Steve Hogarth - Marillion

Steve Hogarth - Marillion

Rather progressing than progressive

Cronache di una metamorfosi: dal giullare triste e orfano dei Genesis al “più nascosto segreto del music business”. Ovvero, la storia dei Marillion, una mutante creatura neo-progressive che ha saputo trasformarsi negli anni, passando dall'ingombrante sagoma di Fish alla non meno carismatica personalità di Steve Hogarth

di Michele Bordi

Premessa

I Marillion rappresentano un raro fenomeno di straordinario feeling e fidelizzazione con la propria fanbase. Nati come eredi dell’allora decadente mondo progressive degli anni 70, nella particolare incarnazione dei Genesis - ormai stabilmente dediti all'assalto della hit da classifica - si sono resi protagonisti di una sorprendente quanto pregevole metamorfosi musicale che li ha gradualmente consegnati al mondo della musica di nicchia. In ormai eterno conflitto con la loro immagine del passato e soprattutto con la memoria collettiva ancorata ad essa, hanno saputo sopravvivere ai margini del music business grazie al ferreo e indissolubile supporto dello zoccolo duro dei loro devoti fan.

L'epoca del giullare

Anno 1978: il progressive-rock, genere dominante degli anni 70, sembra in procinto di esalare gli ultimi respiri sotto i prepotenti colpi dello scalpitante movimento punk e new wave. La decade è al tramonto e le grandi band che l'hanno rappresentata si allontanano dalle proprie radici: le più coraggiose rimettono in gioco sé stesse provando a reinventare la propria arte; altre, con istinto di sopravvivenza misto a un po’ di opportunismo, preferiscono tuffarsi al volo nelle nuove correnti synth-pop con risultati più o meno credibili; le meno fortunate chiudono direttamente i battenti. In questo polverone, qualcuno ha il coraggio o l’incoscienza di insistere con il vecchio corso, magari sperando in una rivoluzione gattopardiana e puntando ai numerosi ascoltatori rimasti orfani del loro caro vecchio progressive. È così che l'idea di avventurarsi in un genere ormai decisamente fuori moda non preoccupa più di tanto il batterista Mick Pointer e il cantante/bassista Doug Irvin, i quali fondano i Silmarillion, nome apertamente ispirato all'omonima opera di J.R.R. Tolkien. Con la successiva integrazione del chitarrista Steven Rothery e del tastierista Brian Jelliman, la neonata band si appresta a suonare quel rimpianto sotto-genere progressivo sinfonico che si rifà platealmente all'opera dei giganti di un tempo come Genesis e Van Der Graaf Generator. Successivamente, il gruppo accorcia il nome in Marillion per evitare problemi legali con “Il Signore degli Anelli” e incide quindi il suo primo demotape nel 1980, dove appaiono gli embrioni di quello che sarà successivamente il loro Lp di debutto. Irvine lascia il gruppo, pur pubblicando un'inserzione su Musican Only per rimpiazzare la sua dipartita, alla quale risponde un certo Derek William Dick, curioso ed eccentrico personaggio scozzese. Con la rispettabile stazza fissata oltre i 2 metri di altezza, ama farsi chiamare con l'appellativo di Fish. Il fascino bizzarro del cantante impressiona a tal punto i componenti dei Marillion da spingerli ad accettare nel gruppo il suo pur non brillante amico bassista Diz Minnitt, comunque presto liquidato insieme a Jelliman per il tastierista dei Chemical Alice, Mark Kelly, e il bassista dei Metros, Pete Trewavas.

