Shannon And The Clams

Shannon And The Clams

I nuovi mostri

Dagli esordi scarmigliati in bassa fedeltà al modernariato gioiello di "Gone By The Dawn", con una miracolosa miscela di primitivismo rock e svenevolezze doo-wop, girl-group, punk e rockabilly. Dal polveroso retrobottega americano degli oldies but goodies, l'inesorabile ascesa della compagine di Shannon Shaw e Cody Blanchard, i più credibili campioni del garage-revival di questi anni

di Stefano Ferreri

Il giorno del loro primo incontro, sono ancora tutti studenti al California College of the Arts di Oakland: la burrosa Shannon Shaw, una Etta James goffa e biondissima dal poderoso contralto, il basso Danelectro suonato per diletto con una certa furia, e il santino di Dusty Springfield nel taschino del Teddy; il cantante e chitarrista Cody Blanchard – King Lollipop per gli amici – look buffo da fricchettone hillbilly e devozione incondizionata al fantasma di Buddy Holly; e Ian Amberson, batterista e percussionista dall’aria svitata, evidentemente il tassello mancante per completare il puzzle e formare un gruppo. In comune, tra le altre, la passione per tanta musica da tempo caduta in disgrazia ma anche per la più sfrenata paccottiglia dell’immaginario pop americano: da un lato la polverosa mitologia del doo-wop, il rock’n’roll primigenio, la teatralità codificata e i lustrini dei girl-group, oltre all’estasi canzonettara dell’epopea surf-rock tornata con prepotenza alla ribalta nell’ultimo lustro; dall’altro l’estetica vezzosa di prima che il grande sogno si infrangesse per sempre, dell’American Graffiti (o dell'"Ultimo Spettacolo" per i cinefili che prediligano la versione meno idealistica e più crepuscolare) e dello scintillante modernariato in genere. Un corredo nell’insieme variegato ed eccentrico oltre ogni dire, centrifugato e servito per giunta con una sensibilità più prossima al punk degli anni Ottanta e al garage pidocchioso dei Novanta, Mummies in testa.
Un primo singolo per la sconosciuta Weird Hug, una sfilza di concerti in ogni angolo della Bay Area e per la combriccola appena battezzata Shannon And The Clams già batte l’ora del debutto. Il colpo di fortuna, in tal senso, ha le fattezze dinoccolate del lungagnone Matthew Melton, rocker di Memphis trapiantato a Oakland, che già si è tolto qualche soddisfazione alla guida degli Snake Flowers II e ha da poco varato quella che si affermerà presto come più fortunata tra le sue creature, i Bare Wires. E’ lui a proporsi per primo come produttore al bislacco terzetto, ed è lui, già fotografo dilettante per Jay Reatard, l’autore dello scatto che finirà sulla copertina dell’album di esordio, fuori per 1-2-3-4 Go! appena qualche mese più tardi.

Le vongole veraci della Bay Area

220x270_i_06I Wanna Go Home
ha il pregio di aprirsi con una potenziale hit, un brano esuberante e per certi versi paradigmatico del trend più in voga nell’alternative californiano. Si intitola “Troublemaker”. La veste è tendenzialmente sudicia, un surf-rock gracchiante e riverberatissimo, affogato in pozze di bassa (quando non infima) fedeltà. In cabina di regia, Melton si dimostra davvero bravo a catturare lo spirito schietto di una formazione ancora amabilmente incontaminata e naif, rumorosa quanto basta. Anche oltre, le soluzioni adottate restano dilettevoli e questa prima incarnazione fracassona dei Clams opta per una riproposizione del canone dei Trashmen, se possibile ancor più virato alla farsa e al guazzabuglio garage-rock.
In “You Can Come Over” e “Cry Aye Aye Aye” si avvertono le prime tracce di svenevolezza per una Shannon ancora grossolana nelle sue incursioni ad ampio raggio nella mitologia pop-rock dei primordi. Il romanticismo sbrindellato del gruppo trova così una sua embrionale ragion d’essere, anche se la voce della cantante appare ancora pesantemente limitata da una strategia che la predilige negli abrasivi panni dell’urlatrice. L’approssimazione, in fondo, negli anni dell’esplosione di pidocchiose etichette come la Woodsist è un espediente alquanto funzionale per veicolare il proprio messaggio.
L’incendiario boogie di “Scuffle With The Clams” attesta le credenziali primitiviste dei californiani, con la Shaw che tende a non discostarsi dal ruolo di punkette esercitato a fianco dell’amico Seth Bogart nell’avventura caciarona Hunx & His Punx. Vale lo stesso discorso per “Blast Me To Bermuda”, anche più dozzinale come tirata garage-punk sozzissima (e con la bionda a recitare la parte della monellaccia scapestrata) mentre sono addirittura dei rudimentali accenni post-hardcore a fare capolino tra le pieghe di “Cat Party”, numero bruciante per impatto ma assai scarso in quanto a spunti degni di nota. Per ora, ad ogni modo, i ragazzi di Oakland vanno benissimo così, trascinanti e non troppo originali. In altri frangenti I Wanna Go Home si configura peraltro come una sorta di prova generale per quanto verrà poi: scarmigliato, pieno zeppo di asperità ma già in fissa con le formulette vintage e un revival rombante. A fare eccezione è soprattutto “Surrounded By Ghosts”, i cui fantasmi altro non sono che i rimasugli di un’epopea musicale sepolta, ma dalle seduzioni imperiture. Non meno emblematica, “Waiting For You” ben rappresenta in potenza l’irresistibile germe del trio, con la vocetta femminea di Blanchard intenta ad avventurarsi per prima in territori presto abitati in pianta stabile, e con ben altra autorevolezza, dalla sua controparte in gonnella. Proprio lei lo segue a ruota nella title track come nella meravigliosa “When You’re On”, e la sua ruvida dolcezza non lascia certo indifferenti. L’incanto fa così breccia come un timido raggio di sole e già regala il suo magico tepore.

