Black metal

Lay down your soul to the gods rock’n’roll

Lay down your soul to the gods of rock’n’roll

Nato come una variazione rumorista, scioccante e goliardica della NWOBHM, il black metal è forse il genere estremo di maggior successo e interesse, complice un'evoluzione artistica imprevedibile che ne ha saputo adattare lo spirito alle forme più disparate. Dal satanismo lo-fi di Venom e Hellhammer, fino alla sognante eleganza di Alcest e Negura Bunget, passando per il tragico gelo della scena norvegese, presenteremo una, giocoforza succinta, carrellata di dischi imprescindibili per conoscere e comprendere quello che, da vent'anni, è la forma di metal più popolare nell'underground.

C’erano una volta tre debosciati di Newcastle armati di strumenti musicali che sapevano a mala pena tener in mano e di un baraccone scenografico a metà strada tra i film della Hammer e il Rocky Horror Picture Show. Si scelsero tre nomi d’arte da horror di serie Z come Cronos, Mantas e Abbadon e riempirono i loro spettacoli di croci rovesciate, calici ricolmi di pseudo-sangue di vergine, catene e armi evidentemente prive di filo - il tutto unito a pose pacchiane e testi inneggianti al trionfo di Satana e al sesso con la propria insegnante. Se sei appassionato del genere, avrai capito benissimo che sto parlando dei Venom, coloro che influenzeranno almeno un paio di decenni di estetica dell’heavy metal, causandone il bando dal salotto buono della musica rock ancora prima di poterci mettere piede.
Brian Eno affermò che il primo disco dei Velvet Underground fu acquistato soltanto da cento persone ma che tutte, dopo averlo ascoltato, decisero di formare una band. Non penso di bestemmiare affermando che l’esordio dei Venom (“Welcome To Hell”) fu ancora più influente, non solo perché vendette tantissimo (considerato il genere), ma perché istigò la formazione di una schiera decisamente più nutrita di gruppi musicali. D’altronde, se hai 14 anni, il Diavolo e l’ultraviolenza sono molto più attraenti di una vita da bohemien newyorkese tra pere d’eroina e camere d’albergo fatiscenti.
Ovviamente il peggior torto che si poteva fare ai Venom era prendere sul serio l’aspetto scenografico (loro, di certo, non l’hanno mai fatto), ma era quasi inevitabile che ciò, prima o poi, avvenisse. Se all’inizio tutto filò liscio, con la nascita di gruppi a loro ispirati e parimenti geniali e influenti come gli svizzeri Hellhammer/Celtic Frost, gli svedesi Bathory o gli italiani Bulldozer, quando i germi della musica eccitante e fracassona dei Venom si propagarono tra i fiordi norvegesi (e tra la gioventù parimenti ignorante e scazzata che abitava da quelle parti) qualcosa andò in corto circuito, con la nascita di quello che viene ancora oggi definito “black metal” (come il titolo del secondo Lp dei nostri).

E, a questo punto, scordatevi l’ironia e l’atmosfera da “Animal House” satanista di Cronos e sodali! Il black metal norvegese è musica fredda, martellante e profondamente malvagia. Dalle foto che i musicisti si scattano, pare sparita ogni forma di divertimento, ma tutti si prendono dannatamente sul serio, nonostante l’alto tasso di comicità involontaria dovuto soprattutto all’abuso di corpsepainting che fa sembrare questa gente un mix tra i Kiss dei poveri e dei panda malnutriti.
Tuttavia, ci sarà ben poco da ridere davanti ai fatti di cronaca nera che riguarderanno il cosiddetto “inner circle” di questa scena che ruotava principalmente attorno alla figura di Øystein Aarseth aka Euronymous, leader dei Mayhem e padrone del negozio di dischi “Helvete” a Oslo, punto d’incontro dei primi blackster. Di chiese bruciate, suicidi, omicidi e deliri nazistoidi, hanno scritto in maniera dettagliata ed esaustiva Michael Moynihan e Didrik Søderlind nel loro ottimo “Lords of Chaos” e io non ho intenzione di deviare più del necessario dalla pura critica musicale. Perché, fortunatamente, di musica stiamo parlando - espressione di una creatività straordinaria, che non solo sopravvivrà alla stagione di follia durante la quale si presentò al mondo, ma saprà, meglio di molti altri generi, trascendere le barriere temporali e, soprattutto, geografiche. Il black metal si è adattato a ogni tipo di contaminazione (soprattutto con la musica classica e quella tradizionale, ma anche con l’elettronica, il progressive e la psichedelia) e ad ogni lemma: a differenza delle altre forme di heavy metal, l’utilizzo delle lingue latine, e, addirittura, dei dialetti, non solo non stona, ma, anzi, arricchisce di varie sfumature uno stile musicale già di per sé evocativo (i siciliani Inchiuvatu o i bolognesi Malnatt ne sono prova lampante).
Questa duttilità ha permesso al black metal di evolversi in maniera decisamente più ramificata rispetto ad altre sotto-categorie che, dopo un’esaltante stagione iniziale, hanno mostrato presto la corda a causa dell’incapacità delle seconde e terze generazioni di trovare soluzioni davvero originali (e questo vale per il metal classico, Nwobhm o scena epic che si voglia, e, soprattutto, per il thrash). Certo, pure nel black non mancano i revival o i devoti al sound cosiddetto “true”, ma, nella maggior parte dei casi degni di nota, il modello di base è stato facilmente adattato ai rivestimenti musicali più disparati fino alle forme complesse ed eleganti delle attuali scene francesi e americane.
Che si tratti di una musica molto più “open minded” di quello che un’occhiata (superficiale o meno) all’estetica dei gruppi possa suggerire, è riprovato anche dall’incredibile evoluzione artistica di molti prime mover della scena: basterebbe l’esempio degli Ulver che, ormai da vent’anni, lasciano gioiosamente spiazzati i loro fan con dischi diametralmente opposti l’uno dall’altro. Ma si possono citare anche le svolte progressive degli Ensalved e degli ex-membri degli Emperor, quella vicina all’industrial dei Satyricon, quella tecno pop di Mortiis, quella “back to roots” dei Dark Throne e quella ambient di Burzum.

Insomma, quasi tutti i gruppi appartenenti alla prima ondata, pur senza rinnegare il passato, hanno avuto la curiosità e l’intelligenza di spostarsi verso altri lidi musicali e sempre con ottimi risultati. Non solo, il black metal in alcune sue forme, si è dimostrato anche una straordinaria macchina da vendite, pur senza snaturare la pesantezza della proposta (ci vuole coraggio, anche se molti lo fanno, a definire “commerciali” Cradle of Filth o Dimmu Borgir. Non è esattamente musica che passerebbe per le nostre radio). Ovvio che la sua già citata adattabilità gli ha permesso di avere un appeal sconosciuto ai gruppi delle altre scene estreme.
L’intenzione è dunque quella di presentare una carrellata di dischi e gruppi con il comune denominatore dell’appartenenza a un’oramai generica “scena black”, che vi porterà in viaggio per epoche e regioni diverse tra loro ma parimenti oscure.
Certo, non vi è più traccia degli “dei del rock’n’roll” a cui i Venom avevano venduto l’anima. Quelli si trovano a loro agio a essere evocati, più che in qualche gelida foresta scandinava, nel calore e nella confusione di un pub inglese.

 

VENOM - Welcome To Hell
(Inghilterra)

 

VENOM - Welcome To HellPare incredibile dirlo, ma una volta Satana mica era divertente come oggi! Troppa gente che lo prendeva sul serio, e non solo nelle canoniche dove si rovinavano i vinili facendoli girare al contrario nella speranza di captare qualche “misterioso messaggio satanico”. Persino i musicisti ammorbavano il Maligno con le tesi di Aleister Crowley (Jimmy Page) o con utopie parafricchettone (i Black Widow). Questo finché, nel 1981, fece ingresso nei negozi inglesi il disco d’esordio dei Venom, dal titolo (“Welcome To Hell”) che lasciava poco spazio alla fantasia e faceva degno paio con una copertina raffigurante la testa di un caprone inscritta in un pentacolo. Sul retro, i tre musicisti dai nomi d’arte improponibili come Cronos, Mantas e Abaddon posano in riva al mare con atteggiamento tra il guerresco e il costipato (probabilmente erano piegati perché nella foto si vedesse anche il riflesso sull’acqua), mentre brandiscono accette da negozio di souvenir in qualche borgo medievale. Il tutto fa già intuire testi in cui si esalta la vittoria delle forze del male, gli abusi psicotropici, l’iperviolenza, il sesso & la karnazza.
Se la musica rock stava cercando da qualche decennio di ammantarsi di un aspetto adulto e rispettabile, basta uno sguardo all’artwork di questo Lp per porre fine a ogni velleità di crescita e tornare sparati a un’adolescenza magari problematica, ma decisamente non infelice. Perché “Welcome To Hell” è quanto di più eccitante e divertente si potesse ascoltare all’epoca e non è un caso se tutto il metal estremo, dal thrash, al black o al death, passerà indiscutibilmente da questi quaranta minuti di musica, il cui successo, anche commerciale, non deve stupire.
Pochi istanti dopo che la puntina ha iniziato a solcare il vinile e “Sons Of Satan” si abbatte sull’ascoltatore con la foga di una muta di cani idrofobi. Vengono in mente i Motorhead, ma Lemmy e soci, che pure non lesinavano decibel, non avevano mai suonato così rumorosi e grezzi. E, soprattutto, il topo in gola con cui Cronos pare cantare risulta più estremo di qualsiasi registro usato all’epoca. Dopo sarà una gara all’estremizzazione vocale che porterà al growl e allo scream.
Si capisce, inoltre, che i tre sanno a malapena tenere gli strumenti in mano, ma abbiamo appena archiviato il punk ed è lecito non farci caso, specie se, pur con la loro scarsa perizia, riescono a tirare fuori dal cappello momenti memorabili come l’epico riff che introduce la title track o il devastante tribalismo del singolo “In League with Satan”. Formalmente i Venom vengono associati alla coeva scena della Nwobhm, ma i punti di contatto, che pure ci sono (si veda “Live Like An Angel”), risultano assolutamente secondari. Come tutti i capolavori, “Welcome To Hell” fa storia e non ne subisce più di tanto l’influenza.
Infatti, il disco è pieno di momenti a dir poco avveniristici come lo speed furibondo di “Angel Dust”, i rumorismi della conclusiva “Red Light Fever” (che qualcuno ha definito la “Sister Ray” del metal estremo) e, soprattutto, quell’oscura meraviglia di “Witching Hour” che, dopo una breve introduzione da film horror, esplode iperveloce, sporca e maestosa come un baccanale a cui si vorrebbe partecipare anche a costo di qualche eternità di dannazione.
Casomai qualcuno non se ne fosse accorto, il thrash metal nasce qui, con un discreto anticipo sull’esplodere della scena della Bay Area. Ma non solo: se pure oggi si intende per “black metal” una musica sostanzialmente diversa, i dischi dei primi Venom (soprattutto questo e, per l’appunto, “Black Metal” che uscirà l’anno successivo e che ripeterà la formula con un pizzico di mestiere in più e sporcizia in meno) ne sono un’imprescindibile e riconosciuta influenza, musicalmente e iconograficamente. L’unica cosa che andrà, purtroppo, persa sarà la boccaccesca ironia dei tre, che verrà spesso sostituita da una (involontaria) comicità dei loro tanti emuli e seguaci.