MarillionNell'arco del 1982 l'esperienza della band aumenta e gli show impressionano alcuni uomini della Emi, che si convincono di metterli sotto contratto: prima il singolo “Marquet Square Heroes” poi, l'anno successivo, l'Lp Script For A Jester's Tear rappresentano il debutto ufficiale della band.
Il successo commerciale di Script For A Jester's Tear è elevato, nonostante alcune feroci critiche riguardo lo sfacciato retaggio della storica band di Steve Hackett e soci. Ciò è soprattutto riconducibile all'approccio da menestrello cantastorie di Fish, chiaramente ispirato anche nel timbro vocale a Peter Gabriel, per non parlare delle scorribande alle tastiere di Mark Kelly, “guidato” dalla mano di Tony Banks. Tuttavia, “Script” presenta degli ottimi elementi e anche delle innovazioni, unendo i tipici cliché progressivi che esigono composizioni complesse e libere dalla canonica forma canzone (strofa-ritornello) a una presente componente melodica, fresca e rinnovata, discostandosi quindi dalle cervellotiche evoluzioni derivate dalla classica tanto care ai padri spirituali degli anni 70.
Non mancano addirittura richiami all’heavy, con una cura per la ritmica spesso sconosciuta ai predecessori: buoni esempi sono i riff stridenti della chitarra di Rothery che si alternano agli “acidi” volteggi alle tastiere di Mark Kelly di “He Knows You Know”, dove subito Fish confida il suo difficile rapporto con il vizio dell’alcol, oppure la batteria sincopata della festa di “Garden Party”. Per non parlare poi di alcuni sorprendenti richiami della malinconica “Chelsea Monday” ad alcune sonorità nientemeno che NWOBHM (con le opportune misure), vera e propria moda del momento.
I più nostalgici non possono non affezionarsi alla title track, maestosa e schizofrenica suite che apre il disco, che diventa di fatto il manifesto di un vero e proprio nuovo sotto-genere musicale: il neo-progressive. Limitatamente alla terra albionica, la band inizia a costruirsi un forte seguito, soprattutto grazie alle spettacolari esibizioni del suo frontman, sempre più leader del quintetto. Fish, seguendo fedelmente gli “insegnamenti” del suo spettro Gabriel, ammalia la folla con testi criptici e dal lessico straordinariamente ricco e ricercato, presentati con la sua irresistibile e irruente affabilità, tipica impronta del suo orgogliosamente ostentato sangue scozzese. Tramite costumi e trucco si incarna alla perfezione nel suo alter-ego: il giullare dal cuore spezzato che, in lacrime, compone canzoni per il suo amore perduto. Il personaggio è fortemente autobiografico e ricorrente in tutti gli album sotto la sua guida, impressi su carta dall'abilità dell'illustratore Mark Wilkinson (tra l'altro, padre delle leggendarie copertine degli inglesi Iron Maiden).

Pronta a tentare la definitiva consacrazione, la band allontana il suo fondatore Mick Pointer, chiaramente in affanno tecnico una volta rapportato ai nuovi scenari apertisi, e, dopo un lungo “valzer dei batteristi”, arriva finalmente a una formazione stabile con il sessionman Ian Mosley, il quale vanta collaborazioni nientemeno, e guarda caso, con Steve Hackett.
Nel 1984 i Marillion incidono così Fugazi. È un disco in apparenza in linea con il loro esordio ma caratterizzato da un'impronta dark che raramente sarà ancora così marcata nel futuro. Un un lavoro profondamente ermetico, a tratti opprimente con i suoi loop ipnotici, come nella “donna camaleonte” di “She Chameleon” o in “Jigsaw”, dove a un carillon di tastiere sintetiche si alternano squarci rabbiosi della sei corde graffiante di Steve Rothery.
La voce di Fish si fa ora malinconica, ora rabbiosa, tra prodigiosi salti dal falsetto ad acuti di amaro rancore. Non a caso, nella copertina di Wilkinson, l’alter-ego giullare dello scozzese è all'apice della dissolutezza, devastato dal dolore che soffoca a malapena con l'alcol e il vizio. Sebbene l'influenza stilistica dei grandi padri sia ancora evidente, la band acquisisce gradualmente consapevolezza dei propri mezzi e il lavoro risulta convincente, oltre a divenire un disco di culto per gli appassionati dei cinque inglesi. Il successo del nuovo album in madrepatria è tale da convincere la Emi a esportare la band negli Usa, al seguito del tour dei Rush, tuttavia con scarsi riscontri.