220x270_ii_05Ne esce quindi un’opera prima stimolante ma squilibrata, indecisa sulla direzione da prendere. Per fortuna non dovrà passare troppo tempo – pochi mesi appena – perché la band faccia la scelta giusta. Le quattro tracce dell’Ep Hunk Hunt rappresentano già un significativo passo avanti: songwriting e resa melodica migliorati, personalità più ardente, registrazioni in genere più curate pur senza sacrificare quel ricercato alone di sbracatezza. Il nuovo standard è improntato a un power-pop incalzante e pestone, con il gruppo che a più riprese dà la sensazione di divertirsi sopra ogni cosa, tra guasconate e riuscite sgroppate anthemiche a più voci (la title track). “Would You Love Me If I Was Dead” è il primo matrimonio di eros e thanatos celebrato dalle Vongole, una torch song adorabile cantata da Cody in falsetto da fatalona, e lascia l’impressione di un potenziale ancora in parte inespresso. Il cuore infranto di Shannon e dei suoi sodali è giovane e nel contempo vecchio più di sessant’anni. “Heart Break” lo dice in modo chiaro, fissa le coordinate di una promessa che è estatica oltreché estetica: la band di Oakland d’ora innanzi non sarà mai più la stessa.

Per un annetto i ragazzi si tengono alla larga dallo studio di registrazione e portano in giro per gli States il loro garage fuori dagli schemi. I concerti – dove si vende tra gli altri la miscellanea in Cd-r Scuffle With The Clams – catalizzano l’attenzione di molti, anche fuori dalla ristretta nicchia di riferimento, per la generosità profusa e il corollario di assortite eccentricità. Vengono descritti da più parti come spettacoli tra i più esilaranti e avvincenti da diverso tempo a questa parte, così il nome inizia a farsi strada e non sfugge allo staff della Burger Records, che distribuirà la versione cassetta dell’esordio e li opzionerà tra i protagonisti delle rassegne organizzate dal vivo negli anni seguenti con la crema della scena californiana (e non solo), Burgerama e Burger Boogaloo.

Alla fine del 2010 esce quindi un secondo Ep, Shannon And The Clams… Ruin Christmas. Quattro nuovi pezzi, titolo eloquente: il terzetto “rovina il Natale” rileggendolo alla propria maniera, tra una godibile prelibatezza twangy dal sapore hawaiano (“Melekalikimaka”), una rilettura al cloroformio da Elvis Presley (“Blue Christmas”) e una volutamente canina della Mariah Carey in assoluto più populista (“All I Want For Christmas Is You”). Completa il quadro il tuffo nella melassa sunshine-pop di “Fat Daddy”, tutto ninnoli e incanto da vecchio jingle televisivo, nello spirito della raccolta compilativa curata dal regista cult John Waters solo sei anni prima.

