Shannon Wright

Shannon Wright

La primula di Jacksonville

Polistrumentista, vocalist e cantautrice, Shannon Wright è una delle rivelazioni della nuova scena folk-rock americana. Il suo stile è un raffinato ibrido tra rock e musica da camera. Ma le sue canzoni nascono tutte "dal profondo delle viscere". Anche quelle della (magnifica) collaborazione col compositore Yann Tiersen. Viaggio nell'affascinante universo della primula di Jacksonville

di Claudio Fabretti

Shannon Wright è una cantautrice e polistrumentista tra le più talentuose della nuova scena folk-rock americana. Le sue delicate armonie, imbastite su suggestivi accordi di chitarra e piano, trovano nella sua voce versatile l'ideale veicolo d'espressione. Seppur chiaramente influenzato da personaggi come Neil Young, Joni Mitchell e Suzanne Vega, lo stile di Shannon Wright vive fuori dal tempo, lontano dalle mode e dai cliché. Un stile che sa essere delicato e vibrante, tenero e inquietante al tempo stesso. I temi delle sue canzoni sono la solitudine urbana, le allucinazioni e le inquietudini delle metropoli. Ma rispetto ad altre cantautrici contemporanee, come Alanis Morrissette e PJ Harvey, orientate verso un'elettricità urlata post-punk, Wright predilige uno stile più intimista e profondo, che coglie alcuni dei risvolti più minimalisti dell'opera di Lisa Germano e rievoca, a tratti, le litanie sepolcrali di Nico.

Originaria di Jacksonville (Florida), Shannon Wright inizia la sua carriera come leader dei Crowsdell, una band indipendente nella stessa scuderia (Big Cat) di gruppi come Dirty Three, Pavement, Blumfeld e Giant Sand. Abbandonata la tenuta di famiglia di Jacksonville per trasferirsi a New York, Shannon deve fare i conti con momenti difficili: l'attività con la band non è fortunata e così, in piena crisi esistenziale, decide di abbandonare la vita cittadina in favore di una fattoria di campagna a Pittsboro, nel North Carolina. E' qui che inizia la sua rinascita. "A New York non riuscivo più a comporre - racconta -. Mi sentivo costantemente schiacciata dalla folla, provavo un senso di claustrofobia. Gli spazi ampi, invece, mi aiutano, mi fanno sentire più a mio agio. E poi il music-business mi stava facendo perdere la passione per la musica".

Rispetto ai due dischi di roots-rock dei Crowsdell, (Dreamette del 1995 e Within The Curve Of An Arm del 1997), lo stile della Wright solista è assai più sobrio e rigoroso, come conferma l'album d'esordio Flight Safety (1999). Improntato a uno scarno pop da camera, è un disco di riflessioni e disillusioni, di speranza e disperazione. Brani come "Floor Pile" ("vorrei non aver paura di cadere"), con un romantico violoncello sullo sfondo, "All These Things", blues-valzer struggente con accompagnamento di organo, "Twilight Hall", dolente inno alla solitudine, o l'eterea "Heavy Crown", che chiude il disco, sono paesaggi sonori desolati e commoventi, che ricordano il Neil Young più struggente. Ma Wright si rivela anche musicista di razza, destreggiandosi abilmente tra chitarra, batteria, piano, wurlitzer, organo hammond e tastiere varie (con un piccolo aiuto da parte di Joey Burns dei Calexico alla nylon guitar e al basso). Le sue composizioni nascono per lo più dall'improvvisazione: "Spesso - racconta - prendo in mano la chitarra, mi metto a strimpellare e i testi vengono di seguito. Così poi trascrivo tutto in un mucchio di note e mi metto a riarrangiare il tutto con chitarra e piano".

Il successivo Maps Of Tacit (2000) prosegue il discorso addentrandosi in antri di sempre più fosca disperazione. La musica di Wright si fa più allucinata e spettrale ("Dirty Facade", "Fences Of Pales", "Flask Welder"), ma il risultato è nel complesso più criptico e lascia qualche dubbio sulle sue effettive.