MarillionLa definitiva consacrazione arriva l'anno dopo con il concept-album Misplaced Childhood. La formula tra melodie e tecnica strumentale - confluita allo stesso tempo nelle lunghe e ambiziose suite “Bitter Suite” e “Blind Curve” e nei singoli abbatti-classifiche “Lavender” e, soprattutto “Kayleigh” - è semplicemente perfetta e il disco sfonda nel grande pubblico. È il primo disco profondamente maturo e consapevole della band, dove l'aura malinconica dei precedenti non viene persa, ma viene miscelata a un'anima pop con la quale i cinque musicisti mostrano una forse inaspettata confidenza. Il singolo “Kayleigh” ottiene un successo travolgente, balzando in cima alle classifiche ed entrando di diritto negli immortali “classici” degli anni 80, scolpendo e rappresentando (e, come scopriranno molti anni dopo, ingabbiando e talvolta svilendo) la loro immagine artistica nella massa per i decenni successivi. L'effetto è tale che Kayleigh, nome di ragazza puramente inventato, registra un boom di registrazioni nelle anagrafi albioniche dell'epoca.
Un cambiamento stilistico così marcato è anche dovuto al fatto che i primi due lavori della band vennero parzialmente concepiti nello stesso periodo, Misplaced Childhood, invece, denota un diverso approccio alle composizioni che suonano più ariose, raffinate e sensibilmente meno introspettive del passato, risultando più fruibili ma mantenendo quella vena progressive decisiva per il loro successo, in un'epoca che ne è rimasta ormai orfana.
L'ombra dei Genesis viene attenuata, seppur non del tutto scacciata (ancora marcati sono i richiami nella voce di Fish e negli effetti del tastierista Kelly), permettendo l'ingresso di sonorità differenti, oltre a una prepotente affermazione del chitarrista Rothery, il quale incanta con i suoi fraseggi in delay, di scuola visibilmente “gilmouriana”. Altra evoluzione è presente nei testi di Fish, nei quali vengono messe da parte le tematiche fiabesche per favorire una profonda riflessione sulla perdita della fanciullezza, vista dagli occhi di un giovane uomo: le delusioni amorose (“Kayleigh”), le difficoltà ereditate da un'infanzia difficile (“Bitter Suite” e “Blind Curve”, dove straziante è il lamento di Fish al pronunciare di: “La mia infanzia... vi prego... vi prego! Ridatemela indietro!”), la speranza che la sua infanzia non sia defunta ma possa vivere ancora dentro di sé (“Childhood's End?”).
Per il resto, quando la concorrenza dell'epoca rimane ancorata alle prime sonorità del neo-progressive, i Marillion pongono le basi per uno stile del tutto personale che li eleverà dal filone da loro stessi inaugurato. Al di là dei riferimenti in terza persona, il carattere autobiografico dell'opera è palese, soprattutto se si considera come il protagonista sia un uomo dello spettacolo. Da questo album iniziano a palesarsi alcune insofferenze di Fish verso gli effetti dell'improvvisa e massiccia popolarità che, complici il suo forte carisma e il suo status di leader della band, lo ha investito.

Marillion - FishGli effetti non tardano ad arrivare. La Emi, identificata la gallina dalle uova d'oro, tenta di spremerla il più possibile e mette sotto torchio la band spingendola a registrare al più presto il nuovo album, nonostante sia provata dall'appena concluso interminabile ed estenuante tour mondiale. La personalità prorompente di Fish comincia ad accusare fenomeni di espansione, portando a inevitabili tensioni interne, in mezzo alle quali, nel 1987, la band di Aylesbury pubblica il suo quarto lavoro: Clutching At Straws. La band prosegue nella graduale mutazione del suo stile, scrollandosi di dosso i virtuosismi del giullare sofferente dell'esordio, aprendo a un'opera dagli elementi più essenziali e coincisi e affondando le basi in una svolta rock supportata dal sempre crescente contributo della chitarra di Rothery. Le sonorità sono languide e a tratti crepuscolari, in linea con le vicissitudini dell'ennesima incarnazione dell’ego del frontman scozzese, qui appellato Torch: il menestrello conosciuto nel disco di esordio è cresciuto ed è divenuto padre ma, restio ad accettare le nuove responsabilità sopravvenute, affoga le sue crisi esistenziali in alcol e prostitute, precipitando in una patetica spirale autodistruttiva. I riferimenti all'alcol sono infatti numerosi: dal brindisi gaelico di “Slainte Math” al cocktail preferito di Torch, il “White Russian”.
In Clutching At Straws l'approccio è profondo e toccante, culminando nei versi della sublime malinconia di “Sugar Mice”: Torch si trova per l'ennesima volta al bancone del bar, rimembrando l'ultima feroce discussione casalinga (“Stavo saltellando tra un canale Tv e l’altro, una domenica di pioggia a Milwaukee, cercando di rimettere insieme pezzi di conversazioni”), spezzato dai sensi di colpa (“Dammi la colpa, puoi darmi la colpa”), in compagnia di altri derelitti come lui, intenti a cercare scuse patetiche che allevino il loro dolore e le loro ferite (“Perciò, se vuoi il mio indirizzo, è il numero 1 in fondo al bar, dove sono seduto insieme ad angeli spezzati, aggrappato alle cannucce, curando le nostre cicatrici”). Le problematiche con l'alcol dello stesso Fish sono ormai dichiarate, così come la sua profonda crisi personale.
L’immenso tour a supporto dell’album viene faticosamente portato a conclusione: l'immenso successo in ogni sua data è testimoniato dal reportage di “Live At Loreley”. Nel video, nonostante la performance di livello, è già percepibile la tensione sui volti dei protagonisti e dopo pochi mesi accade l'irreparabile: il 16 settembre 1988, con un comunicato, Fish dichiara agli altri membri della sua band di voler un pezzo più grande della “torta” Marillion, ponendo un ultimatum. Rifiutata la “gentile proposta”, i destini delle due parti si dividono: Fish inaugurerà poco tempo dopo la sua carriera solista con il suo disco di esordio “Vigil In A Wilderness Of Mirrors”, portando con sé l'illustratore Mark Wilkinson; gli altri membri della band conserveranno il proprio nome (non senza sgradevoli battaglie legali con il loro ex-vocalist), pronti ad affrontare la grave perdita di un frontman sì ingombrante, ma anche catalizzatore e principale contributore del loro attuale successo.