The Cult Band

220x270_vi_02Dopo essersi ampiamente dilettati con ogni sorta di stuzzichino accessorio, ad aprile del 2011 scatta per la compagine di Oakland l’ora del sophomore. Ma a uscire non è solo l’album, intitolato Sleep Talk, perché sarà soprattutto il mirabile contralto della burrosa Shannon Shaw a farsi finalmente apprezzare, assicurandole un ideale primo premio ai campionati nazionali per la cantante emergente più improbabile della scena alternativa tutta.
La biondona sbaraglia una concorrenza non proprio irresistibile e regala a una ridotta platea di reietti il più credibile elogio del diverso da un po’ di tempo a questa parte. Per riuscire nell’impresa le tocca indossare i panni grotteschi dell’inguaribile passatista, rimestando senza pace nel gorgogliante calderone della tradizione pop americana per smascherarne trucchi, ipocrisie e morale fasulla. In cerca del refrain perfetto con cui infiorettare il trionfo dei perdenti di lungo corso, dà prova di un romanticismo schietto, mimetico nella forma e graffiante nella sostanza, amplificatore ideale del desiderio di rivalsa di una schiera di artisti da sempre relegati all’ombra del successo. Oltremodo sincera e potente la scelta di campo, guidata dal primitivismo ingenuo e dall’insopprimibile e corrosiva attitudine freak del trio, scandita dal pulsare selvaggio e ipnotico di un mantra (“One of us! One of us!”) rubato a uno dei capolavori maledetti della storia del cinema, ora e più che mai rivendicazione di un’appartenenza e di un’identità plasmata per forza di cose nel contrasto.
Il secondo vero album di Shannon e delle Vongole è però molto più di un semplice omaggio a Tod Browning e al suo indimenticabile plotone di scherzi della natura. E’ un sontuoso accumulo di citazioni più o meno colte, cortocircuiti kitsch e rimandi sgargianti al polveroso retrobottega culturale americano degli Oldies but Goodies, ben assortiti tra loro in nome dell’irriverente sottotesto di fondo. Non importa apparire brutti, sporchi o cattivi quando questo è il solo volto che si ha da mostrare, almeno a chi non ne merita di migliori. Il politically correct è un riguardo umiliante oltreché inutile in un persistente clima di buonismo iscariota, e tutti i compromessi possono prepararsi al confino eccetto quello che lega dolcezza e ruvidezza in una liaison irresistibile: non deve essere affatto facile suonare grezzi e raffinati al contempo, annullando gli scompensi dell’operazione recupero con la grinta commovente di chi si ostina a vivere tra le pagine di uno sbiadito album dei ricordi.

220x270_iv_03Con “Baby Don’t Do It” e “You Will Always Bring Me Flowers” si parte all’insegna di un’integerrima riscoperta del doo-wop e dei girl group, ma è solo la prima di una lunga serie di scaltre illusioni espressive. Il delicato ricamo dei golfini delle pin-up è presto corrotto dalle bizzose orlature rockabilly dell’elettrica di Cody Blanchard, mentre la tavola viene imbandita con ogni sorta di stravizio soul, R&B o proto-twee, con bizzarrie degne della svendita di un rigattiere (la chitarrina calypso e le congas di “Oh Louie”) mentre il beat impartisce dall’alto la sua benedizione come un Dio buono e misericordioso. Quello di “Sleep Talk” è un perfido garage-revival per cultori: prepotente, infettivo, commovente nella sua purezza e nella giustezza del suo modernariato, irrimediabilmente fuori moda come solo King Khan e Mark Sultan sembrano oggi in grado di essere.
Anche la malinconia è accessorio vintage di gran classe nella vetrina di questi abili falsari statunitensi: non si spiegano altrimenti le creste surf-pop rivisitate alla radice con la determinazione degli amatori intransigenti e senza blande smanie di contaminazione con il presente. L’unico elemento realmente originale è quell’indole scarmigliata, incontaminata, ludica e sempre un tantino inquietante che fa apparire Shannon & The Clams la versione psicotica e indignata delle Shangri-Las, soddisfacente nuova linfa per una collezione di stili altrimenti indirizzati all’oblio della pura accademia. Anche nella loro variante più ispida e ribelle, la procace frontwoman e i suoi accoliti riescono a non tradire l’artificio dietro al minimo dettaglio, si rivelano bravi economi in fatto di fronzoli arrivando a svelare nell’emblematica “Toxic Revenge” la propria ideale certificazione genealogica tra Ramones e Ronettes (il nome Ramonettes avrebbe forse semplificato troppo le cose), prima dei fumi alcolici di un delirio no-wave degno delle Bride of No-No.