 

MERCYFUL FATE – Melissa
(Danimarca)

 

MERCYFUL FATE – MelissaDa catalogare alla voce “icona” assieme a figure come Lemmy, Ronnie James Dio e Rob Halford, il danese King Diamond è uno dei più grandi cantanti metal di sempre e il suo falsetto un gioiello da conservare in teche di cristallo a prova di ultrasuoni. Parimenti, il suo gruppo Mercyful Fate è stato un’influenza fondamentale, a più livelli, per il metal che sarà: sia le scene epic e thrash americane (i Metallica gli renderanno più volte omaggio), sia quella death, soprattutto nelle forme più melodiche, sia, e qui la parte che ci interessa, il black metal.
Tanto per intenderci, l’onnipresente faceprinting delle band norvegesi non deve la sua origine ai Kiss (casomai a qualcuno fosse venuto il dubbio), ma al trucco da stregone vodoo di King Diamond (che, tra parentesi, senza pare il fratello gemello di Giorgio Moroder), e la sua ugola è il vero oscuro oggetto del desiderio dei cantanti black. L’estremizzazione vocale (oltre a essere un modo per accentuare la cattiveria della proposta), infatti, è stata spesso un ingenuo mezzo per ricrearne l’effetto senza avere le capacità dell’originale.
Inoltre la teatralità del frontman (ispirata ad Alice Cooper e a quel cantante death ante-letteram che fu Screaming Jay Hawkins) ha fatto scuola, soprattutto in ambito black metal. Che poi il disco non sia definibile “estremo” in senso proprio, ma, piuttosto, un robusto prodotto classico dell’epoca con forti debiti alla Nwobhm, non toglie un’oncia alla sua importanza. E, comunque, non mancano brani davvero inquietanti come “Black Funeral”, la lunga “Satan’s Fall” o la conclusiva title track, dedicata a una strega antenata di King Diamond della quale, pare, il cantante conserva lo scheletro a casa e che si impossessa di lui ogni volta che tira fuori il suo allucinante falsetto (ancora una volta, Alice Cooper docet).
A differenza dei Venom, i Mercyful Fate sanno suonare eccome: Hank Shermann e Michael Denner sono una fenomenale coppia di axemen che, per tutta la durata del disco, inanellano riff epici e assolo spiritati e la sezione ritmica di Timi Hansen (basso) e Kim Ruzz (batteria) si prodiga in continui cambi di tempo senza lasciare per strada neanche una sbavatura.
Ancora oggi, “Melissa” è un disco che coniuga magistralmente importanza storica ad assoluta fruibilità. Se qualcuno vi chiede un esempio di puro metal, quest’opera è una valida risposta al pari dei classici degli Iron Maiden e Judas Priest e, allo stesso tempo, si tratta di un indiscutibile ponte verso il futuro del genere.

 

HELLHAMMER – Apocalyptic Raids
(Svizzera)

 

HELLHAMMER – Apocalyptic Raids“La cosa più terribile, oscena e atroce che dei musicisti abbiano mai realizzato”. Oh yeah! Basta questa recensione apparsa sulla rivista Rock Power a rendere gli Hellhammer un gruppo quantomeno degno di interesse. Convinto come sono che le parole del regista Edgar Wright (“non esistono film belli o brutti, ma film belli o noiosi”) si applichino anche alla musica, un’opera d’intelletto che scateni un rifiuto così netto non può lasciare indifferenti. Questo senza tener conto dell’influenza che la prima band di Thomas Gabriel Fischer aka Tom G. Warrior aka Satanic Slaughter (da notare l’influenza dei Venom nella scelta di sobri nomes de plume) ha avuto sulla nascente scena black. Non è mia intenzione fare il superiore con i critici che, all’epoca, stroncavano brutalmente i lavori della formazione svizzera: intanto, del senno di poi sono piene le fosse, ma, soprattutto, posso capire che, in un periodo in cui l’heavy metal (inteso come filiazione dell’hard-rock) stava recuperando terreno e pubblico dopo gli anni del punk e della new wave, grazie soprattutto a musicisti preparati come quelli della scena thrash americana, questi tre cialtroni che provenivano da un paese che aveva offerto alla musica rock soltanto gli Yello e che suonavano in maniera eufemisticamente  “approssimativa”, senza azzardare una melodia neanche per errore, puzzavano abbastanza di “intelligenza col nemico” o, comunque, di fastidiosa incompetenza.
In realtà, gli Hellhammer di punk avevano soltanto l’attitudine, essendo devoti ammiratori di Black Sabbath, Motorhead e, soprattutto, Venom, dei quali tentavano di emulare l’impatto sonoro e l’atteggiamento.
Dopo tre demo usciti nel 1983 (“Death Fiend”, “Triumph Of Death” e “Satanic Rites”- recentemente rimasterizzati e ristampati nel doppio cd “Demonic Entrails”) e diventati presto culto nell’underground metal nonostante già fioccassero le prime stroncature sulla stampa specializzata, il trio (oltre a Herr Fischer, il suo futuro sodale nei Celtic Frost Martin “Slayed Necros” Ain al basso e il batterista Bruce “Denial Fiend” Day) registrano per l’etichetta tedesca Noise la loro unica release ufficiale, ovvero l’Ep di quattro canzoni (diventate poi sei nella ristampa del 1990) “Apocalyptic Raids”: una sorta di “grado zero” del black metal più marcio e catacombale, caratterizzato da riff slabbrati e decisamente elementari, cantato roco e atonale, ritmica martellante che non ha modo né tempo per diventare fantasiosa. Se nei primi due brani (“Third Of The Storm” e “Massacra”) il gruppo pesta decisamente sull’acceleratore, la lunga (quasi dieci minuti) “Triumph Of Death” è caratterizzata da soluzioni para-doom di evidente origine sabbattiana e fa emergere un interesse per le atmosfere decadenti e malate che verranno sviluppate nella successiva incarnazione della band. Nella conclusiva “Horus/Aggressor” il gruppo dà fondo alle sue capacità tecniche concedendosi, pensa un po’, anche qualche cambio di tempo.
Anche se centinaia di gruppi delle diverse scene estreme, tra cui Mayhem, Sepultura, Napalm Death e Darkthrone, indicheranno successivamente gli Hellhammer come una delle loro più importanti influenze, non era in effetti facile, nell’anno di grazia 1984, prevedere il peso che  musica così apparentemente dozzinale avrebbe potuto avere. Di sicuro anche per Tom Warrior e soci che, stanchi di fare da bersaglio alla critica, si scioglieranno subito dopo l’uscita di “Apocalyptic Raids”, riorganizzandosi per due terzi sotto il nome di Celtic Frost. Forse speravano in questo modo di ottenere l’oblio da parte dei giornalisti, ma così, purtroppo per loro, non sarà, visto che Kerrang!, nel recensire il disco “To Mega Therion” (seconda opera del nuovo progetto) scriverà “gli esecrabili Hellhammer possono anche essere diventati i Celtic Frost, ma fanno ancora cagare!”.

 

BATHORY – Bathory
(Svezia)

 

BATHORY – BathoryIl giorno in cui noi metallari conquisteremo il regno promessoci dai Manowar, in ogni città sarà presente una “piazza Quorthon” e la statua di Thomas Forsberg farà bella mostra davanti al Tribunale delle Ordalie.
I suoi Bathory (parliamone al plurale, anche se, di fatto, si tratta di una one man band) sono probabilmente il progetto più seminale della storia dell’intero heavy metal (e se la giocano per il podio nella classifica del rock tout court): non contento di aver inventato il black nella sua accezione più raw con almeno cinque anni di anticipo sulla scena dei vicini norvegesi, lo svedese Forsberg fu anche il primo artista viking e pagan della storia. In soldoni: un buon terzo delle produzioni metal dell’ultimo ventennio è direttamente o indirettamente influenzato dai dischi dei Bathory. Pare incredibile, ma, fino a un decennio fa, il loro ruolo veniva sottovalutato non soltanto dalla critica generalista (checché se ne dica, non sono i metallari a mancare di curiosità verso gli altri generi, ma è chi ascolta altri generi a soffrire di un ingiustificato pregiudizio verso il metal), ma anche da quella specializzata.
Se, soprattutto dopo la morte del mastermind avvenuta nel 2004 per complicazioni cardiache, il tempo è stato galantuomo con il riconoscimento quasi unanime della fondamentale importanza dei Bathory nella storia della musica estrema, ad oggi si pone un problema di diversa natura: quale delle meraviglie incise a Quorthon scegliere per rappresentare al meglio la sua discografia?! Alla fine opto per una scelta più legata all’importanza che alla qualità.
L’omonimo esordio causò, in maniera del tutto involontaria, un terremoto nella scena heavy metal. Con quelle 8 brevi tracce registrate male e suonate peggio, veniva estremizzata la lezione venomiana, creando un’atmosfera marcia e malata assolutamente inedita. Ritmica ossessiva, chitarre grattugiate senza lasciare un minimo di spazio vuoto, vomiti di assolo brevi e sgraziati e un cantato da strega di qualche filmaccio horror. Ma il principale pregio del disco è quello di aver introdotto il “do it yourself” nell’ambito metal. Dopo “Bathory” cominciò a fiorire il tape trading tra appassionati in ogni angolo del mondo: per realizzare musica del genere non serviva altro che il desiderio di stringere uno strumento in mano e massacrarlo fino a fargli stridere sangue. Se dai tempi della Nwobhm, il metal ha avuto un rapporto ambiguo con il punk (formalmente ne costituiva una forma di rifiuto, di fatto lo scarto tra hard rock e heavy metal è impensabile senza il dinamismo punk), i Bathory si appropriano degli elementi davvero innovativi del genere dai Ramones in poi, per purgarli da ogni maniera e adattarli a una forma di musica estrema fino ad allora mai neanche immaginata.
Ma Quorthon va persino oltre, escludendo dal suo progetto musicale la stessa esistenza di un gruppo e dell’attività live - magari non sarà stato il primo, ma non è un caso se, nella scena black, spunteranno come funghi one man band dedite a un misantropico disprezzo per i concerti. Insomma, musica da cameretta ben prima dell’avvento dell’elettronica. Poi, su questo scarno modello verranno apposti i fondamentali abbellimenti che porteranno, grazie a una maggiore consapevolezza delle potenzialità espressive che il genere forniva, al capolavoro “Under The Sign Of The Black Mark”, prima della svolta viking degli altrettanto imprescindibili “Blood, Fire And Death” e “Hammerheart”.

DESTRUCTION - Sentence Of Death
(Germania)

 

DESTRUCTION - Sentence Of DeathCorpse painting, giubbotti di cuoio e cartuccere a tracolla sullo sfondo di un camposanto. Ridicoli, eppure iconograficamente seminali: così apparivano nel 1984 i teutonici Destruction sulla copertina dell’Ep di esordio “Sentence Of Death”, primo vagito del glorioso thrash tedesco, di cui già, in venti minuti scarsi, esemplificava pregi e difetti - da un lato violenza brada, entusiasmo contagioso e atmosfere marcissime, dall’altro produzione e tecnica, a essere eufemistici, amatoriali e scarsa fantasia.
Per anni, la scena tedesca è stata considerata il “vorrei ma non posso” di quella americana. In realtà, le differenze tra le due partivano già dai presupposti: Metallica & C. erano cresciuti a pane e Nwobhm con marmellata di hardcore spalmata sopra, ma, soprattutto, venivano da un paese in cui fare musica è considerato un modo dignitoso per buscarsi da vivere e costruirsi una professionalità. Gli europei erano devoti alla trinità Motorhead, Venom e Slayer di cui cercavano ossessivamente di replicare (o superare) la ferocia, convinti, tra l’altro, che dopo l’adolescenza non ci fosse per loro futuro (almeno in campo musicale).
Nei primi dischi di Destruction, Sodom e Kreator (ma anche Tankard, Assassin etc) non c’è altra ambizione che quella di atteggiarsi a malvagi casinisti per scioccare genitori, vicini e compagni di scuola (segretamente sperando che, sotto sotto, la cosa faccia anche inumidire le mutandine di Heike). Questo non solo sembra tragicomico, lo è! Ma costituisce da sempre il più genuino spirito del rock‘n’roll.
E, sorpresa, mentre il tanto decantato thrash a stelle e strisce imboccherà un’irreversibile china discendente, i colleghi tedeschi matureranno contro ogni aspettativa, regalandoci fino ai giorni nostri lavori oscillanti tra l’ottimo e il dignitoso.
Non solo: al nascere della scena black, saranno moltissimi i gruppi a dichiarare la loro devozione a questo metal sgraziato, martellante e assolutamente amatoriale. Il motivo sta nella furia con cui sono suonati brani come “Total Desaster”, “Black Mass” e “Mad Butcher”, zeppi di riff scheletrici che puzzano di muffa e cantina, a cui basta togliere solo qualche grado per raggiungere il gelo dei fiordi e accompagnati da un cantato ringhiante che sembra preconizzare quello utilizzato da Mayhem e Immortal. Musica estrema, in cui veniva eliminato (per quanto possibile, in quella che è, comunque, una forma di rock) ogni riferimento al blues e, pur con i suoi scarsissimi mezzi, ambiva a riprodurre una grandeur da Wagner post-atomico, più per retaggio culturale che consapevolmente.
Chiamiamolo pure “black thrash”, anello fondamentale di congiunzione tra la musica estrema di due decenni.

