Jessica Pratt

Jessica Pratt

Ritratto di folksinger introversa

Jessica Pratt è la cantautrice americana folk che non sa suonare la chitarra, ma che è riuscita a catturare l’attenzione di migliaia di ascoltatori. Il suo stile è caratterizzato da un fingerpicking di chitarra semplice e una voce ultraterrena, che suscita in chi l’ascolta ricordi d’infanzia. Con due album alle spalle e sconfitta la fobia delle esibizioni live, la giovane ventisettenne si dichiara pronta a fare di tutto per rendere la musica la sua professione

di Gaia Curci

Può essere facile, quasi naturale, classificare Jessica Pratt nel genere tradizionale e forse poco innovativo della musica folk. La cantautrice americana, infatti, sembra avere tutte le carte in regola per essere una perfetta folksinger: scrive, ha una chitarra, ha una voce. Ma c’è qualcosa in lei, qualcosa che chi l’ascolta percepisce subito, che non le permette di essere archiviata senza riflettere in tale genere.
Jessica non sa leggere la musica e ha un modo di suonare la chitarra elementare; canta le sue canzoni con questa voce che continua a modellarsi sulle note e che spesso ha un timbro quasi infantile, tanto è delicata. Con i suoi pregi e i suoi limiti la Pratt riesce a trasmettere delle sensazioni di tranquillità, pace e allo stesso tempo malinconia; i suoi brani sono come il sussurro gentile di una madre che intona una ninna nanna prima che il figlio si addormenti. Con la semplicità e la naturalezza che la caratterizzano, riesce a suscitare emozioni complesse in chi l’ascolta.
Molti l’hanno etichettata come un’altra aspirante Joni Mitchell o Joan Baez: brava, ma senza originalità. Lei non approva questi accostamenti con le due regine del folk, non vi si riconosce: vuole integrare il passato col presente e aggiungere del suo. Per questo la sua musica non può essere classificata come semplice folk: c’è un elemento inafferrabile in più, leggermente psichedelico, che le dona quella particolarità di cui lei va tanto orgogliosa. Quest’elemento forse è il senso di tranquilla innocenza che le sue canzoni trasmettono; l’innocenza che si perde nell’età adulta, ma con cui lei riesce ancora a rimanere in qualche modo in contatto.

Contenta dell’anonimato

Jessica Pratt è molto gelosa della sua vita privata: è raro che si lasci sfuggire qualche informazione personale che non riguardi direttamente la sua musica.
Nata nel 1987 a San Francisco, è orfana di padre ed è cresciuta dalla madre insieme al fratello maggiore, più grande di lei di quattro anni.
Jessica è una bambina con carattere introverso e spirito sognatore. La madre è un’appassionata di musica e la educa già da piccola secondo i suoi gusti, che la influenzeranno fino all’età adulta. Per lei, infatti, sono un’ispirazione importante il British folk e la musica degli anni Sessanta, artisti come Brian Eno e Leonard Cohen, Donovan e Marianne Faithfull.
La scuola non le piace, preferisce studiare la letteratura, la storia e l’arte a suo modo, senza indottrinamenti istituzionali. Da sempre desidera seguire indisturbata le sue inclinazioni e interessi naturali. Nonostante non abbia mai studiato con un metodo didattico regolare la musica (ancora oggi non sa leggere gli spartiti), si è sempre trovata immersa in essa. Non solo grazie alla madre, ma anche al fratello, che a un certo punto decide di voler imparare a suonare la chitarra elettrica e per questo motivo si fa regalare una Fender Stratocaster. Strimpella per casa per sei mesi, ma si stufa presto, e Jessica, che in quei giorni ha quindici anni, s’impossessa dello strumento scoprendo finalmente la sua vocazione di cantautrice. Capisce, infatti, che la musica non può solo ascoltarla, ma anche farla.