220x270_iii_03Come per numerosi altri apostoli del genere, la cura del particolare non lascia al caso nemmeno un riff, né un watt. In Sleep Talk questa precisione ha un esito davvero stupefacente nella resa sonora analogica, Pasqua solenne del riverbero, una chicca che i critici dalla memoria sempre troppo corta potrebbero archiviare per somma dabbenaggine come bassa fedeltà e arrivederci, facendo al disco il torto insopportabile di un apparentamento forzato alla scena neo-surf pidocchiosa del circuito californiano. Mezza chitarra in più la merita da sola l’interpretazione grandiosa della Shannon cantante, da brividi per come sa portare un alito di vita vera tra gli impeccabili fondali di cartapesta del filologicamente corretto. Una galleria di virtuosismi non leziosi destinati tuttavia al solo catalogo delle buone intenzioni senza quel taglio straniante, quella weirdness canaglia, le sinistre atmosfere di cui sono impregnati come spugne i dodici episodi dell’album. Lo stesso magico sgomento del ballo di fine anno sulle note di “Love Among The Stars”, con la trappola a sorpresa predisposta questa volta proprio dalla novella reginetta Carrie nella sua versione extralarge, impaziente di lordarsi di sangue nell’attimo stesso della sua incoronazione.
Favole che trascolorano in incubi, armonie svolazzanti che si fanno spettrali, cuori velenosi racchiusi nel guscio di una manciata di vecchie caramelle, così innocenti nel loro incarto di foglie d’oro e d’argento. In canzoni come “The Woodsman” risplende tutta la delizia dell’uomo nero. Rivivono gli anni Cinquanta del sogno incontaminato, riletti nel candore guasto delle teen tragedy ballad dei Sessanta e del death rock dei Settanta, quattro minuti semplicemente strepitosi. E più di tutto i colori acidi di quello stesso sogno, ormai falsati dal tempo, nella pellicola condannata a un’eternità sempre più rancida nella pancia di un’anziana Kodak. La voce di Shannon racconta come nessun’altra l’umore languido, malato, torbido e feroce di chi si è rassegnato alle seduzioni della propria mostruosità: sopra le righe ma in maniera autentica, dignitosa, tragica e non macchiettistica, straziata come Liz Taylor dallo sconfinato dolore della bellezza che si logora.

Una promessa rimandata

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Di riffa o di raffa, il nome di Shannon Shaw diventa così uno dei più gettonati tra gli appassionati di quella scena californiana che ha recentemente portato al successo Ty Segall (e relativa ghenga) in qualità di golden boy e proprio alfiere vincente. Cody si toglie lo sfizio di un esordio solista con il moniker di battaglia King Lollipop (il dilettevole “Woodland Whoopee Songs Of Ol' Callowhee”, fuori ancora per la 1-2-3-4 Go!) ma è poco più di un passatempo, un po’ come la cover band dei Togas che nel 2012 vede impegnata la frontwoman assieme proprio a Ty Segall, a Philip Sambol (Strange Boys) e Lance Willie (Reigning Sound), in un pugno di estemporanei spettacoli con tanto di toghe à-la “Animal House” e riletture da Kingsmen, Undertones, Kinks, Del Shannon e Beatles.