 

SLAYER – Hell Awaits
(Usa)

 

SLAYER – Hell AwaitsAdesso uscirà il solito metallaro pedante con il classico: “E perché non 'Reign in Blood'”? Vuole fare l’anticonformista, lui!”. Giammai! “Reign In Blood” è una pietra d’angolo della costruzione del metal estremo e, forse, il primo disco death della storia. Di sicuro il capolavoro degli Slayer che, comunque, seminali erano già stati prima e lo sarebbero stati abbondantemente in futuro (almeno fino a “Diabolus In Musica”- ultimo, non a caso, con una significativa partecipazione in sede compositiva del compianto Jeff Hanneman). Tuttavia, di black metal stiamo parlando e “Hell Awaits” ha impresso sia musicalmente che iconograficamente la sua orma sul genere in maniera molto più profonda del suo monumentale successore.
L’immaginario “venomiano” era già ben presente nell’esordio del quartetto losangeliano, quel “Show No Mercy” molto godibile, anche se ancora poco incisivo, e portatore sano di almeno due classici come “Evil Has No Boundaries” e “Die By The Sword”. Ma è con il secondo “Hell Awaits” (in mezzo, il già tellurico Ep “Haunting The Chapel”) che i peana al maligno raggiungono una potenza e una cattiveria mai toccata in precedenza, facendo impallidire non solo i maestri albionici ma la quasi totalità della coeva scena thrash americana. A differenza degli Exodus o dei Metallica, gli Slayer mettono in secondo piano l’aspetto tecnico (pur presente, soprattutto nel drumming del mai troppo lodato Dave Lombardo) e giocano tutto su atmosfera e aggressività, grazie anche alla produzione di Brian Slagel, dotato di mano meno pesante, ma, certamente, più tagliente di altri colleghi in ambito metal.
La title track sembra sorgere direttamente dalle profondità dell’abisso, grazie ad un' intro rumorista composto da malevole invocazioni e sibili di chitarra, che muta pelle prima in un midtempo marziale e, poi, in un riff  così veloce da phonare i capelli all’ascoltatore con il calore delle fiamme eterne! Su tutto, il cantato, quasi parossistico, di Tom Araya sposta l’asticella dell’estremo su posizioni più vicine allo screaming e al growl. Insomma: una meraviglia che già da sola giustificherebbe l’acquisto del disco e, non a caso, brano di apertura di quasi tutti i concerti dei Nostri.
Il resto, pur non raggiungendo i livelli del brano n.1, è abbondante mancia, soprattutto l’intricata “At Dawn They Sleep”, la maligna “Necrophiliac” e la conclusiva apocalittica “Hardening Of The Arteries”.
Difficile immaginare il black senza “Hell Awaits”, senza la sua mitica copertina e senza il fuoco dell’inferno sprigionato dalle chitarre del duo Hanneman/King, e non è un caso se la fanzine che accompagnerà la nascita della scena estrema scandinava prenderà proprio il nome della band americana.
Per anni, gli Slayer sono stati giustamente considerati la realtà più estrema della scena metal, del tutto sordi alle sirene che predicavano l’ammorbidimento come unica forma di evoluzione possibile. Oggi, grazie anche a loro, sappiamo che infestare gli album di patetiche ballad come hanno fatto i tristi Metallica, lungi dall’essere una forma di maturazione, portava a un vicolo cieco e che l’oltranzismo sonoro dei Nostri è stato il punto di partenza delle più importanti mutazioni della musica heavy da trent’anni a questa parte.

 

BULLDOZER – The Day Of Wrath
(Italia)

 

BULLDOZER – The Day Of WrathParte del fascino sotterraneo del black metal sta nell’essere nato e cresciuto nella provincia più estrema, quella che, per la musica rock, non ha (quasi) mai contato un cazzo. Se la Svezia, prima dei Bathory, aveva ci aveva dato, al massimo, gli ABBA, la Norvegia, almeno fino agli anni ’90, neanche quelli. Hellhammer/Celtic Frost, da parte loro, venivano dal paese di banche, cioccolato e Dj Bobo - ma, all’epoca, di nessuna forma di rock di alto profilo. Perché, pertanto, stupirsi se un paese come il nostro, che una tradizione rispettabile con picchi d’eccellenza l’aveva pure avuta (da Morricone a Moroder passando per Pfm, Area e tutta la scena progressive) nonostante la cultura retriva e la cronica mancanza di strutture, abbia potuto dire la sua nella genesi del black metal?!
Nelle foto che ritraggono l’interno dell’Helvete, negozio di dischi di proprietà di Euronymous e centro focale della scena norvegese, fanno bella mostra alcuni Lp del gruppo milanese Bulldozer. Nella compilation sulla “old school” del black metal curata da Fenriz dei Darkthrone, è presente il brano “Whisky Time”, sempre dei Bulldozer. Due indizi che, quantomeno, giustificano la curiosità verso il gruppo, autore, negli anni 80, di quattro meravigliosi dischi di nerissimo thrash, ispirato più dai Motorhead e dai Venom, che dalla Bay area (e tutti rigorosamente stroncati dalla critica anglocentrica dell’epoca, Kerrang in testa). Roba così rumorosa e diretta presenta più di un’analogia con i tanto bistrattati dischi di Kreator, Sodom e Destruction. Quello che rendeva indiscutibilmente italiana la proposta dei Nostri era la sguaiatezza del cantato, l'anarchica sporcizia del suono e la teatralità onnipresente (elementi già riscontrabili nei pionieri del metallo nostrano Death SS), con la creazione di atmosfere che avranno grande peso nell’evoluzione del genere. Inoltre, a differenza di quanto avveniva a nord del Brennero, la prima scena estrema italiana (soprattutto Bulldozer e Schizo) mostra evidenti influenze punk- e non solo nell’attitudine amatoriale.
È un ottimo esempio del loro sound l’esordio “The Day Of Wrath” prodotto da Algy Ward dei Tank, meno a fuoco dei più maturi “IX” e “Neurodeliri”, ma irresistibilmente selvaggio. Su riff minimali ma al fulmicotone e ritmica devastante, si erge la voce roca ed evocativa di AC Wild (cantante-bassista come da tradizione nei power trio del metal estremo).
Se, per tre quarti della sua durata, il disco gioca su una velocità spezzacollo, gli ultimi due brani (“Welcome Death” e “Endless Funeral”) sono caratterizzati da ritmi lenti che creano ambientazioni morbose e inquietanti, quasi un’anticipazione dei futuri lavori.
Impagabile la foto sul retro copertina, che sbertuccia le seriose e grottesche pose dei metallari: i Bulldozer andrebbero amati anche solo per essere stati, quasi, l’unico gruppo ad aver ereditato da papà Venom il senso dell’umorismo.

 

CELTIC FROST – Into The Pandemonium
(Svizzera)

 

CELTIC FROST – Into The PandemoniumCi voleva una vista davvero molto lunga per poter prevedere che quello sgraziato bruco dal nome Hellhammer sarebbe diventato, ribattezzandosi Celtic Frost, una meravigliosa farfalla multicolore. Anche se la trasformazione non è stata certo immediata.
Riassunto delle puntate precedenti: gli svizzeri Tom G. Warrior (al secolo Thomas Gabriel Fischer) e Martin Eric Ain sono reduci dal progetto Hellhammer, bistrattato dalla critica ma di culto nell’underground metal. Trattandosi di ragazzi ambiziosi, non ci pensano proprio a sacrificare una possibile carriera musicale in nome di un’ottusa coerenza e così, mentre Kerrang! sta ancora invitando i lettori a usare le copie dell’Ep “Apocalyptic Raids” come base per la lettiera del gatto, cambiano ragione sociale in Celtic Frost ispirandosi al titolo di un disco dei Cirith Ungol.
Gli esordi della nuova formazione non si discostano poi tanto dal loro recente passato: assieme al batterista Stephen Priestly (sostituito poi da Reed St, Mark) registrano gli Ep “Morbid Tales” ed “Emperor’s Return” che, se dal punto di vista tecnico mostrano un bel passo avanti rispetto alla cialtronesca incapacità degli Hellhammer, restano lavori oscuri e monolitici quasi quanto quelli della loro precedente incarnazione, salvo che per un paio di pezzi sperimentali, come la breve introduzione “Human” e la terrificante “Danse Macabre” con tanto di violino. Di certo non sono cambiati come immagine, dato che le foto sugli album li ritraggono con pose truci, borchie, cartucciere e faceprintig (assieme a King Diamond furono i primi a utilizzarlo in ambito estremo) in evidente emulazione dei loro idoli Venom.
Ma già con il disco “To Mega Therion” (dalla blasfema copertina ad opera del connazionale H.R. Giger), si compie una prima rivoluzione: pur mantenendo intatta l’opprimente pesantezza del suono, il trio ha il coraggio (quasi inaudito in un periodo in cui i confini tra i diversi generi musicali erano difesi col filo spinato) di inserire negli arrangiamenti la voce di un soprano, strumenti classici e sample di varia natura con un esiti che all’epoca dovevano essere risultati a dir poco spiazzanti (mentre oggi simili contaminazioni sono la norma).
Ancora più in là si spinge il successivo “Into The Pandemonium”, lavoro di ineguagliabile genialità per cui verrà coniata la definizione di “avant-garde metal”. Tanto per far capire che il gruppo intende sfidare ogni forma di purismo, la scaletta si apre con “Mexican Radio”, cover della band new wave Wall of Vodoo, quanto di più lontano si potesse immaginare dal sound dei nostri. “Mesmerize” riporta il disco in territori più oscuri con il suo incedere cadenzato e ipnotico e la voce cantilenante di Tom. “Inner Sanctum” è una bella sfuriata thrash, mentre “Sorrows Of The Moon” sfiora il gotico, sia per l’atmosfera decadente che per la recitazione carica di pathos del cantante. Ma la più blasfema bestemmia al dio metallo dell’album si intitola “One In Their Pride”: avanguardistico brano di elettronica che dimostra passioni e interessi che trascendono il genere di appartenenza. Anche in “Into The Pandemonium” vengono utilizzati arrangiamenti vicini alla musica classica, solo che qui il gruppo collabora con un’intera orchestra, come nella maestosa “Rex Irae”- vertice dell’album e forse della loro intera produzione.
Si tratta, senza timore di esagerare, di uno dei dieci dischi più importanti della storia della musica pesante. Di certo la tendenza alla sperimentazione e al crossover tra generi diversi che caratterizzerà l’evoluzione del metal estremo (quello degno di nota, almeno) ha origine tra i solchi di questo Lp. Ovviamente un simile coraggio non poteva trovare giusti riscontri e così, dopo il relativo insuccesso di “Into The Pandemonium”, i Celtic Frost intraprenderanno la strada del suicidio, dando alle stampe due album in stile glam (col senno di poi, indicativi dell’inquietudine artistica del gruppo) che faranno allontanare i loro fan e ne causeranno lo scioglimento, fino a una breve reunion lo scorso decennio, nella quale verrà registrato l’ottimo “Monotheist”. Oggi, invece, troviamo Tom Warrior alla guida della band doom sperimentale Trypticon, degna prosecuzione dell’avventura dei Celtic Frost.

 

 SARCÒFAGO – INRI
(Brasile)

 

SARCÒFAGO – INRICorpse painting, giubbotti di cuoio e cartuccere a tracolla sullo sfondo di un camposanto… sì, l’ho già scritto, ma era per vedere se eravate stati attenti e per rimarcare quanto i Destruction siano stati seminali. Ma anche i loro devoti Sarcòfago hanno, dai loro tenebrosi e profondi sepolcri sudamericani, grugnito forte e chiaro la loro sulla nascita del black metal.
C’è da chiedersi se Wagner Lamounier si sia mangiato le mani, davanti al successo raggiunto dal gruppo di cui era stato cantante nella prima metà degli anni 80: duro immaginare che il frontman brasiliano potesse avere in mente brani etnicamente o eticamente simili a quelli che porteranno i suoi ex-sodali Sepultura a vendere copie dei propri dischi in cifre da sei zeri, quindi penso proprio di no! Anche se non rimpingua il conto in banca, Lamounier si può accontentare di essere stato uno dei più rispettati padrini del metal estremo, con la sua seconda creatura Sarcòfago e, in particolare, con l’album di esordio “INRI” - lavoro parecchio più feroce e oscuro dei traballanti primi passi dei Sepultura (“Bestial Devastation” e “Morbid Vision” non sono certamente i lavori per cui i fratelli Cavalera passeranno alla storia).
Si tratta di 28 minuti di musica catacombale in cui i timbri della voce e della chitarra, incredibilmente ribassati e, in molti casi, così lenti da rasentare il doom, fanno da contraltare all’uso ossessivo dei blast-beat da parte del batterista D.D. Crazy (tecnica che diventerà quasi un must in ambiente black).
L’influenza più evidente, oltre al thrash tedesco, è quella di Hellhammer/Celtic Frost, ma, a differenza degli elvetici, i Sarcòfago sembrano mirare solo alla violenza brada. I riff non evocano nulla che si possa trovare a meno di un metro sotto terra (terra di cui Lamounier pare avere la bocca impastata per tutto l’album) e i testi sono uno scioccante (per l’epoca) frullato di satanismo e orrore.
Ovviamente non si tratta di un lavoro né vario né particolarmente godibile al giorno d’oggi, in cui il metal estremo si è dimostrato un genere incredibilmente versatile.
Eppure “INRI” non è aggirabile da chiunque voglia analizzare le origini del black (di cui costituisce una forma scarna e basilare, ma quasi totalmente compiuta). Ne sono prova, oltre alle dichiarazioni del solito Euronymous e dei Gorgoroth, anche l’evoluzione musicale dei Darkthrone (e in particolare l’album-capolavoro “Panzerfaust” con cui renderanno omaggio al funereo suono dei Nostri - anche se con una scrittura decisamente più felice) e dei Satyricon (che registreranno una cover di “INRI”), nonché l’intera scena finlandese, soprattutto i Beherit, devotissimi allo stile dei Sarcofago.

