amplesso da eiaculazione precoce: “Hey, ragazzo, è già finita?”. In realtà quello che gli scagnozzi di Geoff Travis gli dissero fu, se possibile, anche più imbarazzante: “dov’è il resto della canzone?”. Fortuna che Morrissey non era tipo da demoralizzarsi e anzi, con la sfrontatezza di chi sa di avere un talento fuori dal comune, si permetteva di replicare a muso duro che il pezzo era quello. Niente aggiunte, prendere o lasciare. La Rough Trade prese. “Please Please Please Let Me Get What I Want” uscì così come era stata registrata: con le sue quattro brevi strofe, i suoi due minuti scarsi di durata e quella coda di mandolino – idea del produttore John Porter mirabilmente messa in atto dall’estro di Marr - che è il sacrario in cui si eterna quella prodigiosa melodia.  
 
Il brano venne prima inciso come lato B del 45 giri “William, It Was Really Nothing” e poi inserito nella compilation “Hatful Of Hallow”, pubblicata in quello stesso 1984, che raccoglieva i singoli editi dalla band inglese nei due anni precedenti insieme ad alcune registrazioni per dei programmi radiofonici alla BBC. “Please Please Please Let Me Get What I Want” fu collocata alla posizione numero sedici della tracklist - l’ultima - a sigillo di un inesauribile scrigno di meraviglie che racchiudeva, tra gli altri, portenti quali “This Charming Man”, “How Soon Is Now?”, “Handsome Devil” e “Reel Around The Fountain”. Eppure siffatte pepite - per le quali qualsiasi songwriter della terra sacrificherebbe i propri congiunti fino al quarto grado di parentela - impallidiscono al cospetto di questo commiato maestoso e fragile. Nessuna canzone, infatti, ha saputo nel tempo contendere a “Please Please Please Let Me Get What I Want” lo scettro di brano emblema dell’estetica e della poetica degli Smiths, tanto che musicisti di ogni rango si sono messi in fila col numerino per poterne attingere un po’ di magia, dando luogo in alcuni casi a reinterpretazioni spiazzanti (la versione strumentale in odore di new age dei Dream Academy, quella furiosa e melodrammatica dei Muse), in altri a riletture oltremodo “sentite” (i Clayhill in acustico, Slow Moving Millie per solo pianoforte).
  
Qualche anno dopo l’incisione del brano, Johnny Marr rivelò in un’intervista che la melodia era stata plasmata sul modello di una vecchia canzone di Bobby Hillard e Burt Bacharach, “The Answer To Everything”, portata al successo nel 1961 da Del Shannon. A ben vedere, l’influenza si manifesta non tanto a livello formale quanto dal punto di vista espressivo; non riguarda il come una melodia dovrebbe essere costruita ma come essa dovrebbe agire sulla sfera emotiva dell’ascoltatore. “The Answer To Everything” è una ballata amabilmente vezzosa, cesellata dal passo  voluttuoso di un vibrafono, e a primo impatto sembra non tradire alcun plausibile legame col brano degli Smiths. Tuttavia, se si concentra l’ascolto soltanto sulla linea melodica, isolandola dall’arrangiamento che ne travisa il vero umore, se ne possono cogliere la dinamica querula e le  sfumature languide a cui, evidentemente, l’ispirazione di Marr – autore della musica - ha attinto.
 
Ovviamente Marr non voleva rifare quella melodia, voleva piuttosto ricrearne l’essenza, farne rivivere lo spirito che rapiva la sua sensibilità di bambino quando la ascoltava dal giradischi di suo padre. Ma se la hit di Del Shannon dà voce a un innamorato che non vuole essere illuso dalla ragazza che ama, “Please Please Please Let Me Get What I Want” è il soliloquio di chi, la voce, l’ha strozzata in gola a forza di sperare, l’ha ricacciata in corpo a furia di suppliche al vento. Fortuna che non occorre proferire parola per esprimere un desiderio, per agognare un sogno. Basta rivolgere gli occhi al cielo, che spesso altro non è che il fondo inverso dell’anima:  “So for once in my life/ let me get what I want/ Lord knows it would be the first time”. I sogni sono come i miracoli: accadono prima dentro di noi. E se poi questi  finalmente si avverano, ci sentiamo quasi in colpa: “See, the luck I’ve had/ would make a good man/ turn bad”.
 
Qualche tempo fa una mia cara amica - parafrasando un’altra canzone degli Smiths, “Rubber Ring” - mi ha mandato questo messaggio, che suonava come una sorta di tenero monito: “Don’t forget the songs that saved your life”. Certe persone hanno il dono di farsi messaggeri della provvidenza, di mandarti le parole opportune al momento opportuno. Proprio come certe canzoni, le quali, se non ci hanno salvato la vita, l’hanno almeno indirizzata nella direzione giusta, senza che noi – ancora troppo puri e innocenti per comprendere che ogni miracolo, oltre alla meraviglia, reca con sé l’onere della custodia e il martirio della testimonianza – ce ne rendessimo nemmeno conto.
 
A quel miracolo che chiamo Ila