La prospettiva di un nuovo fortunato sdoganamento e il passaggio alla Hardly Art, sussidiaria Sub Pop con in scuderia Carissa’s Wierd, Gem Club e Protomartyr, fanno crescere a discreti livelli l’attesa per il terzo capitolo del gruppo forse più colto e sgangherato del lotto (al pari, ormai, della formidabile accoppiata King Khan & BBQ Show), così miracolosamente vivo e attuale nella sua originale rilettura di formule altrimenti morte e sepolte. Parte del merito va attribuita al singolo apripista “Ozma”, appropriato nel ribadire come dietro le scenografie dell’epopea surf-beat batta in fondo un cuore giovane e sufficientemente irrequieto. In questo Dreams In The Rat House il ventaglio espressivo di Shannon and The Clams conferma nel ristretto ambito di riferimento tutta l’ecletticità di cui la band è capace, spaziando dalla vitalità tra rockabilly ruspante e girl-group insozzato di “Hey Willy” agli spettri doo-wop usati come arieti nello svenevole incantesimo sixties “Heads or Tails”, senza dimenticare l’inconfondibile candore anni Cinquanta sfoderato a più riprese dalla formosa cantante quasi fosse la sua personale coperta di Linus.
In un genere in cui spesso la caciara e la sporcizia assicurate dai fuzzbox tendono a fare la differenza, qualità uniche come le loro non possono che suonare come autentiche benedizioni alzando tanto l’asticella della proposta quanto quella delle pretese, in coloro che non nascondono il proprio apprezzamento. A risplendere in maniera abbagliante è ancora una volta il superlativo romanticismo assicurato dalla Shaw in qualità d’interprete tutta cuore, tosta quanto delicata, che non indugia in futili pose e conquista i suoi ammiratori con la forza di un sentimento esercitato sempre al riparo dalle tentazioni facili del sentimentalismo. A elevare ulteriormente un coefficiente di suo più che ragguardevole provvede la versatilità del contralto pazzesco di Shannon – potente e sorprendentemente carezzevole, mesmerizzante e capace di un grandioso trasporto emotivo – vero e proprio strumento chiave nella già preziosa dotazione della band. 
Non meno efficace per la peculiarità dei Clams è poi la chitarra guizzante di Cody Blanchard, sensazionale miniaturista jangle, mentre a completare il quadro pensa una fedeltà nella resa sonora anche più bassa dei consueti standard del gruppo di Oakland, indispensabile per conferire quella patina di rude approssimazione che è la maschera perfetta per degli abilissimi sofisticatori della citazione come loro. Proprio l’alveo ultrariverberato e acidognolo, assieme alla prodigiosa arte mimetica praticata sullo sfondo di cliché canzonettari troppo a lungo dimenticati, determina quella strana crosta d’incanto virato al rancido che ha reso davvero speciale il sound della formazione californiana.

220x270_01Frangenti come “The Rat House” vedono Shannon e le Vongole liberare tutta la loro weirdness manigolda insieme al tono d’irriverente follia nonsense e a un’attitudine punk primigenia. Risiede in questo la purezza del loro garage fuori tempo massimo e necessariamente fuori moda: è il clima ribollente e sotterraneo che innerva le loro bizzarre esplorazioni come un fervore malato ma genuino, contribuendo a dare sostanza e vigore alle impeccabili architetture chitarristiche del filologicamente corretto. Non manca (“Bed Rock”, la nuova – meno convincente – “The Cult Song”) la pagina di cupo e arrembante primitivismo psychobilly in stile Cramps. La band svela così la sua anima più nera. Dà sfogo a un sublime temperamento freak senza limitare l’armonia o la coerenza dell’insieme, togliendo anzi credito a chi si ostina a considerarla una semplice combriccola di pur validi artigiani persi nel flusso lezioso dei propri esercizi di stile. Se si esclude il prescindibile filler che chiude il disco con un duetto a suon di ruggiti, Dreams In The Rat House si mantiene costantemente su una soglia qualitativa apprezzabile. 
Sopra la media “If I Could Count”, memorabile per l’impressionante aderenza formale ai modelli di riferimento e per l’indole passatista eletta a puro emblema identitario. Non meno rimarchevole, tra intimismo e nostalgia, la perfezione easy-listening del ritornello di “Unlearn”, un pezzo assassino come il gruppo ne ha già scritti diversi, autentico capolavoro in cui l’equilibrio tra emotività e finezza non potrebbe approdare a esiti più mirabili. E’ in episodi di questo tipo (lo stesso vale per “The Rabbit’s Nose”) che emerge come, oltre che bravi musicisti, i Clams siano anche eccellenti ideatori di trame pop, fedeli a un’estetica fino alla fine ma sempre e comunque personali e sinceri.

Dopo I Wanna Go Home e soprattutto Sleep Talk era lecito attendersi il disco della consacrazione, quello che portasse Shannon and The Clams ad aggiudicarsi il jackpot come capitato non solo al già menzionato Segall ma anche, in misura minore, a Mikal Cronin o ai Thee Oh Sees. Non andrà proprio così perché qui manca forse quel pizzico di coraggio in più che le circostanze avrebbero richiesto. Una conferma sostanziale che non aggiunge però nulla di imperdibile ai predecessori. Resta l’impressione di trovarsi al cospetto di un gruppo di caratura largamente superiore alla media, specie in una nicchia dove i veri assi si contano sulle dita di una mano. Shannon e le sue Vongole rientrano nella categoria ma per ora non vanno oltre le dimensioni del mignolo o, volendo essere generosi data la loro indubbia simpatia, dell’anulare.