 

TORMENTOR – Anno Domini
(Ungheria)

 

TORMENTOR – Anno DominiIl problema della musica odierna non è certo la mancanza di talento, ma la circostanza che internet ci ha resi tanto distratti e volubili da concedere, indistintamente, al genio e al negato fortunato soltanto il canonico quarto d’ora di gloria (e il download selvaggio ha tolto valore al singolo gesto creativo). Difficile immaginare che, durante gli anni 80, si potesse cambiare il mondo avendo come unici strumenti buste affrancate e una buona dose di incoscienza, creando una leggenda che dura ormai da decenni. Eppure i magiari Tormentor ce l’hanno fatta, registrando, dall’altro lato della cortina di ferro, un capolavoro di metal estremo come “Anno Domini”, facendolo distribuire esclusivamente con il tape trading tra appassionati e diventando così un mito per molti ragazzi del blocco occidentale.
Una storia che rivaleggia in epica con lo scontro tra Rocky Balboa e Ivan Drago, con la differenza che è assolutamente vera: “amico di penna” di Euronymous, Attila Gabor Csihar è uno studente di Budapest che, nel deserto culturale imposto dai regimi dell’Est Europa, si innamora dell’heavy metal del quale, però, al posto di volerne pedissequamente riproporre gli schemi (come capita spesso in ambienti svantaggiati), intende creare una forma personale, legata alla sua passione per la storia, il cinema horror e il teatro.
A 14 anni fonda il gruppo Tormentor, con cui, due anni dopo, registra il già interessante demo “Seventh Day Of Doom” - a 17 anni, quando la maggioranza degli esseri umani sta ancora cercando il coraggio per allungare la mani su qualche compagna di classe, sforna un indiscutibile capolavoro come “Anno Domini”, pur senza una casa discografica dietro le spalle (duro trovarne una nell’Ungheria degli anni 80, disponibile a pubblicare un disco metal, poi...) e con mezzi di registrazione davvero limitati.
L’approccio dei Nostri denota, fin dai primi minuti di ascolto, una classe e una personalità che lasciano senza fiato: dopo una breve introduzione che richiama il tema del film “Phantasm” (chi ha detto “Left Hand Path”? Beh, l’esordio degli Entombed è di due anni successivo!), parte il brano “Tormentor I”, sezione ritmica dal tiro altissimo e chitarra che macina riff intricati dall’evidente gusto gotico e maideniano. Se l’incapacità strumentale è una costante di buona parte dei gruppi fino a qui analizzati, i Tormentor, invece, suonano alla grande, pur rifuggendo ogni forma di inutile virtuosismo.
Quando poi entra in scena Attila, pare che sia iniziata l’apocalisse di San Giovanni: mai si era sentita una voce così ringhiante, eppure, a modo suo, virtuosa. Non sembra che il frontman estremizzi il timbro per nascondere la propria incapacità a cantare, ma, piuttosto, per interpretare un personaggio- e ne è prova l’incredibile controllo sfoggiato per tutto il disco. Insomma, il black metal non è ancora ufficialmente nato, ma è già spuntato fuori il migliore cantante del genere- e se ne accorgerà subito Euronymous che lo chiamerà a registrare il manifesto “De Mysteriis Dom Sathanas” al posto del (ehm) defunto Dead.
In quaranta minuti appena, i Tormentor spingono in là l’asticella sull’ambizione e sulla potenza espressiva del metal estremo, consegnandoci, tra l’altro, un classico assoluto del genere come la meravigliosa “Elizabeth Bathory”, scioccante coito tra melodia e potenza, in un’epoca in cui ci si masturbava esclusivamente con la seconda - e, grazie a una fitta attività di scambio e registrazione di audiocassette, se ne accorgeranno in molti non soltanto in Norvegia, ma anche nel resto d’Europa.

MAYHEM - De Mysteriis Dom Sathanas
(Norvegia)

 

MAYEHM - De Mysteriis Dom SathanasQuarantasei minuti di pura iconicità! Qualsiasi trattazione sul black metal come attualmente inteso non può che cominciare da qui, nonostante non si tratti del primo disco del genere a essere pubblicato, ma fu, anzi, un’opera relativamente tardiva. Non possono esservi, però, dubbi sul fatto che furono proprio i Mayhem gli apripista nell’estremizzare la lezione di Venom e Bathory, inserendo elementi caratteristici come il riffing gelido ed evocativo e l’ossessiva doppia cassa. Il tutto unito a un’atmosfera tragica e malsana che caratterizzerà il black e tutto il metal estremo a venire. D’altro canto, il fondatore e chitarrista Øystein Aarseth aka Euronymous è univocamente considerato il padre della scena norvegese (e, in generale, l’uomo a cui dobbiamo l’ingresso del paese scandinavo nella storia del rock) e ne sono prova le meravigliose registrazioni del concerto tedesco “Live In Liepzig” risalenti al 1990, dove troviamo versioni già perfette di ben quattro brani contenuti in “De Mysteriis Dom Sathanas”, unico parto ufficiale della band (se si esclude il marcissimo Ep “Deathcrush”, ancora molto old school, uscito nel 1987) con Euronymous in formazione.
Un’opera, come detto, che si è fatta attendere: per la proverbiale lentezza del mastermind dovuta al suo perfezionismo (o alla sua pigrizia - le fonti divergono), certo, ma anche a questioni non secondarie come il suicidio del cantante Dead nel 1991 e l’omicidio dello stesso Euronymous da parte di Varg “Count Grishnakh” Vikernes, suo ex pupillo e, all’epoca bassista dei Mayhem, poco dopo il termine delle registrazioni. Tuttavia, quando l’inquietante castello nero della copertina fece il suo ingresso nei negozi di dischi, fu chiaro a tutti di essere davanti allo stato dell’arte di un movimento che già era diventato un genere.
Si può partire dalla formazione, che era a dir poco stellare: oltre alle sei corde di Euronymous, inventore e maestro di uno stile tanto devastante quanto raffinato e vario, troviamo la tellurica ritmica di quello che diventerà “il batterista black metal”, ovvero Jan Axel Blomberg aka “Hellhammer” che pervade con la sua doppia cassa ogni solco dell’album. Al basso la guest di lusso Varg Vikernes, titolare del progetto Burzum (sulla sua partecipazione all’album, leggenda vuole che, dopo la morte del leader, le tracce da lui registrate fossero state cancellate - in realtà Hellhammer ha dichiarato di essersi limitato a togliere il nome di Varg dai crediti del disco) e alla seconda chitarra Snorre “Blackthorn” Ruch, che con il gruppo Thorne aveva realizzato alcuni demo di pregio. Ma, soprattutto, “De Mysteriis dom Sathanas” è la consacrazione del più grande cantante estremo di sempre: dopo il suicidio di Per Ingve Ohlin, conosciuto come “Dead” ancora da vivo, frontman dotato di voce folle e di indiscutibile carisma scenico nonché autore di tutti i testi del gruppo, Euronymous, che non poteva certo optare per un qualsiasi rimpiazzo, chiama dall’ex-blocco sovietico Attilla Csihar, già leader dei miracolosi Tormentor. È la quadratura del cerchio: la voce ringhiante e teatrale del cantante ungherese si sposa perfettamente con le atmosfere da medioevo barbarico (indubbiamente nordico e mitteleuropeo) che emergono dall’ascolto dell’album. “Funeral Fog” apre il lavoro con un assalto ai sensi mai osato prima, composto da una ritmica ossessiva, chitarre gelide ma mai asettiche e una voce declamante e misteriosa che sembra portata dal vento. Le trame si fanno più complesse nell’incredibile “Freezing Moon”, dotata di aperture melodiche malate che ottundono l’ascoltatore ancora di più delle parti tirate. E sono solo i primi due brani, con la restante scaletta che mantiene livelli di creatività altissimi, da quella perla di nera psichedelia che è “Life Eternal” con il suo incedere cadenzato e ipnotico alla conclusiva e ieratica title track, tour de force recitativo di Attila Csihar.
Euronymous non vedrà mai il suo capolavoro finito, ma senza il suo genio il metal estremo sarebbe cresciuto privo di una delle sue ramificazioni principali, probabilmente quella che, al giorno d´oggi, ha dato più frutti (ovviamente avvelenati già alla fonte). Oggi “Black Metal” significa tantissime cose, eppure non esiste album che ne incarni meglio lo spirito di “De Mysteriis dom Sathanas”.

 

DARKTHRONE – A Blaze In The Northern Sky
(Norvegia)

 

DARKTHRONE – A Blaze In The Northern SkyLa nascita e l’evoluzione del black metal è passata soprattutto da numerosi demo registrati e fatti circolare tramite il tape trading, oltre che grazie alla conoscenza diretta di molti musicisti tra di loro. Pertanto è abbastanza inutile cercare di risalire a quale fu il primo disco della scena norvegese ad essere pubblicato. È, però, probabile che la palma spetti a “A Blaze In The Northern Sky”, secondo disco dei Darkthrone, dopo l’esordio death di “Soulside Journey”.
Ovviamente il disco non meriterebbe solo per questo il nostro interessamento, ma si dà il caso che il gruppo di Fenriz e Nocturno Culto sia stato tra i principali canonizzatori del verbo black: di fatto, quello che oggi viene definito come “true” è la riproposizione degli stilemi presenti in lavori come “Under A Funeral Moon” e “Transilvanian Hunger”. E “ A Blaze In The Northern Sky” ovviamente, un’opera che, oltre a proiettarsi avanti (siamo nel 1991), paga esplicitamente i debiti con le influenze passate, Celtic Frost in primis.
Immersi in una registrazione che definire low-fi è puro eufemismo, i sei brani del disco alternano sfuriate black scandite dalle percussioni ossessive di Fenriz a rallentamenti old school che creano un’atmosfera opprimente e oscura.
Rispetto ai compari dell’inner circle, i Darkthrone non prediligono gli ambienti esterni battaglieri, evocativi o misteriosi che siano, ma vivono nelle stesse catacombe di Hellhammer, Sarcofago e simili, accendendo ceri neri e disegnando pentacoli sui muri. Su tutto aleggia l’odore di zolfo costantemente evocato dal trio e che avrebbe reso orgogliosi i papà Venom.
Tra i solchi di “A Blaze In The Northern Sky”, insomma, emerge lo stesso marciume dei capolavori del decennio passato, ma il concetto di black metal espresso è quello ideato da Euronymous, tra l’altro esplicitamente ringraziato nei crediti del disco. Va notato, inoltre, che, rispetto ai lavori immediatamente successivi, questa seconda opera osa a livello di arrangiamenti, non solo inserendo squarci atmosferici da sabba nero, ma persino utilizzando chitarre acustiche perfettamente inserite nella struttura dei brani e spesso accompagnate da una ritmica assassina.
Risultato: un classico - il primo del black metal norvegese che, discograficamente parlando, parte qui. Non sarà l’unico capolavoro dei Darkthrone, che, in futuro, troveranno pure il coraggio per mandare a quel paese la scena, convertendo il loro black oltranzista in un punk-crust eccitantissimo, fino al recente “The Underground Resistance” che segna una svolta epic nella loro proposta.