Con molta più convinzione e dedizione del fratello, lei ha intenzione davvero di suonare la chitarra. All’inizio scrive cover di brani che conosce già, come alcuni dei T-Rex di Marc Bolan, adatti per i loro accordi semplici e ripetitivi a una chitarrista alle prime armi; poi inizia a comporre pezzi tutti suoi. Inoltre, Jessica scopre di avere una voce molto bella, resa ancora più affascinante dalla particolare intonazione che le dà: mai troppo felice, mai troppo triste, ma sempre molto espressiva.
La passione casalinga di questa giovane ragazza, continua ininterrotta, nonostante i cambiamenti che avvengono nella sua vita. Jessica, infatti, abbandona le scuole superiori, che ormai fa anche fatica a frequentare, e va a lavorare.
Però, è nel 2007 che accade una prima svolta, che sarà la base della sua futura carriera da cantautrice. Jessica ha vent’anni e ha scritto molte canzoni seduta sul letto con la chitarra in mano tra le quattro pareti della sua stanza. Anche se la vive sempre in spazi privati e personali, dedica anima e corpo alla musica: per lei è uno sfogo, un modo salutare per esprimere se stessa e le sue angosce. Tutti quelli che la conoscono lo sanno e un giorno un suo amico, che possiede uno studio di registrazione lì a San Francisco, le propone d’incidere qualche suo pezzo. Jessica accetta l’offerta; non perché spera in chissà quale futuro da star, ma perché l’invito è gratuito ed è curiosa di provare.
Incide, lo sfizio sembra essere saziato e il capitolo chiuso.

La sorpresa del successo

Passano cinque anni e nel frattempo Jessica ha lasciato la casa materna andando ad abitare con una delle sue migliori amiche e il fidanzato di quest’ultima. Questo ragazzo è Sean Paul Presley e non passa molto tempo prima che la Pratt scopra che è il fratello di Tim Presley, quel musicista e cantautore che ha suonato nei The Nerve Agents, Darker My Love, The Fall e che ora ha fondato i White Fence, diventando un punto di riferimento per l’ondata di revival psichedelico che ha preso San Francisco.
Non si sa esattamente come Tim Presley venga a conoscenza delle canzoni di Jessica Pratt: c’è chi dice che il fidanzato della ragazza mandi a sua insaputa le registrazioni fatte cinque anni addietro, chi dice che Tim ascolti per caso il brano “Night Faces” che gira sul web.
Non importa come, ma il fatto è che Presley rimane ammaliato dallo stile semplice e leggiadro della giovane artista. L’entusiasmo della scoperta di questo talento è tale che decide di fondare un’etichetta discografica solo per poter produrre e distribuire i suoi pezzi.

È così che nasce la Birth Records e il 6 novembre 2012 viene pubblicato Jessica Pratt, primo album della cantante, contenente undici brani.
Jessica decide di non toccare nulla delle registrazioni fatte cinque anni prima nello studio dell’amico, così prende le canzoni migliori e le mette direttamente nel cd.
La fama di Tim Presley l’aiuta a essere conosciuta da una massa abbastanza numerosa; inoltre, Tim, proprio in quel periodo, sta collaborando con Ty Segall, personaggio importante del rock underground, che contribuisce a far sì che il nome di Jessica venga nominato dalle persone giuste negli ambienti che contano.
Jessica Pratt inizia ad avere un grande successo, soprattutto di critica: le conoscenze giuste le hanno permesso di distinguersi dall’enorme produzione di musica indipendente e auto-pubblicata, ma proprio la ruvidità e semplicità dell’album, la voce che ricorda qualcosa di ancestrale o atemporale, accompagnato da un fingerpicking elementare, sono la prova che l’attenzione è meritata e che il talento c’è davvero.

Ma Jessica non si aspettava il successo, pensava al massimo di essere apprezzata da alcuni appassionati intenditori di musica. Perciò, quando inizia ad essere richiesta per interviste e, soprattutto, esibizioni dal vivo non sa come raccapezzarsi.
In 25 anni non ha mai suonato difronte a un pubblico numeroso e recentemente i suoi live sono praticamente inesistenti. Lei ha sempre scritto la sua musica non per condividerla, ma per parlare a se stessa; Jessica Pratt è un album di canzoni introspettive, le si potrebbe definire quasi ermetiche per la scrittura sognante piena di significati inafferrabili, è un diario privato messo da leggere a un pubblico.
Le sue melodie polverose sono registrate dal vivo e prive di qualsivoglia intervento aggiuntivo. Equilibrate, quasi ancestrali, con un vago profumo psichedelico a macchiare di sentori antichi (e in nessun caso weird) il picking notturno e riflessivo dell'autrice, le canzoni sfilano con gentilezza nella loro timida leggiadria, colpendo di solito più per il bellissimo e ammaliante impatto d'insieme che per il passaggio singolo.
Dalla malinconica progressione di “Night Faces”, apertura che lascia il segno grazie al ritornello più incisivo della raccolta, alla torpida stretta in cui si muove “Bushel Hyde” (con quel giro di accordi che tanto sarebbe piaciuto all'ultima Anaïs Mitchell), piuttosto che le ipnotiche armonizzazioni maschili di contorno al rasserenante adagiarsi di “Dreams”, la Pratt lusinga con la naturalezza di un approccio istintivo e agile alla melodia, con la serenità di chi non sente l'impellente bisogno di raccontare con troppa fretta.