Steve Hogarth e la metamorfosi

“Non so perché, ma non ci preoccupammo molto quando Fish se ne andò" - dichiarerà Steve Rothery a distanza di anni - "Sentivamo che la band era comunque molto compatta e credevamo molto in noi stessi e in ciò che volevamo fare”. I Marillion non si perdono d'animo e il 3 dicembre 1988 pubblicano un'inserzione sul Melody Maker, alla ricerca dell'erede del “pesce”. Nel mare di risposte arrivate, il batterista Ian Mosley, incaricato della raccolta degli stessi, si imbatte in un nastro esclamando un immediato “Questo tizio ha una voce fantastica!”, seguito a ruota dai suoi compagni. Il nastro è di Steve “H” Hogarth, nato a Kendal e dal passato artistico caratterizzato dalla militanza nelle piccole band synth-pop Europeans, dove ricopriva il ruolo di tastierista e seconda voce, e How We Live, fondati insieme al vecchio compagno Colin Woore. Le dure regole del music business portarono al prematuro scioglimento di entrambe le formazioni, lasciando nel cantante un'amarezza e una diffidenza verso l'industria musicale mai più sopite. Per questo motivo, quando i Marillion, entusiasti dell'audizione con il giovane cantante, gli propongono l'ingaggio, Steve sorprendentemente chiede del tempo per aggregarsi. Alla fine il matrimonio avviene e il nuovo elemento viene immediatamente coinvolto nella stesura del nuovo album.

Marillion - Steve HogarthNel settembre del 1989 vede la luce Season's End, significativo titolo a cui fa eco la copertina nella quale i simboli della precedente epoca (il camaleonte, il giullare, la gazza ladra) vengono uno a uno dissolti, in segno di rottura con il passato. Nonostante ciò, complice il fatto che gran parte dei brani fossero già stati composti durante gli ultimi periodi con Fish, il disco conserva alcuni elementi stilistici già presenti in Clutching At Straws, soprattutto nelle mini-suite in esso presenti che assicurano continuità alla vena progressive della band: lodevoli le deviazioni dalla forma-canzone tradizionale concretizzate con l'infinita introduzione strumentale di “The King Of Sunset Town” (quasi a voler creare suspence prima di presentare la nuova voce della band); con le atmosfere noir di “Berlin”, ricca di riverberi e con l'azzeccato contributo al sax di Phil Todd; con la title track, splendido ed evocativo inno alla conservazione della nostra terra, per finire con i viaggi ad alta quota di “The Space”, efficacemente riprodotti dalle altissime note prese dal neo-marillico Hogarth. Proprio l'estensione vocale colpisce maggiormente, tra le doti del nuovo acquisto: l'impostazione timbrica e l'uso che fa di essa sono completamente agli antipodi rispetto al teatrale falsetto di Fish e dimostrano un coraggio artistico quasi unico da parte della band, che rinuncia a priori a un clone del suo ex-uomo simbolo. La Emi, preoccupata non solo di rimpiazzare la voce ma anche le determinanti doti di novelliere dell'uscente membro, non ancora consapevole delle eventuali qualità di Steve Hogarth, affianca alla band lo scrittore John Helmer. In realtà il nuovo cantante si rivela eccellente anche con la penna, ma il contatto empatico con Helmer si dimostrerà così riuscito da portare a una lunga collaborazione nel futuro.
Il contributo di Steve Hogarth, però, non finisce qui: nell'album appare anche una canzone del suo repertorio personale, poi arricchita dalla band con una fuga strumentale a suggello della stessa, dal chiaro sapore anni 80: è “Easter”, destinata a diventare il nuovo classico dei Marillion, sebbene senza l'effetto dirompente dell'immortale “Kayleigh”.