 

IMMORTAL – Pure Holocaust
(Norvegia)

 

IMMORTAL – Pure HolocaustLi si potrebbe definire i Manowar del black. Non certo per l’inamovibilità stilistica (un’accusa, del resto, infondata anche per la band di Joey DeMaio), ma per la totale dedizione alla causa oltre che per l’amore sconfinato e sincero per la musica metal. Ed anche per il loro essere gioiosamente tamarri in un ambiente tanto patetico quanto serioso quale quello dell’inner circle di Euronymous.
Se cercate su YouTube il filmato con “i dieci più ridicoli video black metal”, noterete come loro occupino ben tre posizioni (e, a parere del sottoscritto, “Call Of The Winter Moon” strameritava di vincere!). Chi pensa a un atteggiamento meramente giovanilistico (in fondo, ai loro esordi avevano sui 16-17 anni), si dovrà ricredere cercando immagini dei loro recenti concerti: sono forse gli unici artisti black della prima ora a non aver rinunciato a borchie e corpsepainting.
Nonostante ciò, gli Immortal (che sono fondamentalmente Olve “Abbath Doom Occulta” Eikemo e Harald “Demonaz Doom Occulta” Naevdal, anche se quest’ultimo da tempo ricopre solo il ruolo di paroliere nel gruppo) si sono sempre tenuti lontani dalle derive ideologiche di molti loro colleghi e, soprattutto, dalle colonne di cronaca nera. Quello che importava (e importa) ai ragazzi è suonare il black metal più aggressivo ed arrogante possibile, passando dagli incerti ma esaltanti esordi di “Diabolical Fullmoon Mysticism”, all’olocausto sonoro della parte centrale di carriera, per poi approdare con successo a uno stile molto più meditato e classico che tutt’ora li caratterizza.
Benché “Battles In The North” sia generalmente considerato il loro capolavoro del periodo black, la mia preferenza va al precedente “Pure Holocaust”, parimenti incisivo a livello compositivo, ma senza il fastidioso ed eccessivo arrangiamento di batteria (blast beat come non ci fosse un domani), magari funzionale all’atmosfera da tempesta di neve voluta dalla band, ma assolutamente limitante per la fruizione del disco.
L’opera n.2, invece, è un godimento continuo per tutti i suoi 33 minuti: messo da parte il black di stampo bathoriano dell’esordio, i Nostri si lasciano influenzare dal nuovo sound di Oslo, congelando le chitarre e rimpolpando la ritmica. Demonaz si dimostra uno degli axeman più creativi della scena, riempiendo i brani di passaggi armonici sinistri e riff che tagliano il volto. “Unsilent Storms In The North Abyss”, “The Sun No Longer Rises” e la monumentale “As Eternity Opens” sono i capolavori di un album che non spreca neanche un istante nella sua furia distruttrice.
I testi, lontani da qualsiasi pretenziosità, trattano esclusivamente temi fantasy, evocando l’immaginario mondo di Blashyrkh creato da Demonaz, le cui vicende sono narrate dalla voce bassa e ringhiante di Abbath.
Nonostante le pose truci, insomma, gli Immortal hanno incarnato fin dall’inizio l’anima più divertente e scanzonata del black metal. E, cosa da non sottovalutare, sono tra i pochi a vantare una carriera sostanzialmente priva di cali. Un qualsiasi disco degli Immortal, male che possa andare, è comunque un’istigazione all’headbanging piú sfrenato.

 

IMPALED NAZARENE – Tol Cormpt Norz Norz Norz
(Finlandia)

 

IMPALED NAZARENE – Tol Cormpt Norz Norz NorzPrendete il concetto stesso di black metal (o, in generale, di metal estremo), comprimetelo in una lattina, come la merda di Piero Manzoni, e fatelo esplodere nel vostro stereo, ma attenti agli schizzi di dubbia natura che ne usciranno fuori.
È l’effetto dell’esordio dei finnici Impaled Nazarene, il gruppo dal moniker più crassamente blasfemo di sempre: 29 minuti di macelleria sonica per raccontare una messa nera che non ha nulla a che vedere con quelle dei vari Black Widow o Coven. Qui, al pari di quanto avveniva con i Venom, il Diavolo, epurato da ogni forma di pretenziosità, è solo uno sponsor di sesso, alcol e ultraviolenza.
E l’ironia? Per una volta tanto vi faccio contenti: nella costante ricerca al paradosso, ce n’è in abbondanza. Magari ai tempi dell’esordio era meno evidente, ma nei lavori successivi è innegabile, nonostante le prese di posizione di un offesissimo Mika Luttinen (mastermind del gruppo e unica presenza costante dal 1990 ad oggi) che pretenderebbe di essere preso sul serio. Ma, francamente, con titoli come “Steelvagina”, “Motorpenis” e “I Eat Pussy For Breakfast”, chi ha voglia di farlo?!
Ma non è solo per il gusto goliardico che gli IM si fanno voler bene: al fine di raggiungere il loro grado zero di violenza, i nostri eroi aprono il vecchio baule delle prime influenze black e ne sfruttano il contenuto a meraviglia. I Motorhead e tutto il punk più snotty (il dimenticato GG Allin in primis) emergono evidenti tra le trame minimali del disco, raggiungendo risultati molto vicini alla prima scena grind. “Tol Cormpt...” è una corsa a folle velocità verso l’ano di Satana, come solo gli Slayer di “Reign In Blood” avevano osato concepire e con un’incoscienza decisamente superiore.
Poi, certamente, i successivi “Ugra-Karma” (primi coraggiosi pasticci con l’elettronica in ambito estremo) e “Finland Suomi Perkele” (decisamente più punky) sono di qualità superiore. Eppure, concettualmente, l’esordio della band di Sir Luttinen (un uomo che ha fatto del parossismo la sua ragione di vita) è imprescindibile per il modo in cui liofilizza il black metal, non senza intenzioni parodistiche (ascoltare “Goat Perversion” per credere!). Sono stati anche tra i primi a rinunciare al faceprintig, in favore di un look nichilista/post-atomico più consono alla loro proposta. Curioso che l'altro gruppo finlandese che abbia conteso agli Impaled Nazarene la menzione su quest'articolo, i Beherit, si caratterizzi, invece, per una lentezza quase esasperante.

 

BURZUM – Hvis Lyset Tar Oss
(Norvegia)

 

BURZUM – Hvis Lyset Tar OssChristian Vikerness è un pessimo e triste figuro: già accusato di aver attentato al patrimonio culturale norvegese ed umano con la partecipazione ai roghi di chiese nei primi anni 90, si è macchiato nel 1993 dell’omicidio del suo amico e mentore Øystein Aarseth in circostanze a dir poco miserabili (una rissa per pochi spiccioli). Come se non bastasse, è convinto sostenitore di teorie nazistoidi che non manca anche oggi di propagandare nelle sue deliranti interviste.
Varg “Count Grisnakh” Vikernes (incidentalmente lo stesso povero gramo di cui sopra) è stato uno dei massimi poeti del metal estremo. Con la creazione del progetto Burzum  realizzerà le pagine più evocative e mature di tutta la prima ondata del movimento. Sottogeneri come il “pagan”. il “depressive” o l’”atmosferic” sono inconcepibili senza capolavori come “Hvis Lyset Tar Oss” e “Filosofem”, arrivati alle stampe dopo i comunque pregevolissimi “Burzum”, “Aske” e “Det Som En Gang War”.
Già dagli esordi, è chiaro come a Varg non interessi minimamente la furia di matrice death o thrash (da cui altri artisti coevi, Euronymous in primis, non avevano la benché minima intenzione di prescindere, nonostante certe furbe dichiarazioni ufficiali) ma miri alla creazione di atmosfere maestose, selvagge e tristi quanto il paesaggio scandinavo d´inverno.
Il quadro che il mastermind del gruppo ha in mente è già perfettamente tratteggiato in “Hvis Lyset Tar Oss”- opera che meriterebbe l’acquisto anche solo per la meravigliosa copertina del pittore norvegese Kittelsen. Soltanto quattro brani, ognuno di circa 10 minuti, in cui a farla da padrone sono mastodontici riff di chitarra spesso reiterati allo spasimo e così imponenti da sembrare accordi d’organo.
Se la lentezza e la pesantezza in ambito metal, fino a quel momento, erano state prerogative di un genere come il doom, Vikernes cambia radicalmente la prospettiva, alzando l’ascoltatore in cielo per fargli abbracciare con lo sguardo un mondo silenzioso e incontaminato, i cui misteriosi e leggendari tempi passati sono fonte di meraviglia e struggimento- con più di un’analogia con i dischi dei Bathory nel periodo “vichingo”, “Twilight Of The Gods” soprattutto. Quasi tutti i testi, infatti, parlano della perdita di “ciò che era” (il brano che apre l’album si intitola, appunto,“Det Som en Gang War”) in un tempo che forse non è mai esistito. Il discusso screaming (effettivamente urtante a tratti) dell’artista è, in fondo, funzionale a questa profonda malinconia. Tuttavia l’opera, come succede solo nei capolavori, non solca mai il confine della rottura di coglioni (cosa che accadrà spesso e volentieri a seguaci troppo zelanti, tipo Kanwulf dei Nargroth), grazie a quel senso di equilibrio tipico dei grandi. In “Hvis Lyset Tar Oss” ogni accordo, ogni riff e le solenni tastiere di accompagnamento diventano, mentre li ascolti, parte del paesaggio al pari di fiumi, foreste e rocce. Parlare di “musica ambientale”, come per certe creazioni di Brian Eno, non è un azzardo, e ne è prova la conclusiva “Tomhet”, una lunga composizione strumentale fatta solo di poche note di sintetizzatore, che creano un’atmosfera di attesa straniante.
Il Conte farà ancora meglio nel successivo “Filosofem”, prima che il carcere lo tenga lontano dalle scene per quasi un ventennio (al ritorno a piede libero realizzerà due altri capolavori come “Belus” e “Fallen”, per poi dare alle stampe alcuni lavori scontati ed alimentari), tuttavia “HLTO” resta un’opera incredibilmente innovativa e coraggiosa. Più che una pietra miliare, una pietra d’angolo.

 

ROTTING CHRIST – Thy Mighty Contract
(Grecia)

 

ROTTING CHRIST – Thy Mighty ContractQuando si parla di black metal, il primo paese che viene in mente è, giustamente, la Norvegia. Segue, a distanza notevole e un po’ per osmosi, la confinante Svezia, la cui, pur ottima, scena, tuttavia, non ha inciso sull’evoluzione del genere quanto quella, più oscura, greca. Gli ellenici hanno avuto il merito di portare avanti il discorso intrapreso da Venom e Celtic Frost in una maniera del tutto personale, tra l’altro contestualmente all’ “inner cirle” norvegese. Meno feroci, forse, ma parimenti malvagi ed entusiasmanti!
Punta di diamante di questa scena mediterranea, i Rotting Christ (ragione sociale che sembra tirata fuori in una gara di bestemmie alle medie) dei fratelli Sakis (voce e chitarra) e Themis (batteria) Tolis esordiscono nel 1991 con l’ottimo Ep “Passage To Arcturo”. Il loro black metal ha più di un analogia con quello dei Darkthrone (che lo stesso anno rilasciavano “A Blaze in the Northern Sky”): predilige i tempi cadenzati alle sfuriate e l’atmosfera all’aggressività. Quello che si nota di particolare è una passione evidente per ogni genere di metal: quello classico, il doom e persino l’odiatissimo (dai blackster scandinavi) death.
Queste caratteristiche troveranno già perfetta maturazione nell’esordio a 33 giri, ovvero “Thy Mighty Contract”, un capolavoro del metal tout court al pari del successivo “Non Serviam”. Gli otto brani che lo compongono sono una marcia trionfale del signore degli inferi nella notte in cui le stelle definitivamente si spegneranno e l’inferno sarà sulla terra. Ad officiare Sakis Tolis, uno dei migliori chitarristi metal- non certo perché virtuoso (Satana ce ne scampi!), ma perché fa cose semplici e pazzescamente efficaci. I riff che tira fuori in perle come “Exiled Archangels” e “The Fourth Knight Of Revelation”, con arrangiamenti diversi, starebbero benissimo in dischi epic o classic metal (e non è un caso che, almeno negli ultimi dieci anni, una delle scene di punta in questi generi sia proprio quella greca).
Il fratello Themis, da parte sua, pesta sulla batteria, creando una ritmica minimale, ma perfettamente funzionale all’atmosfera, lontana anni luce dai massacri supersonici di gente come Hellhammer e Frost. Ad impreziosire i brani c’è, poi, l’utilizzo delle tastiere (tra le prime in assoluto in ambito black), mai eccessivo e sinfonico, ma sinistramente evocativo.
Epica oscura, priva del gelo nordico, ma con un fascino lovecraftiano immutato nel tempo. Caratteristiche, queste, che contraddistingueranno l’intera produzione dei fratelli Tolis, giunta ai giorni nostri con qualità immutata.