Jessica si esercita per i live e le prime esibizioni sono di supporto ai White Fence e ad altri gruppi alternativi di San Francisco. Il suo nome viene ben presto accostato al genere del “freak folk” che rievoca il cantautorato folk di fine anni Sessanta.
Il lavoro della Pratt viene lodato dalle più importanti riviste americane e dopo due settimane dall’uscita le 500 copie pubblicate sono già vendute. Nel 2013 esce anche nel Regno Unito, entrando tra i primi dieci migliori album dell’anno nella classifica Rough Trade.

Ermeticità e surrealismo

La carriera musicale della Pratt è iniziata quasi per caso, lei stessa non sapeva cosa aspettarsi o cosa voleva; ma nel momento in cui il suo album eponimo viene pubblicato capisce che la sua strada è quella e che vuole diventare un’artista a tempo pieno.
Tuttavia, non si sa più nulla di Jessica per ben due anni. Solo nel gennaio del 2014 si trova sul web un suo brano inedito, “Game That I Play”, e già si può capire un’evoluzione e un cambiamento in lei.

Alla fine dello stesso anno viene pubblicato un singolo, “Back, Baby”, sotto l’etichetta della Drag City, casa discografica di Chicago specializzata in musica indipendente; il 27 gennaio 2015 esce On Your Own Love Again, suo secondo album.
Si tratta di nove brani sempre di stampo folk dove a imperare sono ancora la chitarra e la voce della Pratt.
Mentre nel lavoro precedente solo due canzoni sono state registrate a casa su un quattro piste (“Night Faces” e “Dreams”), questa volta tutti i brani sono frutto di una registrazione solitaria e casalinga. Tuttavia, c’è una collaborazione: Will Canzoneri, membro dei Darker My Love che l’ha seguita anche in tour, suona le tastiere e il clavinet su due pezzi. Quest’aggiunta dona una musicalità più piena e ricca alle canzoni.
La scrittura della Pratt, sia musicale sia testuale, è visibilmente maturata, diventando ancora più ipnotica. È vero che ancora la sua tecnica chitarristica è imperfetta e che, ad eccezione di qualche brano (“Back, Baby” per esempio) non ha un particolare dono per la melodia, ma la capacità di comunicazione è impressionante. In fin dei conti, Jessica Pratt è una raccolta di vecchie canzoni che la ragazza aveva scritto per la maggior parte quando era diciannovenne; e ora, che di anni ne ha 27, è naturale che abbia abilità di riflessione e composizione maggiori.
Nei due anni che sono passati dall’esordio, poi, sono successi alcuni fatti nella sua vita privata che, se non direttamente, vengono affrontati in maniera implicita in “On Your Own Love Again”: la morte della madre e la fine di una relazione amorosa durata sette anni. Inoltre, per realizzare l’album Jessica si è trasferita da sola a Los Angeles, più precisamente a Silver Lake. Forse perché sta vivendo un periodo di crisi esistenziale per le perdite affettive e perché ha cambiato città dove non conosce nessuno, il suo secondo lavoro discografico ha sì tinte più cupe, ma ha anche un effetto maggiormente catartico delle emozioni che suscita.
C’è un tocco più psichedelico in quest’album: come l’improvviso cambio di ritmo alla fine di “Jacquelyn In The Background” o il surrealismo di “Wrong Hand”. E proprio su tale surrealismo bisogna porre l’attenzione: la Pratt nelle sue canzoni non racconta storie, ma descrive immagini poeticamente ultraterrene; prende elementi della realtà, persone o sensazioni e trasforma tutto in astrazioni che è compito di chi ascolta decifrare donandogli un significato.
Accordature singolari, dal più evidente trasporto psichedelico, una voce diventata più sicura e duttile nella gestione (“Greycedes”, con quella vertiginosa salita vocale, testimonia una sicurezza nella propria ugola di cui potersi davvero vantare), registrazione dal tocco spigliatamente casereccio: alla Pratt serve anche stavolta davvero pochissimo per popolare il suo mondo di mille personaggi diversi, per evocare un immaginario composito, sempre abile nel sottrarsi a un fil rouge emotivo unitario. Tra ballate in prima persona a struttura bipartita (“Game That I Play”, con la sorprendente struttura a dittico, mette a confronto più posate elucubrazioni di stampo folk con una chiosa che profuma di California), motivi dai lontanissimi echi blues (l'irresistibile dolcezza di “Back, Baby”) e mantra dal candore sinistro e ancestrale (“I've Got A Feeling”), a Jessica basta insomma un piccolo gesto, un minimo scarto di tono per evitare di cadere nella rete dell'auto-imitazione.
Ad aggiungere fascino è anche la particolarità della sua voce, che sembra provenire da un sogno e che plasma le intonazioni dando accenti diversi alle parole che pronuncia; in tal modo Jessica può sembrare nella stessa canzone a tratti australiana, irlandese o americana.