A convincere anche i più scettici, arriva però Dyed In The Wool (2001), album decisamente più maturo ed emozionante, in cui Wright non solo tira fuori un repertorio di canzoni suggestive, ma si rivela anche un'ottima pianista. La sua voce, cruda e viscerale, capace di passare dai teneri bisbigli di Suzanne Vega a demoniaci ululati alla Siouxsie, riesce sempre a lasciare il segno, come nell'agghiacciante "Less Than A Moment" o nella lugubre "The Sable". Trapela anche un senso di dolcezza ("Bells"), di dolente nostalgia ("The Hem Around Us"). Ma alla fine è forse il lato più inquietante e teatrale del suo repertorio a risultare più efficace. Ascoltare per credere il lied di "Hinterland", con lugubri rintocchi di piano sullo sfondo, o la strumentale "Colossal Hours", con un arrangiamento thrilling fondato su piano e percussioni. E' un'originale commistione di elegia rinascimentale e film d'orrore, gotico sudista e teatro espressionista, Brecht e Faulkner.
E' grazie soprattutto a Dyed In The Wool (oltre che alle esibizioni come spalla nei tour dei Calexico) che Shannon Wright si impone all'attenzione della scena folk-rock con la sua peculiare formula, che incrocia rock, folk e musica da camera. Un talento puro che si rivela sia nei testi sia nelle musiche. "Ciò che ispira le mie liriche - spiega - sono le parole dette dal profondo del cuore. E lo stesso vale per la parte musicale. Amo soprattutto la musica che viene dal profondo delle viscere". E sono proprio esibizioni "viscerali" quelle che Shannon regala al pubblico durante i suoi concerti, in cui si presenta sola sul palco: "Mi sento molto a mio agio a suonare da sola, mi fa sentire più sincera. E mi piace anche la libertà di reinterpretare le canzoni a modo mio, improvvisando sul palco". Performance molto personali che il pubblico italiano ha potuto apprezzare in occasione dell'ultima tournée dei Calexico, che ha visto Shannon Wright ospite speciale.

Scritto con la percussionista Christina Files dei Victory At Sea, Over The Sun (2004) sfoggia già in apertura un piccolo capolavoro, "With Closed Eyes": un'intro fiabesca, un canto metà Nico, metà santone vodoo, un minuetto pensoso intonato dai fiati, un impressionante canto-balbettio, dei tuoni di batteria, una chitarra vibrante, in continuo franamento verso gli abissi della disperazione. Già con "Portray" si capisce come lo stile chitarristico della Wright sia - a tratti - pura amplificazione dell'arpeggio acustico del folk, in un procedimento che era già stato appannaggio degli Slint. "Black Little Stray" è una piece guidata da una chitarra malleabile, ora allarmata, ora sorniona, ora romantica ma rabbuiata, ora duettante con il canto della Wright. E' una linea vocale che vira con disinvoltura dal Thom Yorke implorante, alle regioni gravi e soffuse, ai registri da chanteuse fragile e sensibile come in "You'll Be The Death", forte di un riff-arpeggio che scivola via snello nella sua crudezza impietosa, ma indebolita dalla decorazione di archi tenuti sullo sfondo. Più ripetitivi pezzi come "If Only We Could" e "Birds", mentre "Plea" sfodera una linearità spigolosa (quasi post-dark). In "Throw A Blanket Over the Sun" la chitarra è rimpiazzata dal piano elettrico, mentre una batteria geometrica le si fa sempre più compagna di viaggio, e nel chorus si amplia a sottolineare i pianti rutilanti del canto della Wright.
La sua formazione classica si pone in più marcata evidenza nella successiva "Avalanche", in cui la songwriter di Jacksonville si accomoda nuovamente al piano - stavolta acustico - per scodellare una tetra sonata, quasi a metà via tra Schumann e i Joy Division: è un madrigale pieno di nebbiosa inquietudine, accentuato dalla cadenza centrale che ne mette in luce le non indifferenti capacità strumentali, e che pone in essere isterici contrasti di luce-buio (le contrapposizioni tra note alte e gravi, e quelle dinamiche tra piano e fortissimo).
Pur discontinuo e ingenuo a tratti, il disco conferma un talento compositivo in continuo miglioramento.