 

CRADLE OF FILTH – The Principle Of Evil Made Flesh
(Inghilterra)

 

CRADLE OF FILTH – The Principle Of Evil Made FleshVedo una gran quantità di sopraccigli alzati e immagino le obiezioni di pallosi oltranzisti sulla mancanza di credenziali del sestetto inglese. Un gruppo gothic che usa il black come pretesto? Forse per il proseguimento della loro carriera (a partire dall’ottimo, e vendutissimo, “Dusk And Her Embrace”), ma certamente non in questo splendido disco d’esordio. Delle commerciali meretrici? Passati i 15 anni, fisici o mentali, non vedo come ciò possa essere considerato un difetto, senza tener conto che fa sorridere sentire qualcuno definire “commerciale” musica così pensante e oscura. Dico di più: se oggi il black metal è uno dei generi più amati e suonati, lo si deve anche al gran successo raggiunto dai COF attorno alla metà degli anni 90, non solo per aver (ri)portato il genere fuori dalla Scandinavia, ma anche per avere, tra i primi, dimostrato quanto fosse versatile. Nella musica dei Nostri convivono black, death, influenze gotiche, orchestrazioni e tastiere come se piovesse e una passionaccia per gli Iron Maiden. E questo già in un album che vide le stampe prima di “For All Tid” dei Dimmu Borgir e di “In The Nightside Eclipse” degli Emperor. Se non sono meriti questi…
Last but not least, il gruppo dell’istrionico cantante Dani Filth (capace di passare con nonchalance da uno scream ultrasonico a un oscuro grugnito death) fu tra i primi a rifiutare le atmosfere seriose della scena norvegese, in favore di ambientazioni dark-vampiresche da romanzetto di serie B con dosi abbondanti di sangue e figa tanto nei testi quanto nella grafica. E anche questo, se vogliamo, è un forte segnale di apertura all’esterno.
Potremmo continuare a parlare di “The Principle Of Evil Made Flesh” solo per la sua importanza storica, dimenticandoci però che buona parte della sua scaletta suona eccezionale anche oggi. Dalla meravigliosa doppietta iniziale della title track e della insinuante “The Forest Whispers My Name” fino a quell’assoluto capolavoro della conclusiva “Summer Dying Fast”, il disco sembra un viaggio nei meandri di qualche oscuro castello abbandonato, perfetto accompagnamento di un horror gotico di Mario Bava. Il tutto unito a una produzione ineccepibile e ad arrangiamenti, per l’epoca, assolutamente innovativi.
A differenza della maggior parte dei gruppi della prima ondata black, tuttavia, i COF, dopo la fine degli anni 90, segneranno la china con una serie di lavori poco ispirati e abbastanza ripetitivi, seppur sempre molto venduti. Evidentemente agli inglesi è mancata la capacità di re-inventarsi tipica dei dirimpettai norvegesi.

 

ENSLAVED – Frost
(Norvegia)

 

ENSLAVED – Frost“Frost” se l’è giocata fino all’ultimo con il precedente “Vikingligr Veldi”, parimenti degno di stare in questa lista. Si tratta di due dischi che, pur essendo usciti lo stesso anno di grazia 1994, presentano notevoli differenze: monolitico, suggestivo e oscuro il primo, decisamente più dinamico e fantasioso il suo successore. Il motivo della preferenza per l’opera n. 2 dei vichinghi del black metal è legata alla sua importanza storica - se non si tratta del disco più imitato della storia della musica estrema, poco ci manca.
Si discute spesso se i sottogeneri “viking” e “pagan” debbano essere ricompresi nell’alveo del black metal, poste tuttavia le indiscutibili influenze dei Bathory e della scena epic americana (Cirth Ungol in primis). Ebbene, “Frost”, assieme a “Bergtatt” degli Ulver, ne è la prova più lampante. E non solo per i testi, che si richiamano alle leggende norrene, ma, soprattutto, per la musica devastante ma indicibilmente evocativa e melodica. Tra i solchi di “Frost” non c’è nulla dell’oscura malvagità di Mayhem e Darkthrone, ma una sincera passione, che farà scuola, per la storia, i miti e le tradizioni della propria terra. Attitudine che si riverbera anche nel look della band, che evita borchie, corpsepainting e nickname satanici, in favore di uno stile più legato al passato scandinavo.
Dopo l’intro atmosferica che dà il titolo all’album, “Loke” si apre sinistra per poi sfociare in una cavalcata selvaggia, mentre la voce stridula di Gruttle Kjellson narra le vicende dell’antagonista degli dèi nordici. Però i ritmi concitati di questo primo brano resteranno un’eccezione in un disco in cui prevalgono brani lunghi cadenzati con moderato utilizzo del blast beat, molto popolare tra gli altri blackster. Le articolate “Fenris” e “Svarte Vidder” sono un volo sopra le montagne norvegesi dove, in tralice, si possono già notare le influenze progressive che caratterizzeranno la carriera “matura” della band. Il  leader e compositore Ivar Bjornson azzarda, oltre all’uso sistematico delle tastiere, numerosi arpeggi e passaggi melodici che accentuano il respiro epico dei brani, arrivando fino a tentare la carta di una “quasi ballata” nella conclusiva “Isoders Dronning”.
Dopo “Frost” il gruppo entrerà in un periodo piuttosto interlocutorio, dal quale uscirà brillantemente negli anni Zero con una serie di dischi-capolavoro che mischiano metal estremo, progressive e psichedelia. Nessuno, di certo, influente come “Frost”.

 

EMPEROR – In The Nightside Eclipse
(Norvegia)

 

EMPEROR – In The Nightside EclipseSpesso, quando si parla dell’esordio sulla lunga distanza degli Emperor dopo l’omonimo Ep del 1992, si tende a sottolineare l’importanza dell’introduzione delle tastiere nel movimento, affibbiando al quartetto il  ruolo di progenitore del symphonic-black. Mah…. A parte il fatto che le tastiere erano utilizzate abbondantemente anche contestualmente (vedi gli Enslaved) o precedentemente (i Burzum) e che l’esordio dei Cradle Of Filth, oltre ad essere stato dato prima alle stampe, era decisamente più “sinfonico”, i meriti del gruppo di Ihsahn e Samoth (un terzo socio fondatore, Mortiis, sconvolto dagli exploit criminali dell’inner circle aveva pensato bene di rifugiarsi in Svezia per evitare le attenzioni delle forze dell’ordine - lo ritroveremo in una carriera solista atipica e di pregio) sono altri.
In primo luogo, l’aver ibridato la musica progressive con il black: nei brani degli Emperor c’è la stessa struttura libera dalle restrizioni formali di gruppi come King Crimson e soci- oltre a una tecnica decisamente sopra la media. Le analogie saranno ancora più evidenti nel prosieguo della breve carriera della band e nei dischi solisti del leader Ihnsan.
Inoltre, “In The Nightside Eclipse” cala il black metal in un’atmosfera esoterica e fantastica (amplificata dalla produzione “opaca” di Pytten) apparentemente lontana dal contesto nordico di buona parte delle band della scena, eppure incredibilmente suggestiva. Ma, soprattutto, l’esordio dei nostri non sbaglia un colpo. L’oscura intro è presagio di una tempesta imminente, che si materializza nella devastante “Into The Infinity Of Thoughts”. Ihsahn canta come una furia, passando dallo scream più stridulo al growl più gutturale, mentre i compagni attorno creano trame intricate eppure istintivamente godibili. “Cosmic Keys To My Creation And Time” si apre con uno dei riff più belli ed evocativi della storia del metal estremo, mentre “Towards The Pantheon” passa con la stessa brillantezza dal sogno all’incubo.
Le perle dell’album, comunque, si trovano nella doppietta conclusiva: “I Am The Black Wizard” è caratterizzato da una grandeur oscura che mette i brividi sia nell’inizio devastante che nel finale cadenzato e ossianico. “Inno a Satana” è pura solennità da messa nera, con la voce del frontman che sembra salire al cielo (non fossimo certi che, invece, punta dritta alle viscere della terra) e le chitarre che dialogano brillantemente con fraseggi sinistri. Degna conclusione di uno dei dischi più rilevanti della storia del black.
Le successive vicissitudini (l’arresto del batterista Bard Faust per omicidio e del chitarrista Samoth per la profanazione di cimiteri e luoghi sacri) mineranno la stabilità del gruppo, che, tuttavia, riuscirà a regalarci almeno un altro capolavoro, ovvero l’elegante “Anthems Of The Welkin At Dusk”.

 

ULVER – Bergtatt
(Norvegia)

 

ULVER – BergtattCercate la pagina degli Ulver su Wikipedia e leggete alla voce “genere”: sono indicate ben nove categoria, da “black metal” a “rock psichedelico”, passando per “trip-hop”, “elettronica” e folk-metal”, a riprova della grande versatilità e inestinguibile curiosità del cantante Kristoffer ”Garm” Rygg e sodali.
Mai fermi e mai derivativi, i lupi esordiscono nel 1995 con un album che segna un punto di svolta nella scena black, dopo la prima ondata di capolavori (e, quindi, con un incombente rischio di standardizzazione). “Bergtatt”, concept ispirato da un’antica leggenda scandinava su una ragazzina stregata e “rapita” dalla montagna, si pone come obiettivo quello di superare il “modello Mayhem” e ci riesce già nel primo dei cinque brani che lo compongono: “I Troldskog Faren Vild” si apre con un rullante di batteria e un giro di accordi da ballata elettrica su cui si innalza il canto impostato e (gasp!) totalmente pulito del frontman. Il brano resta meravigliosamente cadenzato per quasi tutti i suoi 8 minuti, mentre le voci si moltiplicano con un effetto magico e straniante, quasi si trattasse di un coro da chiesa, concedendosi solo nel finale uno scarto di ritmo con un passaggio quasi in stile “epic” che non sfigurerebbe in uno dei primi dischi dei Manowar o in un’opera dei Bathory.
“Soelen Gaaer Bag Aese Need” (tutti i testi sono in norvegese antico) va addirittura oltre, aprendosi con un malinconico giro di chitarra acustica accompagnato da un flauto, improvvisamente interrotto da una sfuriata black, che, tuttavia, è completamente priva del gelo e della malvagità degli altri gruppi della scena, dimostrando come per gli Ulver il black metal sia soprattutto un mezzo ricreare l’epica degli antichi canti popolari scandinavi. Non a caso, sarà da “Bergtatt” in poi che si potrà parlare di “folk-metal” in senso compiuto.
Assolutamente estranei ad ogni tamarraggine nordico-satanica cara a gente come gli Immortal o i Darkthrone, i Nostri, nonostante la giovanissima età, mantengono un ammirevole rigore musicale e narrativo per tutta la durata del disco, ricco di cori ficcanti, attacchi feroci come il vento d’inverno e intermezzi acustici mai scontati, avvicinandosi allo stile, anche se con maggiore leggerezza e varietà, dei primi Enslaved. Gli arrangiamenti sono vari, curati e, molto spesso, insoliti (per dirne una, in alcuni passaggi più aggressivi il basso non cerca la velocità degli altri strumenti, ma resta solenne e lento a macinare note, creando una straniante poliritmia) senza però che la spontaneità venga mai meno.
Il folk-metal e il viking nascono anche qui, ma stiamo parlando di un’opera straordinaria destinata a restare unica nel suo genere. Dopo quest’esordio, gli Ulver continueranno la loro opera di destabilizzazione della scena black, dando alle stampe prima un album interamente acustico (“Kveldssanger”) e, successivamente, un disco pesantissimo e decisamente low-fi come “Nattens Madrigal” (entrambi capolavori!), per poi decidere che al metal avevano dato abbastanza e iniziare ad allontanarsi dal genere a partire dal successivo concept sulle poesie di William Blake, molto in stile avantgarde, ed, infine, battezzare il nuovo millennio con un meraviglioso disco di elettronica dal titolo “Perdition City”.

 

VED BUENS ENDE – Written In Water
(Norvegia)

 

VED BUENS ENDE – Written In WaterSe la Norvegia è stata il collo di bottiglia all’interno del quale è incubato il black metal come lo intendiamo oggi, è sempre dal paese scandinavo che si deve partire per parlare dell’ampliamento del campo stilistico e, successivamente, geografico che caratterizzerà il genere dal 1995 in poi.
Perché è proprio da quell’anno che si inizierà a parlare di “post” o “avantgarde” riferito al black e lo si farà principalmente per quest’opera, in cui convivono metal estremo, jazz e sperimentazioni vicine alla scena di Louisville.
Yusef “Vicotnik” Parvaz, voce e chitarre, Hugh “Skoll” Mingray al basso e Carl- Michael “Aggressor” Eide dietro le pelli sono membri (o ex-membri) di gruppi importanti come Arcturus, Ulver e Aura Noir e, insieme, sono stati i Ved Buens Ende - autori di un unico lavoro tanto seminale quanto duro da digerire. Pari a “2001- Odissea nello Spazio”, “Written In Water” è un monolite misterioso e magari frustrante, ma non aggirabile (al più, ci si può pisciare sopra).
Messe da parte chitarre gelide, atmosfere epiche o esoteriche, ritmiche asfissianti, Satana e Odino, i Nostri optano per un suono astratto di evidente matrice jazz, seppur indiscutibilmente sinistro. La chitarra di Vicotnik gira liberamente in territori da incubo inafferrabile, del tipo di cui, alla mattina, restano solo vaghe impressioni, ora grattando senza pietà, ora esibendosi in arpeggi oscuri dal retrogusto psichedelico. La produzione sporca e il cantato (disperato ma distante) accentuano la sensazione onirica della musica. Skoll e Aggressor, da parte loro, regolano i tempi del viaggio con una ritmica imprevedibile e dalle tante sfumature.
Ripeto: non si tratta di un disco facile e, a conti fatti, memorizzarne i singoli passaggi è un’impresa non da poco. Ma è un’opera fondamentale per come ha indicato, in piena esplosione della scena black, la presenza di “oltre” difficilmente immaginabile tra le pieghe del genere. Numerosi gruppi recenti, come i giustamente lodati Deathspell Omega, devono moltissimo all' "astrattismo metal" di "Written in Water".