Certo il terzetto combatte la sua ideale partita su più fronti. In sintonia con gli anni dorati che omaggia con la sua musica, si conferma una formidabile macchina da quarantacinque giri. A preoccuparsi di raccogliere i vari sette pollici pubblicati nel corso dell’ultimo triennio è ancora una volta la Burger e alla fine dell’anno una cassetta intitolata semplicemente Singles Collection vede così la luce per la gioia dei completisti. Nel mucchio svettano le cover della celeberrima “White Rabbit” dei Jefferson Airplane e di una rovinatissima “Angel Baby” di Rosie & The Originals, perfette entrambe per la Shaw incendiaria che le interpreta, oltre al superlativo crepuscolo di “Jimmy” e all’inciso alcolico di “Paddy’s Birthday”.

I sovrani del garage-revival

220x270_vii_02Nella musica pop, si sa, radicalizzare le proprie consuetudini espressive è espediente fidelizzante di indubbia efficacia ma alla lunga può portare al logoramento. Deve essersene accorta anche l’allegra combriccola, che con l’ultimo album a referto si è limitata, come detto, a una replica in pompa magna del formulario già proposto con profitto nell’ottimo Sleep Talk, infilandosi di fatto in un vicolo cieco creativo e mostrando in controluce una prima patina di manierismo. Il fisiologico rinculo nell’estro della compagine di Oakland non dovrebbe però essere andato al di là dello specifico passaggio interlocutorio. Qualche sostanziale cambiamento viene registrato, anche se riesce difficile pensare sia sufficiente a determinare la bella sterzata che intendiamo raccontare qui: Nate Mayhem rimpiazza il cofondatore Ian Amberson dietro i rullanti e, dopo un paio di uscite autoprodotte, il rinnovato terzetto sceglie di affidarsi allo spirito affine Sonny Smith e a James Riotto (già con l’elvetica Sophie Hunger), ospite di John Vanderslice al suo Tiny Telephone Studio.

Rispetto a Dreams In The Rat House, i californiani sembrano godere di tutt’altra freschezza, di una nuova agilità anche, e nell’insieme pare scongiurato l’effetto stantio di certo revival necrofilo.
Si recupera piuttosto una propensione ai sottogeneri di riferimento davvero a fuoco, limitando al massimo tanto il quoziente propriamente garage-rock nel proprio marchio quanto le energie dilapidate a vuoto. Il taglio si è fatto più minimalista ma non stravolge le coordinate di massima della band. Il passionale boogie di “I Will Miss The Jasmine” è la riprova della felice inclinazione delle Vongole per gli Oldies But Goodies e il modernariato musicale in genere. Non è venuta meno, per dire, la predilezione per le torch song da cuori infranti, per un romanticismo incantevole e ormai a brandelli, vera specialità della casa. L’ennesimo gioiello di questa corona si intitola “How Long?” e presenta la ditta Shaw & Blanchard superlativa nel limitare le implicazioni parodistiche della propria musica e, nel contempo, nel non cercare lo strappo o la prova di forza a tutti i costi.

220x270_xii_01Gone By The Dawn beneficia di una misura rimarchevole, sceglie di non strafare, non la butta in caciara e resta sempre accurato e brioso, specie grazie agli interventi di un Cody più che mai finissimo ricamatore (“Baby Blue”) al servizio di una Shannon al solito fascinosa e infettiva. Il maggior merito della corpulenta vocalist, in questa occasione, risiede nel non aver voluto esasperare il tratto, consentendo così alle nuove canzoni di non uscire schiacciate o disinnescate dai cliché che le animano. Emblema di questo nuovo equilibrio è il singolo “Corvette”, raffinato e controllatissimo per una formazione da sempre votata a un dionisiaco particolarmente ebbro. Ma nel disco sono un po’ tutte le esagerazioni a risultare bandite per principio: lo stile e l’interpretazione ne traggono evidente giovamento, e lo stesso vale per un songwriting finalmente limpido.
I dialoghi tra il sensazionale contralto della cantante e le miniature jangle della chitarra di Cody Blanchard portano a nuove pagine memorabili come in “My Man”, occasione quantomai propizia per rispolverare la formula delle teen tragedy ballad che aveva reso magici certi passaggi su Sleep Talk. La biondissima frontwoman non appare meno sensuale in una title track che ce la presenta carezzevole come di rado le è capitato di essere. “Telling Myself” riporta il suo bel broncio in primo piano, con una sorta di ideale cover doo-wop degli Zombies, mentre “The Bog” è un episodio ludico e marziale, senza macchie nel sublimare l’idea stessa di ossessione nell’immaginario di questi artisti. Il retrogusto rimane comunque, immancabilmente, dolceamaro.
Manca forse il pezzo da novanta, a tutto vantaggio della coesione d’insieme, ma It's Too Late ha comunque i crismi dell’instant classic, forse anche per la disinvoltura con cui rimastica stilemi ormai scolpiti nella pietra (“Let’s Twist Again” risuona come qualcosa più di un semplice miraggio).