Nel 2005 Shannon Wright ha inciso un disco insieme al compositore di colonne sonore Yann Tiersen, in titolato semplicemente Yann Tiersen & Shannon Wright.

Tiersen è il fine cesellatore sonoro di pellicole del calibro di "Goodbye Lenin" e "Amelie", con una nobile ascendenza da compositori quali Philip Glass in primis, ma anche Michael Nyman, senza contare l'ovvio debito formale nei confronti di Eric Satie: difficilmente si poteva immaginare che i suoi tristi, quanto a volte epici intrecci pianistici, avrebbero armonicamente attecchito sui sussurri intimisti della deliziosa primula di Jacksonville. Invece, felici di essere contraddetti, ci troviamo al cospetto di un florilegio di delicate composizioni dai profumi autunnali, profonde e variopinte, ma talvolta abbastanza robuste da evitare un'esperienza d'ascolto da ciclo di vita decrescente. Chitarre e batteria vanno infatti a irrobustire un sound che, abbandonato alle brezze pianistiche di Tiersen e alla sola voce della Wright, avrebbe rischiato alla lunga di annoiare; niente paura: ciò non accade e la tensione rimane costante fino all'ultimo pezzo, tanto da garantire attenzione e coinvolgimento emotivo. Shannon Wrigt riesce a far prevalere la sua personalità all'interno del progetto; gli equilibri sono precari, spesso gli elementi si rincorrono, altre volte si scontrano ed è proprio da questa tempesta vorticosa di contrasti umorali e sonori che nasce il fascino del disco.
Wright e Tiersen sembrano non viaggiare sulla stessa lunghezza d'onda in più di una circostanza e si ascolti in proposito "No Mercy For She", dove il canto sommesso e sofferente della Wright viene inondato da vortici al rumor bianco d'intensità crescente, che ricordano le migliori escursioni dei Mogwai.
"Dragon Fly" è una canzone da isola deserta, con la cantautrice assoluta protagonista di una recita dannata e lamentosa che scivola su uno stuolo di linee melodiche che si contrappuntano all'infinito, lievemente. Echi del post-rock più poetico, quello dei Rachel's per intenderci, si odono in "Something To Live For", e in "Dried Sea", che inizia calma e bisbigliante per poi evolvere in un groviglio emo-mogwaiano degno delle migliori band della scena indie-rock americana.
Se il disco dimostra appartenere maggiormente alla Wright piuttosto che a Tiersen, relegato a comprimario di lusso più che co-protagonista, il rapporto sembra allora riequilibrarsi in "Way To Make You See", dove è proprio il compositore a menare le danze, disegnando una linea melodica da caffè parigino anni 50, invogliando la cantautrice a un'interpretazione da chanteuse degna di Edith Piaf. "Callous Run" è invece un'acuta battaglia tra voce rabbiosa, chitarre taglienti e la sublime melodia inscenata da Tiersen: quando anche il frastuono è sinonimo di deliquio dei sensi. In "Pale White" si ascolta finalmente una corrispondenza di amorosi sensi, un limbo all'interno del disco, dove il contrasto muta in armonia e unità d'intenti.
Lavoro di grande passione e di coesione, che fa affidamento su equilibri perennemente affacciati sul precipizio dell'instabilità, questo Wright-Tiersen merita mille ascolti, così da apprezzare le sfumature, l'estasi e la violenza, il non suonato che trasuda dalle note, la consapevolezza che la pace interiore può essere scovata anche nella tempesta dei sensi.