Il disco viene ben accolto da critica e pubblico nonostante presenti alcuni esperimenti spiazzanti, come il canonico e piacione hair-rock di “Hooks In You”, singolo chiaramente pensato per aggredire le classifiche pop “Usa-oriented” ma non ben visto da buona parte del vecchio pubblico, abituato agli impegnativi e raffinati poemi del vecchio giullare e poco avvezzo a strizzate d’occhio alle sonorità trendy del momento. Un mese dopo parte il lungo tour mondiale, durante il quale Steve Hogarth viene presentato al pubblico. L'afflusso, dovuto anche all'effetto novità, è ancora elevato ma le reazioni verso il nuovo frontman sono discordanti: c'è chi rimane impressionato dalle innegabili doti canore del nuovo acquisto, mentre altri, abituati ai diluvi di parole di Fish, appaiono perplessi di fronte alle laconiche presentazioni di Steve, al suo carattere timido e introverso, e alla sua presenza ancora impacciata sul palco, un po’ come se il suo aspetto minuto soffrisse del peso dell’eredità dello spilungone scozzese.

Nell'autunno del 1990 i Marillion si ritirano quindi nella quiete degli Stanbridge Farm Studios per portare a termine il nuovo lavoro Holidays In Eden, primo disco interamente realizzato con l'attuale organico. Ciò che, l'anno successivo, ne esce fuori è un autentico shock per i fan: i Marillion cercano un difficilissimo connubio tra il rock da classifica e la vecchia vena progressive, con un forte sbilanciamento verso la prima componente. L'influenza della Emi si dimostra totalizzante, ascoltando il pop ammiccante e ruffiano di “No One Can” o l'hair-rock di “Holidays In Eden” e “This Town”, tanto in voga nel periodo e portati avanti da artisti come U2 e Van Halen, dai quali molti dei brani traggono talvolta spudoratamente ispirazione.
Nonostante il brutale cambio di rotta, non mancano brani di pregevole fattura sia tra i brani di matrice pop - tipo il trascinante singolo “Cover My Eyes”, eredità del repertorio degli How We Live - sia soprattutto, e non a caso, tra quelli riconducibili al filone tradizionale della band, come la vibrante “Splintering Heart”, l'evocativa novella di “The Party” o il trittico finale “This Town/ The Rakes Progress/ 100 Nights”. Inoltre, Steve Hogarth dimostra qui tutte le sue notevoli doti di scrittore di liriche, con testi profondi e ricercati, sposandosi alla perfezione con i contributi colti di John Helmer (stupefacenti i riferimenti all’Iliade presenti nella title track).
Un disco che con il senno di poi rappresenta un esperimento apprezzabile, oltretutto favorito dalla splendida produzione che modernizza di colpo il sound del gruppo, sebbene il talento della band non si esprima con il pop-rock in tutto il suo potenziale. In ogni caso, l'album si rivela uno spartiacque epocale che porta la band, nell'immediato e negli anni immediatamente seguenti, a perdere gradualmente e inesorabilmente il suo fino a quel momento largo seguito: la missione della Emi di invadere il tanto agognato mercato americano, mai realmente raggiunto, fallisce miseramente e a carissimo prezzo.
In seguito alle deludenti vendite, il colosso discografico decide così, per l'album successivo, di affidare i cinque di Aylesbury al produttore Dave Meegan, con l'obiettivo di portare a termine nel più breve tempo possibile un nuovo lavoro e recuperare al volo i consensi perduti. Tuttavia (e per fortuna) la Emi commette un clamoroso errore di valutazione, evidentemente non sospettando la meticolosa e quasi folle genialità che cova nell'uomo prescelto. Una genialità che scioglie le briglie dal momento in cui la band, sotto invito dell'amico Miles Copeland, trasferisce il suo studio nel suggestivo Castello di Marouatte, in Francia. L'atmosfera del luogo suggestiona a tal punto i nuovi inquilini da creare situazioni al limite del razionale: mentre Steve Hogarth si ritira in semi isolamento nella sua camera, in una torre dello stabile, mettendo alla prova il suo equilibrio fisico e mentale nell'intento di comporre quella che sarebbe diventata la title track dell’imminente nuovo lavoro, Meegan semina microfoni in tutte le stanze, scale comprese, per seguire un ben preciso scopo: "In questo modo, se c'è qualche fantasma, lo ritroveremo sul disco".