 

MARDUK - Heaven Shall Burn… When We Are Gathered
(Svezia)

 

MARDUK - Heaven Shall Burn… When We Are GatheredPer quanto il black della prima metà degli anni 90 sia una questione prevalentemente norvegese, la scena della vicina Svezia, più famosa in quegli anni per la produzione death, si faceva notare per violenza e intransigenza. Mentre i vicini riflettevano sulle possibilità espressive della musica estrema e sulla tradizione folk scandinava, gli svedesi sgozzavano caproni sui pentacoli e, in mezzo al sangue, defloravano le vostre figlie tredicenni con vecchi vinili thrash in sottofondo. Insomma, satanismo senza limitismo e metallo incandescente!
Dura scegliere un gruppo nella triade delle meraviglie Marduk-Dark Funeral-Dissection, ma, alla fine opto per i primi: questioni anagrafiche, di popolarità e, soprattutto, di qualità media fanno vincere il gruppo del chitarrista Morgan Steinmeyer Hakansson, unica presenza costante nelle varie formazioni del gruppo che si sono avvicendate nel tempo.
Un altro problema è scegliere quale loro disco portare in questa rassegna, dato che, se si tolgono gli esordi immaturi e ancora molto legati al death metal dell’Ep “Fuck Me Jesus” (e non avete ancora visto la copertina!) e del 33 giri “Dark Endless”, almeno fino alla metà degli anni Zero il gruppo non ha sbagliato un'uscita, con alcuni vertiginosi vertici come la fucilata in pieno stomaco di “Panzer Division Marduk” (1999) e questo strepitoso quarto lavoro, il primo con l’abrasiva voce di Erik “Legion” Hagstedt.
Caratteristica della proposta svedese è un mix di inaudita violenza ed epica melodia. Lungi dall’alternare dissonanti assalti a intervalli con tastiere o chitarre acustiche, i Marduk non mollano mai la presa, frullando insieme riff di scuola metal "classica" e ritmica schiacciasassi, come un bolide lanciato a 300 all’ora a fari spenti nel cuore della notte che, per qualche miracoloso motivo, resta ancorato all’asfalto.
L’iniziale “Beyond The Grace Of God” setta perfettamente le coordinate, con quella meravigliosa chitarra di scuola primi 80 sommersa in un inferno sonoro. Poi sarà un susseguirsi di esaltanti cavalcate power black (“The Black Tormentor Of Satan” e “Glorification Of The Black God”, che si apre con una citazione de “Una Notte sul Monte Calvo” di Musorgskij), angoscianti rallentamenti doom (“Dracul Va Domni Din Nou In Transilvania”) e devastanti attacchi para-grind (“Darkness It Shall Be”).
Metallari fino al midollo, i Marduk hanno sempre inteso il black metal come un eccitante carrozzone con cui stimolare il nostro fanciullino interiore a forza di bordate battagliere e blasfemia gratuita. Non degli innovatori come i Mayhem, né geniali creativi come gli Ulver, ma orgogliosi fabbri che, in quanto tali, picchiano fortissimo.

 

SATYRICON – Nemesis Divina
(Norvegia)

 

SATYRICON – Nemesis Divina“Shadowthrone”, il secondo disco dei Satyricon (dopo l’esordio di “Dark Medieval Times”, non privo di spunti interessanti ma decisamente acerbo) è un capolavoro che avrebbe tutti i requisiti per stare in questa lista: suono incisivo e vario, grande creatività negli arrangiamenti, produzione di ottimo livello e una scaletta impeccabile nella quale spiccano perle come “In The Mist By The Hill” e “Dominions Of The Satyricon”.
C’è, però, un problema: il successivo “Nemesis Divina” non solo gli è superiore, ma, forse, è, qualitativamente parlando, la migliore opera (ma non la più importante) delle prima ondata black. E non è un caso se, dopo la sua uscita, tutti i gruppi della scena, Satyricon compresi, cominceranno ad allontanarsi dal genere cercando ognuno approdi diversi: oltre “Nemesis Divina”, francamente, era ben difficile andare mantenendo quegli stilemi.
Si tratta, inoltre, dell’album che contiene “Mother North”, e basterebbe questo! Se volete rendere a un vostro amico l’idea di cosa sia il black metal, fategli ascoltare questi sei minuti, in cui non ci si fa mancare proprio nulla: coinvolgente melodia vichinga, riff miracolosamente gelidi e pieni di pathos, percussioni da battaglia e solenni intermezzi atmosferici. Sembra la colonna sonora di un film che daresti un dito per vedere (bisogna però accontentarsi del video che accompagna il brano, meritevole solo per la patata “barely legal” che vi compare).
Ma non si tratta dell’unico pezzo da novanta che Satyr (voce, chitarra, basso e tastiere nonché unico compositore del gruppo), Frost (batterista meno devastante di Hellhammer, ma decisamente più tecnico e fantasioso) e Kvelduv (aka Nocturno Culto dei Darkthrone, secondo chitarrista solo su quest’album) piazzano nell’album. Già l’opener “Dawn Of A New Age” stupisce per varietà e creatività, con un rincorrersi di riff meravigliosamente intricati e un crescendo fino al cadenzato finale che mette i brividi. “Forhekset” e “Immortality Passion” portano l’ascoltatore in un ideale medioevo nordico e richiamano le immagini di capolavori come “La Fontana della Vergine” o “Il Settimo Sigillo” di Ingmar Bergman, mentre la conclusiva “Trascendental Requiem Of Slaves”è un sinistro brano ambientale.
Come detto, un disco probabilmente insuperabile nel suo genere: dal successivo “Rebel Extravaganza” i Satyricon abbandoneranno il black per tentare la strada (disseminata di album controversi, di cui alcuni obiettivamente poco riusciti) di un metal più scarno, lento e con evidenti influenze industrial. Una scelta coraggiosa, anche se il gruppo non riuscirà mai più neanche ad avvicinarsi ai vertici di “Nemesis Divina”.

 

WINDIR – Arntor
(Norvegia)

 

WINDIR – ArntorL’amore per la storia, i miti e le tradizioni della propria gente è uno dei tanti aspetti del black metal, probabilmente quello che più ha attecchito nell’immaginario dei tanti appassionati, al pari di satanismo ed esoterismo. Quasi ogni paese europeo (e non) ha le sue band che uniscono sonorità estreme a melodie popolari, con il rigoroso utilizzo della propria lingua o dialetto, seguendo la strada segnata da Bathory ed Enslaved.
In generale, si parla di “folk-metal”, in particolare, quando le suggestioni sono scandinave o baltiche e l’epica è particolarmente battagliera, si parla di “viking”, e, a rappresentare degnamente questa scena, tra la vasta e valida concorrenza, scelgo l’opera d’arte del compianto Terje Bakken in arte “Valfar” e dei suoi Windir.
Arntor fu un contadino guerriero (Windir, appunto) che parteggiò per il re norvegese Magnus Erlingsson deposto dal malvagio usurpatore faroese (e, quindi, un po’ terrone) Sverre Sigurdsson, facendo la fine che la storia riserva sempre ai buoni: ammazzato malamente dagli scherani del despota mentre difendeva la propria fattoria.
Fin qui il concept. Quello che rende il secondo lavoro dei Windir un capolavoro è la messa in scena magistrale: l’unione tra folk scandinavo e musica estrema, infatti, non si limita a un'alternanza di parti tirate e inserti melodici, come avveniva spesso in passato, ma, per tutti i sette brani del disco, il metal viene adattato alla forma della musica popolare, dalla quale devia giusto in modo da evitarne l’insita ripetitività.
Un ottimo esempio dello stile di Valfar si trova già nel prologo del disco: un malinconico tema di fisarmonica irrobustito e reso epico prima dall’accostamento con gli strumenti ritmici e, poi, dalla chitarra elettrica che ne modifica la struttura. È il classico a dettare le regole, che il moderno infrange quando c’è da cercare una nuova prospettiva.
Un'introduzione che funge anche da programma per il resto dell’album: più che puntare solo su velocità e aggressività (che, comunque, non mancano), la chitarra del mastermind insiste poco sul riffing e preferisce giocare su note acute, creando atmosfere ora aspre (“Arntor, Ein Windir”) ora sognanti (“Svartesmeden Og Lundamyrstrollet”) e lasciando alla strepitosa sezione ritmica il compito di tenere alto il tiro. I sintetizzatori e la fisarmonica colorano il tutto di livide atmosfere nordiche, al pari dei cori battaglieri, soprattutto nei brani in cui l’influenza folk è più marcata (“Kampen”). Al top, è perfetta saldatura di tutte le anime (“Kong Hydnes Haug”, “Ending”).
Insomma, un’indiscutibile pietra miliare di un (sotto)genere ormai consapevole della propria unicità e potenzialità.
Valfar ci ha lasciati troppo presto, ma possiamo consolarci pensando che, da qualche parte tra i fiordi norvegesi, il suo spirito si accompagna a quello di Arntor e degli altri eroi del suo pantheon

 

ABORYM – Kali Yuga Bizarre
(Italia)

 

ABORYM – Kali Yuga BizzarreUn cazzotto con il pugno di ferro ben assestato a ogni forma di purismo da parte di una delle compagini più creative e coraggiose della scena black. Nel 1999 l’esordio della band pugliese-romana ha avuto una rilevanza tale da riportare l’Italia al centro della musica estrema (che, in fondo, aveva contribuito a codificare grazie a gente come Bulldozer e Necrodeath), in anni in cui, al nord del Brennero, esportavamo solo draghi, folletti e orchestrazioni ultra-kitsch.
“Kali Yuga Bizzare” è un tale capolavoro che si fa perdonare anche gli evidenti difetti: una produzione opaca che non rende, arrangiamenti eccessivamente ridondanti e, soprattutto, un’inutile e gratuita tirata fascista piazzata in mezzo al platter.
Questo perché il disco codifica, e lo fa in maniera egregia, quello che verrà definito “industrial metal”, rivestendo l’amato black con strati e strati di elettronica, portando così a definitiva maturazione le intuizioni di Celtic Frost (la blasfema “One In Their Pride”), Impaled Nazarene (il titolo dell’album cita un brano di “Ugra-Karma” e si capisce anche perché) e Mysticum.
L’effetto è straniante (tanto più che il concept del disco riguarda i riti misterici dell’antica Roma) e di innegabile fascino. Il flirt con la musica sintetica non si consuma con l’utilizzo della drum machine, ma la pervasione di circuiti nella carne malata del metal, manco fossimo in un film di Cronenberg, è totale (indicativa, in tal senso, la cover di un brano dei Coil “Hellraiser”). La ritmica alterna blast beat di matrice black con break beat presi dalla musica techno più ossessiva. Le tastiere si infilano nei brani come tante lame affilate. Ma, soprattutto, a dare un piglio disumano al lavoro, sono le voci di Yorga e del nume tutelare Attila Csihar (guest in tre brani), vere e proprie anime dannate calate in un contesto ipertecnologico.
Meravigliosamente “Kali Yuga Bizzarre” evita anche la trappola dell’atmosfera da sala operatoria, tipica di molti lavori analoghi e in cui successivamente anche gli Aborym cadranno in qualche occasione. Il suono è, a tratti, gelido, ma mai a rischio di spersonalizzazione, questo per l’entusiasmo da opera prima e la passione del combo per il metal classico, esplicata in brani come il capolavoro “Roma Eterna Urbs”.
Mentre in Scandinavia (e non solo), molti dei “second movers” della scena black si involvevano nella trita riproposizione degli stilemi mayhemiani (l’inutile “true norwegian black metal”), la sperimentazione e il desiderio di osare tipico del genere trovavano patria nei restanti paesi europei, tra cui il nostro. Curioso che un genere considerato (spesso non a torto) di estrema destra si sia sempre caratterizzato per uno spiccato spirito progressista e internazionalista.