Ed è proprio dalla collaborazione che riparte la Wright, sfornando Let In The Light (2007). Undici pezzi che sanno di campagna francese, riflessivi e riflettenti il mood del momento evidentemente, o meglio ancora caratterizzati da suoni che dell’indie-rock originario non serbano che un lontano ricordo. Così, a eccezione delle grintose “St. Pete” e “Don’t Doubt Me”, l’intensità maniacale di un Dyed In The Wool, scema in soffici effluvi pianistici dal gusto vagamente retrò e dall’umore pacificato.
Si potrebbe parlare di crescite, prese di coscienza e chissà quant’altro, ma cadere nella solita retorica da “disco della maturazione” non aiuta a capire la finezza di Let In The Light, di quell’intelligente equilibrismo che gli permette  di lambire i limiti del manierismo senza oltrepassarli.
“In The Morning”, “Idle Hands”, “Everybody’s Got Their Own Part To Play” ribadiscono il concetto, facendosi scudo con educate malinconie da salotto. Tutto già previsto e prevedibile, cosicché verrebbe voglia di stroncarlo barbaramente per il suo scorrere senza sussulti, senza svirgolature o anche (solo) tentate escursioni di registro. Ma non si può, Let In The Light si lascia piacere nonostante uno specchiarsi onanistico a tratti svenevole, anche perché una “Louise” non tutti sono in grado di scriverla.

Trascorsi due anni, è tempo di Honeybee Girls, album che celebra il decennio di attività solista dell'artista americana fornisce coerente sviluppo al lavoro precedente in dieci brani nei quali la sua maturità di scrittura si cimenta in contesti sonori ormai a netta prevalenza acustica ed elettronica.
Il residuo spazio per ritmi serrati e nervose frammentazioni chitarristiche è confinato quasi esclusivamente nella prima parte del lavoro, benché anche in questi casi gli spigoli siano smussati dalla melodia e convivano con aggraziati substrati acustici.
L'album evidenzia una linea conduttrice di romanticismo, che denota ancora evidentissimi tributi all'esperienza con Yann Tiersen, individuando la nuova collocazione stilistica di Shannon Wright, delimitata non più da pennellate nero pece e impennate abrasive, ma connotate da una declinazione di atmosfere parimenti torbide attraverso registri espressivi più compassati e vari, che comprendono addirittura texture elettroniche.
In particolare nella seconda parte del lavoro la cesura col passato diviene evidente, mentre strumento centrale diviene il pianoforte, che si sposa con la chitarra elettrica o si accosta a delicate note d'organo, fino a brillare da protagonista nei tempi perfetti della ballata "Strings Of An Epileptic Revival", che fa pensare alla PJ Harvey di "White Chalk".
Nonostante le modalità comunicative più morbide e raffinate, Shannon Wright non smarrisce il senso di inquietudine che ne ha caratterizzato tutta la produzione. Quell'inquietudine è adesso soltanto convogliata secondo modalità più misurate e solo in apparenza convenzionali, ma non per questo meno efficaci.
Se con Let In The Light Shannon Wright aveva appunto fatto filtrare la luce nella sua tormentata vis artistica, con Honeybee Girls ha messo a fuoco una nuova dimensione, che proprio dalle sue precedenti esperienze trae la carica espressiva indispensabile per definirne compiutamente la maturità.

Passa appena un anno, ed è già tempo di un altro disco, Secret Blood, improntato a una sorta di bilanciamento tra la recente mutazione romantica e la propensione a sperimentalismi elettronici, e al ritorno al primo amore di segmentazioni ritmiche e chitarristiche assai impetuose.
Il primo elemento dell'album a balzare all'attenzione è infatti proprio la ritrovata urgenza espressiva che aveva caratterizzato lo stile abrasivo dell'autrice di Jacksonville e che sembrava essere stato via via sgrezzato in favore di un'accresciuta sensibilità melodica e di quella trasformazione da pur peculiare riot grrl a sobira signora dal cuore rivolto alla Francia.
Benché di tutta evidenza più aspro del suo predecessore, Secret Blood non vede tuttavia Shannon Wright semplicemente violentare la sua chitarra né cimentarsi nuovamente in urletti e interpretazioni sgraziate; al contrario, il suo maturo atteggiarsi a "signora" dell'alt-rock statunitense al femminile non solo rende più ovattate le linee melodiche disegnate su torsioni e persistenze di feedback, ma soprattutto tende a diradare i tempi di alcuni brani, lasciando riaffacciare armonie pianistiche, ora morbide ora inquiete.
Proprio questi ultimi episodi denotano tuttavia l'assenza di quella scintilla che aveva reso Honeybee Girls il disco forse più fluido ed emozionante dell'artista americana: le melodie paiono soffocate e non sempre compiute, frammenti e bozzetti registrati di getto o quasi (non a caso, molti brani presentano durate molto brevi) piuttosto che "canzoni" frutto di un ricercato lavoro di cesello.
Tutto ciò induce a considerare l'album poco più di una sorta di appendice a Honeybee Girls, come sempre ben realizzata e non priva di alcuni episodi pregevoli, ma in definitiva più prossima a un mezzo passo indietro rispetto alla rinnovata dimensione messa a fuoco nel disco precedente che non a un suo ulteriore stadio di sviluppo sostanziale.