220x270_xNegli ultimi anni i potenziali discepoli (quando non emuli) hanno cominciato a farsi sentire, in prima fila quella Sallie Ford cui melodie e verve non fanno certo difetto. L’amore per il passato e la purezza di Shannon rimangono tuttavia irraggiungibili anche per lei, specie nei numeri più movimentati come “Knock 'em Dead” dove il confronto si fa per forza di cose più aperto. Quando riesuma il vestitino sporco del progetto Hunx And His Punx, la Nostra torna a brillare in qualità di stellina garage-punk, santa protettrice dei primitivisti indefessi. Capita nelle battute conclusive dove la briglia si fa via via più sciolta, l’indole da goliardi della cosiddetta mozione Blanchard prende il sopravvento e i ragazzi si travestono da Barbaras, solo meno floreali e decisamente più slacker (“The Burl”, titolo illuminante). Non tardano poi a riaffacciarsi gli adorati fantasmi fifties e primi Sixties, in una chiusa che si fa beffe persino della malinconia per tradursi nella trascinante celebrazione di un’epopea che proprio non vuol saperne di restare sepolta.
Senza timore di smentita, Gone By The Dawn si piazza in cima alla lista di categoria per il 2015, ex-aequo con King Khan & BBQ Show. Annata mediocre, sottolineeranno i maligni, ma quel che conta davvero è aver ritrovato nel pieno della forma una band di assoluti fenomeni.


E tre anni dopo, rieccoli! Chiariamolo subito per sgombrare il campo dai possibili fraintendimenti, e senza che ci si rivolga nemmeno incidentalmente agli immancabili detrattori del garage ultracitazionista: la combriccola Shannon & The Clams non ha mai creato nulla di più scintillante della nuova raccolta di canzoni, Onion, né la sua corpulenta capobanda è mai riuscita interprete più miracolosa di quanto appaia oggi. Ci si potrebbe mettere a discutere su quanto del merito vada attribuito al nuovo produttore, un certo Dan Auerbach, che li ha fortemente voluti nella neonata scuderia Easy Eye Sound e, prima di portarseli in tour, ha messo loro a disposizione il suo studio di Nashville per una decina di giorni, all’inizio dello scorso anno. Ce ne asteniamo volentieri, avendo già abbondantemente tessuto le lodi di un gruppo di fuoriclasse assoluti, con buona pace della squadra di tecnici che di volta in volta li ha assistiti.

 

La band di Oakland, divenuta un quartetto con l’ingresso del tastierista Will Sprott, aveva iniziato a lavorare al suo quinto album già qualche mese prima ma si è vista costretta a cambiare in corsa direzione dopo l’incendio del magazzino Ghost Ship, sede di un collettivo di artisti, che nel dicembre del 2016 ha strappato alla vita una quarantina di giovani durante un concerto di musica house, proprio nella sua città: una tragedia che la denuncia di “Backstreets” e il congedo stile teen tragedy ballad di “Don’t Close Your Eyes”, parente stretta delle garbate riletture dell’ultima Nicole Atkins, chiamano direttamente in causa.
Sempre più trincerati nello sfavillio del loro sublime diorama, Shannon e compagni spingono a tavoletta sul pedale della nostalgia e di un modernariato inarrivabile, estremizzando la propria vocazione da polveroso girl-group e l’esattezza filologica delle loro riletture. Col suo poderoso contralto (tra Amy Winehouse e Beth Ditto, se proprio fossimo costretti a banalizzare), la Shannon cantante recita sempre più nei panni della dominatrice, non esita a giocarsi la carta del magnetismo malinconico e miscela ruvidezze e dolcezza mentre la confezione approntata dal frontman dei Black Keys provvede a esaltarne la patina retrò, oltre a moltiplicarne le fascinazioni tra cori e controcori. Nonostante questi trucchi e nonostante qualche curioso barocchismo (il dialogo harpsichord/organo di “It’s Gonna Go Away), può capitare che la già elevatissima asticella non consenta di apprezzarne fino in fondo il virtuosismo, e sarebbe un peccato.