 

WEAKLING – Dead As Dream
(Usa)

 

WEAKLING – Dead As DreamFino agli anni Zero, gli Stati Uniti non erano stati significativamente presenti nel mondo del black metal. Certo, i primi Slayer sono da sempre un’influenza imprescindibile e alcuni artisti della scena norvegese (Varg Vikernes in primis) avevano espresso la loro ammirazione verso tali Von (autori di un unico demo dal valore alquanto discutibile), ma è solo entrati nel nuovo millennio che si comincerà a parlare di Usbm (United States Black Metal) come uno dei più rivoluzionari movimenti del panorama mondiale estremo.
“Dead As Dream”, unico parto dei californiani Weakling (nome tratto da un brano degli Swans - e non è un caso!), può essere considerato non solo la prima pietra di quella scena ma anche uno dei suoi modelli più seguiti (chiedere agli acclamati Wolves in the Throne Room). Nonché un indiscutibile capolavoro.
Parafrasando quello che venne scritto per “Pacific Rim” sul noto blog “i400calci”, i soli cinque brani che compongono il corpus del gruppo sono “grandi, così grandi da cagarsi sotto”. Non saprei definire in modo migliore il senso di spaesamento che ti pervade ascoltando “Dead As Dream”. Ti fa sentire minuscolo e in totale balia di eventi terrificanti e maestosi. E questo fin dallo spaventoso riff che introduce “Cut Their Grain And Place Fire Therein”, come un addensarsi di nuvole nerissime sui nostri orizzonti. Da lì in poi, è tutto mastodontico: lo sono le chitarre, persino negli intermezzi melodici come quello, straniante, che apre la title track, le tastiere, la ritmica terremotante e la voce lancinante del leader John Gossard.
L’influenza principe è, evidentemente, quella dei Burzum. Il cantato lo esplicita, ma la maestosità ambientale è l’evidente trait d’union. Solo che Varg aveva come riferimento assoluto l’incontaminata bellezza della propria terra, mentre le tele tratteggiate da Gossard & C. hanno più a che fare con suggestioni e angosce comuni dello spirito umano. Non c’è, infatti, niente di prettamente nordico nelle atmosfere dei Weakling. Gli stessi riff non sono taglienti come i dettami del black più canonico richiederebbero, ma spessi e ottundenti, quasi doom. L’utilizzo di rumorismi e sibili, soprattutto nella conclusiva “Disasters In The Sun” richiamano invece la scuola noise newyorkese, senza però la sua astrazione e mantenendo intatto il senso di tragedia dell’intero lavoro.
Insomma, “Dead As Dream” inventa il “black metal americano”, come nuova concezione del genere. E lo fa regalandoci 76 minuti di tremenda bellezza.

 

NEGURA BUNGET – Om
(Romania)

 

NEGURA BUNGET – OmSì, il titolo dell’album non inganna. Può esistere un metal estremo trascendentale e meditativo? Arrivati a questo punto della lettura, dovreste rispondere positivamente. E anche se conoscete il drone-metal dei vari Sunn O))) e compagnia.
I rumeni Negura Bunget, in realtà, avevano abituato l’ascoltatore a lavori anticonvenzionali e lontani mille miglia dal black canonico. Partiti nel solco del folk-metal, i primi 4 album del gruppo sono caratterizzati da una crescente attenzione per la spiritualità, in particolare legata al territorio transilvano. “’N Crugu Badului”, per dire, nelle sue quattro lunghe composizioni, racconta dei mutamenti della foresta durante tra una stagione e l’altra. Nulla a che vedere con croci rovesciate ed eserciti schierati su campi di battaglia.
“Om” va oltre, superando i confini locali e regalandoci un’opera che parla all’animo umano, in cui il folk è presente in dosi minori rispetto al passato, così come i momenti black più tirati. Quella che permea la quasi totalità dei brani è una ricerca spirituale volta alla luce e all’alto, inteso tanto come forma migliore di esistenza , quanto come post-esistenza.
“Tesarul de Lumini” è così intensa da fare male, come un’alba giunta all’improvviso che tutto pietrifica al suo posto. Dieci minuti di lancinante bellezza che arrivano a sfiorare la tranquillità mistica in mezzo alle onde di distorsioni.
Il resto del disco non è che la degna prosecuzione del viaggio interiore in cui ricordi, angosce e rabbia vengono purificati attraverso la meditazione. I diversi stati d’animo sono rappresentati ora da suoni ambientali, ora da inserti popolari e ora da ferocia metal. Il tutto è in meraviglioso equilibrio, fino alla catarsi dei due strumentali che rappresentano il primo e il secondo Om - la raggiunta illuminazione.
I nostri, nel loro percorso, rinunciano quasi del tutto ai riff di chitarra taglienti, prediligendo accordi pieni dal gusto più spaziale. Campane, percussioni e xilofoni aumentano il senso di stupore per una strada magari non facile, ma incredibilmente affascinante e formativa. Per l’ascoltatore e per il black metal tutto.

 

ALCEST - Souvenirs D'un Autre Monde
(Francia)

 

ALCEST - Souvenirs D'un Autre MondeE luce fu! Quando, nel 2007, “Souvenirs d’un Autre Monde” fece il suo ingresso nei siti di downl... ehm... nei negozi di dischi, l’effetto fu, a dir poco spiazzante. Non si era nuovi a un’interpretazione del black introspettiva, dilatata e totalmente priva di aggressività (Mortiis, che addirittura realizzava album di sole tastiere, gli Agalloch, la scena “depressive”, fino al metal “meditativo” dei Negura Bunget), ma quello che sconvolgeva, e in parte sconvolge ancora, nell’esordio sulla lunga distanza della one man band di Avignone (ovvero Stephane “Naige” Paut, già batterista degli altrettanto geniali Peste Noire) è la totale assenza di ogni forma di negatività, ruvidezza, tensione, gelo, epicità battagliera... insomma di tutte sensazioni che, fino a quel momento, erano evocate dalla totalità della produzione black.
Qualcuno (non molti a dire la verità - contrariamente a uno dei troppi cliché in materia, il metallaro medio in fatto di musica ha un’apertura mentale invidiabile) storcerà il naso, definendolo un disco shoegaze. E sbagliando, anche se non del tutto: l’influenza di My Bloody Valentine e simili è indiscutibile (paradossalmente, però, “Souvenirs…” suona molto meno urticante di “Loveless”) ma non si può mettere minimamente in discussione la natura metal (anzi black metal) dell’opera.
Questo perché Naige ha realizzato una perfetta rappresentazione in “negativo” del genere: le distorsioni black sono taglienti e gelide, lui le rende pastose e avvolgenti. Il cantato tipico è stridulo come quello di una strega o di un demone, il suo etereo come una fata o un angelo. Gli intermezzi melodici degli altri gruppi con chitarra acustica e tastiere servono a creare atmosfere sinistre, lui declina tutto in una forma luminosa e serena. I suoi colleghi inseriscono nei brani rumori di battaglie o di venti gelidi, lui registra le voci di bambini che giocano all’asilo. E così via, per sei meravigliosi brani che accompagnano l’ascoltatore, una volta tanto, non per campi di battaglia insanguinati, ma a passeggio tra le nuvole.
Insomma, il black preso e rivoltato, seppur con il rispetto della sua struttura classica. Un lavoro del genere non poteva che nascere all’interno della scena e, in particolare, di quella francese, una delle più creative del nuovo millennio.
Alcest rappresenta il necessario yang, rispetto l’oscuro e gelido ying del black universalmente considerato.

 

NACHTMYSTIUM – Assassins: Black Meddle Part. 1
(Usa)

 

NACHTMYSTIUM – Assassins: Black Meddle Part. 1Chi sia la principale influenza degli americani Nachtmystium (gruppo di punta della Usbm) emerge abbastanza chiaramente dai titoli della loro opera migliore e del breve (quasi)strumentale che la introduce, cioè “One Of These Nights” .
Principale, ma non unica: dato che il disco, nella sua breve durata (da vinile, appunto), muta genere in quasi ogni brano, pur mantenendo un innegabile substrato black. Esempio dell’eclettismo del gruppo è la conclusiva medley “Seasick”, nelle cui tre parti vengono rilette rispettivamente la psichedelia (del tipo canterburiano - potrebbe essere benissimo cucita in mezzo a “Tubular Bells”), il progressive e la dark-wave.
E l’aggressività? Le bastonate che contraddistinguono il genere e tanto ci piacciono? Tranquilli, non mancano. Anzi, alla già citata introduzione segue uno dei brani più incredibili di questa rassegna: “Assassins” è una linea di fuoco sollevata da un’armata di kamikaze che, armi alla mano, avanzano dritti verso il loro bersaglio. Riff esaltante, cantato lancinante e un benedetto ritorno all’uso del refrain (tra l’altro, azzeccatissimo), con la ciliegina sulla torta di una coda in crescendo che è un esaltante inno all’azione violenta.
Piazzato un capolavoro, nel resto del disco gli statunitensi esplorano egregiamente tra brani acidissimi (“Code Negative” con tanto di organo svisante), violenza black senza compromessi (“Your True Enemy”) e, persino, incursioni nel melodeath (“Ghost Of Grace”). Il tutto con le spezie di momenti ambientali come quello, inquietante, che chiude la title track oppure la strumentale “Away From Light”.
“Assassins” è stato la conferma dell’ottimo stato di salute della scena americana negli anni Zero e della grande curiosità di Blake Judd e soci. Un lavoro che infrange ulteriormente gli inutili vincoli di genere e a cui seguiranno lavori parimenti ispirati, anche se meno spiazzanti, come “Addicts” e “Silencing Machine”.

 

PESTE NOIRE – L’ordure A L’etat Pur
(Francia)

 

PESTE NOIRE – L’ordure A L’etat PurDa un punto di vista temporale, il quarto lavoro dei francesi Peste Noire (di fatto, il mastermind “La Sale Famine de Vafunde” e pochi collaboratori) è la perfetta chiusura di questa disquisizione: si è partiti con il fetido proto-thrash minimale di Venom e Hellhammer e si finisce con questa sorta di ufo composto da cinque brani per un’ora di musica, senza che, tra le centomila definizioni che frullano in testa durante l’ascolto, ci sia “progessive”. “Black metal”, invece, è quella che ricorre più spesso e non solo per il background del gruppo. Un’altra azzeccatissima, per quanto possa risuonare blasfema, è “patchanka”... avete capito bene: cos’ha in comune il combat-rock di congreghe multietniche e progressiste come Mano Negra e Les Négresses Vertes con il progetto estremo di convinto nazionalista (che, però, per anni si è fatto accompagnare da un bassista asiatico, definendo la cosa “una provocazione nei confronti dei bulletti di estrema destra che infestano il black metal”) innamorato del Medioevo e della storia antica del suo paese? Uno che disprezza così tanto i valori della rivoluzione francese da definirsi “un pugno in culo alla Marianne”?!
Vengo meno ai miei doveri di critico, ma, per ottenere una risposta, fate davvero prima ad ascoltare questa opera d’arte - in particolare, bastano i primi cinque minuti di “Casse, Pêches, Fractures et Traditions”, dove si passa da un desolato arpeggio, accompagnato da ululati, riverberi e dalla voce stridula e teatrale di Famine, a uno scarno riff tra l’hard rock e il metal classico. Ti distrai un secondo, ed ecco il brano mutare in ballata popolare con tanto di fisarmonica, per poi riaccelerare con un ritmo ska e l’accompagnamento di fiati.
Mi rendo conto che, detta così, sembra un’accozzaglia senza costrutto, ma il paradosso è che “L’Ordure…” è un disco sì spiazzante, ma incredibilmente godibile, nonostante la lunga durata e l’eterogeneità di fondo. Perché ogni momento è assolutamente ben scritto e meglio sfruttato: non sai cosa ti attenderà nei due minuti successivi, ma dopo un po’ capisci che è qualcosa che ti sorprenderà piacevolmente, si tratti di  una sfuriata black, un passaggio di elettronica con campionamenti da film porno o una chitarra acustica che accompagna la dolce voce della guest Audrey Sylvain. Famine non sembra porsi limiti e la sua faccia tosta paga, perché accompagnata da una penna sempre e comunque felice, tale da rendere l’assoluta varietà e imprevedibilità una forma di coerenza artistica, con l’apprezzabile ripudio di ogni forma di virtuosismo. Inoltre, il passaggio tra uno stile e l’altro non è mai brusco e tutto sembra calzare perfettamente a pennello, come tante tessere di un mosaico enorme e spaventosamente evocativo.
Tanto per restare in tema di definizioni improbabili, con “L’ordure A L’etat Pur” Famine ha realizzato il “Song Cycle” del black metal.