Quattro anni dopo la pubblicazione di In Film Sound, album innestatosi sulla scia dell'alt-rock abrasivo e poderoso che aveva caratterizzato il precedente capitolo discografico, Shannon Wright torna nel 2017 con il suo nono album solista, album che sembrava non dover vedere la luce. Certo, la maternità indubbiamente ha rallentato il processo e l'ispirazione, tuttavia il cammino che ha portato all'ideazione di Division è stato costellato anche da eventi e situazioni decisamente meno liete, tra cui ripensamenti sulla prosecuzione della carriera e un generale senso di insicurezza nei confronti del mondo. Ci è voluto il coinvolgimento di amici e collaboratori, per far sì che questo iato insolitamente lungo avesse fine e il disco vedesse quindi la luce. Album tra i più peculiari e compositi nel suo ricco canzoniere, nonché ennesimo punto di svolta in un corpo stilistico in costante evoluzione, il lavoro si fa tramite netto dell'inquietudine e del trasporto che non cessano di informare la potente inventiva dell'autrice. Tra tutte quelle possibili, questa è stata senz'altro una delle svolte più sorprendenti.

Non che Shannon Wright non sia stata capace di preservare le trame dolenti e rabbiose della sua arte anche rinunciando a palesi scariche elettriche e declinazioni rumoriste, tuttavia mai come in Division si riesce ad apprezzare un dolore così totalizzante, un affanno figlio di una vulnerabilità che non lascia scampo, anzi si tramuta in un'angoscia insopprimibile, in una sofferenza che sintetizza al meglio i dissidi interiori vissuti in prima persona dalla musicista. Proprio per questo alone di fragilità che permea in maniera costante tutto il lavoro (e che si riflette straordinariamente bene nelle interpretazioni spezzate della cantautrice), la decisione di sopprimere quasi del tutto le chitarre a vantaggio di pianoforte, organi, tastiere e viola da gamba acuisce ulteriormente le spiccate qualità emotive del nuovo ciclo di composizioni, in cui la libertà di sperimentazione è più alta che mai. Là dove le sei corde continuano a impreziosire con il loro contributo, il risultato è comunque tutt'altro che scontato: nella title track, posta strategicamente in apertura, il commento droneggiante di elettrica ad esempio intensifica a dismisura l'afflato industrial dell'arrangiamento, nonché la dolente interpretazione dell'autrice, quasi una propaggine vocale del martellare opprimente che accompagna la canzone.

Non che altrove il tono sia più solare o rilassato: al massimo il mood si stempera in un'afflitta malinconia, un dolore sottaciuto ma comunque sempre presente, da cui è sostanzialmente inutile rifuggire. Quando poi il percorso incrocia sentieri più smaccatamente dark, la convinzione con cui la musicista si addentra nei cunicoli della gotica contemporanea ha pochi eguali. La conclusiva “Lighthouse (Drag Us In)” porta il discorso neoclassico alle estreme conseguenze, con la viola da gamba di David Chalmin ad affondare il colpo finale innestando un vigoroso valzer su uno scheletro principale che rimanda al fascino eterno dei notturni chopiniani, resi ancora più vividi da un'interpretazione diafana e fantasmatica come mai prima d'ora, di quelle che tante eroine dark ancora non sono riuscite a maneggiare.