 

Meno simpatici e sconclusionati freak garage-rocker, i Clams sembrano aver riconvertito l’arrembante weirdness primitivista di ieri per porsi fino in fondo al servizio di un’arte mimetica non comune, rinunciando a qualcosa in termini di sincerità (e di originalità, certo) ma raffinando ulteriormente una formula che li vede sempre più incontrastati campioni del revival anni cinquanta e sessanta. In questo senso “Onion” è davvero, forse, il loro lavoro più compiuto, sfrenato, spregiudicato, un curatissimo esercizio di stile che non pare voler lasciare nulla al caso. Formidabile, in particolare, il carpiato in piena epopea bubblegum/surf della title track, profuso con un tale candore da questi maestri falsari da riuscire inappuntabile, o la stravaganza di rientro della sei corde di Cody Blanchard in “Love Strike”, accompagnata per fortuna dalla Shannon forse più incline al romanticismo e da ritmiche nemmeno troppo vagamente caraibiche, per un cortocircuito sensazionale. Per non tacere poi del prepotente ritorno alla festa di fine anno scolastico con il lento struggente di “Did You Love Me”, da ballare guancia a guancia, dell’ennesima incursione cuore in mano per la burrosa performer nei meandri di un passato mitologico (“I Leave Again”), delle sinistre evocazioni tra spaghetti-western e rockabilly di “Strange Wind” o della parentesi calypso/beat-canzonettara di “I Never Wanted Love”, coi suoi fondali policromi di cartapesta appaltati al farfisa e alle immancabili chitarrine vintage messe a disposizione dal padrone di casa.

 

Persino i passaggi che diresti minori, quelli più leggeri e sbarazzini come “Tell Me When You Leave” o “If You Could Know” – col suo incantevole coretto doo-wop e una Shaw gattina sensuale come di rado le è capitato di mostrarsi – contribuiscono alla riuscita anche prospettica dell’affresco. Il dazio collaterale della maniera, dell’eccesso di affettazione, resta per forza una variabile calcolata ma i californiani compensano con l’autorevolezza di chi sia ormai così ben calato nella parte da potersi concedere il lusso, occasionalmente, del pilota automatico, senza colpo ferire ma soprattutto senza prestare il fianco a qualsivoglia controindicazione per l’ascoltatore. Se non siete tra coloro che ingrossano le fila dei detrattori, quelli di cui dicevamo all’inizio, forse non è troppo tardi per prestare orecchio all’inarrivabile Shannon Shaw e alle sue vongole.

Shannon And The Clams

Discografia

SHANNON AND THE CLAMS

I Wanna Go Home(1-2-3-4 Go!, 2009)6,5
Hunk Hunt Ep(1-2-3-4 Go!, 2009)7
Ruin Christmas Ep(1-2-3-4 Go!, 2010)6
Sleep Talk(1-2-3-4 Go!, 2011)8
Dreams In The Rat House(Hardly Art, 2013)6,5
Singles Collection(Burger, 2013)6,5
Gone By The Dawn(Hardly Art, 2015)7
Onion(Easy Eye Sound, 2018)7,5
KING LOLLIPOP
Woodland Whoopee Songs Of Ol' Callowhee(1-2-3-4 Go!, 2011)6
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Troublemaker
(video, da I Wanna Go Home, 2009)

Blood
(video, da Hunk Hunt Ep, 2009)

Hunk Hunt
(video, da Hunk Hunt Ep, 2009)

Fat Daddy
(video, da ...Ruin Christmas Ep, 2010)

Done With You 
(video, da Sleep Talk, 2011)

The Cult Song
(video, da Sleep Talk, 2011)

Toxic Revenge
(video, da Sleep Talk, 2011)

Sleep Talk
(video, da Sleep Talk, 2011)

Rat House
(video, da Dreams In The Rat House, 2013)

Rip Van Winkle
(video, da Dreams In The Rat House, 2013)

Ozma
(live, da Dreams In The Rat House, 2013)

Muppet Babies
(video, da Singles Collection, 2013)

It's Too Late
(video, da Gone By The Dawn, 2015)

Point Of Being Right
(video, da Gone By The Dawn, 2015)

Corvette
(video, da Gone By The Dawn, 2015)

How Long?
(live, da Gone By The Dawn, 2015)

The Boy
(video, da Onion, 2018)

Backstreets
(video, da Onion, 2018)

How Long?
(video, da Onion, 2018)

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