Anche con questa pubblicazione ottiene una buona visibilità e successo di critica. Gli apprezzamenti non creano lo stesso stupore del debutto e ora lei dichiara di avere il sogno di fare musica a tempo pieno, senza dover dividersi con altri lavori.
I suoi timori di esibirsi su un palco sono stati superati e ha acquistato abbastanza agio da voler provare a suonare non più da sola, ma anche con altri musicisti. Insomma, è aperta al cambiamento.
Noi non possiamo fare altro che augurarle di riuscire in ogni suo progetto, magari con un arricchimento e un’evoluzione ancora maggiori del suo cantautorato. È quasi d’obbligo, infatti, per un’artista talentuosa come lei sperimentare e cambiare per non adagiarsi nella sicurezza della ripetitività e di strade già battute.

Inni al silenzio

Quattro anni dopo la sua seconda fatica, è il momento di tornare nuovamente in pista, e lo si fa con grande stile. Per ventisette minuti, la quiete vi reclamerà a sé. Non lo farà attraverso blande moine o incantevoli scenari da sogno, si paleserà invece in tutta la sua forza, arrivando addirittura a silenziarvi se lo riterrà necessario. Quiet Signs è infatti opera che amplifica e perfeziona l'acuto minimalismo espressivo di Jessica Pratt, in un esemplare esercizio di (auto)controllo e pacatezza compositiva, tanto intima amica che aspirazione finale. È un breve ma eccellente compendio di essenzialità che è il lasciapassare per un intero universo di immagini e sensazioni. Il termine “consacrazione” raramente ha avuto maggiore significato.

Pur facendo capo alla stessa natura ossuta delle precedenti due prove, il nuovo progetto splende di elementi inconsueti, conducendo alle estreme conseguenze una formula finora alquanto refrattaria a cambiamenti di sorta. L'overture “Opening Night”, è la dimostrazione di una palette sonora che ha avvertito la necessità di andare oltre lo schema voce-chitarra, di aprirsi, pur con le stesse premesse realizzative, ad un ventaglio strumentale più dinamico. Se l'organico esecutivo già riflette l'avvenuto cambio di guardia, ancor più rilevante è la decisa svolta produttiva approntata per l'occasione: per la prima volta rivoltasi ad uno studio di registrazione, Pratt smentisce i propri timori legati al nuovo contesto e consegna la sua raccolta più trascendente, quella che meglio ne traccia il profilo, capace di astrarsi tanto dal tempo quanto dallo spazio.

Filtrando (con la dovuta discrezione) ogni interferenza esterna, la produzione rende ancora più diafane le fulminee narrazioni dell'autrice, tali da assumere una grana ultraterrena, che disperde ogni attinenza ad un ambito specifico. Il carattere di Pratt qui emerge insomma al di là delle definizioni, la sua voce, pensosa e allo stesso tempo enigmatica, manovra temi melodici, linee chitarristiche e sfumature umorali con una allure arcana e allo stesso tempo familiare, che racconta l'intimo e l'universale con lo stesso lieve e peculiare dinamismo.

Alla terza prova di un percorso gestito con i propri ritmi, che consente ai brani di maturare come il buon vino, Jessica Pratt ha costruito una delle carriere più singolari della canzone statunitense contemporanea, imponendosi con la forza di un linguaggio peculiare nella sua forbita essenzialità. Se un album come “Quiet Signs” diventasse un punto di riferimento negli anni a venire non ci sarebbe molto di cui sorprendersi.

Contributi di Vassilios Karagiannis

Jessica Pratt

Discografia

Jessica Pratt (Birth Records, 2012)
On Your Own Love Again (Drag City, 2015)
Quiet Signs (City Slang / Mexican Summer, 2019)
Pietra miliare
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