Se è vero che la pioggia nera ha continuato, nonostante le preghiere, a battere sul cammino di Shannon Wright, nondimeno la sua arte non ne ha risentito, anzi ne ha tratto profonda ispirazione, per un disco lancinante e che non fa sconti, teso comunque alla massima economia emotiva e sonora, senza ridondanze che ne fiacchino la potenza espressiva. Se comunque l'autrice pare aver sorpassato i problemi che ne hanno frenato la spinta produttiva, nondimeno Division rimane la testimonianza più lucida e urgente di un'impasse creativa superata appropriandosene dal punto di vista musicale, che ha fruttato uno dei momenti più importanti nella sua lunga carriera. Se questo sarà il trampolino di lancio per un'esplorazione ancora più convinta dei suoi tratti più oscuri sarà il futuro a stabilirlo, ciò non toglie che il nuovo profilo estetico della musicista ne descrive con slancio rafforzato quelle caratteristiche che da sempre costituiscono l'ossatura della sua arte. Questo è un dato tutt'altro che da sottovalutare.

Ulteriore spinta allo scavo interiore e alla narrazione confessionale, Providence, undicesimo album per l'autrice di Jacksonville, amplifica a dismisura la ricerca di una spoliazione espressiva che sia contenuto e contenitore allo stesso tempo, il riflesso di un'onestà lirica estrema, da incorniciare con scarni ma accorti contributi sonori. Più classica e disadorna che mai, la poetica dell'autrice brucia ancora con la stessa intensità.

Con l'eccezione di qualche fugace commento di tastiera e lievi manipolazioni elettroniche (a sublimare la coda in reverse della conclusiva “Disguises”), il pianoforte è l'unico compagno al fianco di Wright, amico piegato allo sviluppo di ballate cupe, tenebrose, che alla livida fragilità della prima Soap & Skin antepone il secco drammatismo di una Lisa Germano, reinterpretata con un aplomb gotico, fieramente neoclassico. Le narrazioni dell'autrice si susseguono con tremula inquietudine, ora si infiltrano ora fuoriescono dai tracciati pianistici, ben più che semplici complementi alla voce e parole, ma veri e propri primattori, fantasisti che interpretano ogni singola variazione emotiva con personalità e prodezza espressiva. Dal greve andamento valzerato di “Fragments” al passo cameristico di “Somedays” (a suo modo una rielaborazione accigliata delle cantate di Agnes Obel) i due strumenti piazzati in campo sventagliano la loro mesta cooperazione, in un pendolo che oscilla tra un sinistro romanticismo e un lugubre sconforto.

Contrita, incupita, non per questo rassegnata, Shannon Wright continua coraggiosa sulla sua strada solitaria, un'apologia del dolore che pare trovare costantemente nuovi appigli per potersi esteriorizzare. Nella sua ricercata essenzialità, Providence si rivela l'ennesimo significativo affresco di un'arte perennemente inquieta, per cui la calma risulta totalmente priva di importanza.

Contributi di Michele Saran ("Over The Sun"), Raffaello Russo ("Honeybee Girls" e "Secret Blood"), Vassilios Karagiannis ("Division", "Providence")

Shannon Wright

Discografia

Flight Safety (Quarterstick, 1999)

6,5

Maps Of Tacit (Quarterstick, 2000)

6

Dyed In The Wool (Quarterstick, 2001)

7

Over The Sun (Quarterstick, 2004)

7

Y. Tiersen & S. Wright (Quarterstick, 2005)

7,5

Let In The Light (Vicious Circle, 2007)

6,5

Honeybee Girls (Vicious Circle, 2009)

7
Secret Blood (Vicious Circle, 2010)6
In Film Sound (Vicious Circle, 2013)6
Division (Vicious Circle, 2017)7
Providence (Vicious Circle, 2019)7
Pietra miliare
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