MarillionIl tempo passa e il lavoro procede a fatica: Meegan è ossessivo nel registrare ogni nota emessa dalla band e ogni rumore ambientale del luogo; nel rielaborare ogni traccia e sovraincisione; nel ripetere ogni prova fino allo sfinimento. Quando la band esprime le sue perplessità sul ritardo che stava accumulando, lui risponde risoluto: "A mio modo di vedere ci sono due possibilità: affrettare le cose o realizzare un capolavoro".
Nel 1994, a distanza di 6 anni dal clamoroso divorzio con Fish, e in una fase di chiaro declino di popolarità sia nei confronti della critica che del suo pubblico, i Marillion sfornano a gran sorpresa il loro capolavoro assoluto: Brave. Tecnicamente parlando, si ha ancora di fronte un album progressive per definizione, che contiene tutte quelle variazioni d'animo in grado di renderlo un'opera ricca e sfaccettata: dalla foga rock di “Hard As Love” alla confessione intimista al pianoforte di “Hollow Man”; dall'atmosfera celtica della title track all'ipnotica suite di “Goodbye To All That”, un'autentica cavalcata che si addentra nei meandri più oscuri e angoscianti della mente umana. L'angoscia è effettivamente lo stato d'animo che domina questo concept-album: il ritrovamento di una ragazza in stato di confusione mentale, che si aggirava sola nei pressi del ponte Severn, ispira Steve Hogarth la cui fantasia genera una storia immaginaria da associare a quella misteriosa anima. Violenze, paure, orrori, amore, rabbia generano il disco più ermetico, cupo e sofferto della band. La voce di H sussurra le prime sensazioni della nascita, mentre gli altri componenti materializzano un profondo “respiro armonico”, con pause improvvise e brusche accelerazioni, come un diaframma che si gonfia e si distende in “Living With The Big Lie”, lasciando che rari squarci di luce spezzino brevemente la melmosa oscurità che soffoca il disco.
Slanci psichedelici permeano il delirio presente in “Mad”, dalla suite “Goodbye To All That”, diluendosi nel torpore dei fumi allucinogeni di “The Opium Den”, attraversando i ricordi di un’infanzia infelice con “Brave” e “Alone Again In The Lap Of Luxury”, fino a far esplodere il suo rancore verso la violenta figura paterna, nella disperata “Goodbye To All That”. La voce di H graffia rabbiosa, con un'impressionante immedesimazione nel personaggio femminile (“Allora, parlami dell'amore che hai respinto, parlami della fiducia che hai tradito. Ancora non capisco, perché hai ferito l'unica persona che avresti veramente dovuto proteggere?”) per superarsi nella descrizione del suo sciagurato gesto finale di gettarsi dal ponte, alla ricerca della “grande scappatoia” (“Un ponte non è un luogo così alto, un cinquantaduesimo piano... Icaro saprebbe che cadere da una montagna non è così alto, quando sei già caduta dalla Luna”). Dal vivo, la band rende al meglio l'opera, con particolare merito di Hogarth, che rivive in scena il dramma della protagonista mimando inquietanti scene di pazzia e di lotte con roadie mascherati, calandosi nel personaggio e nella sua storia con l'ausilio di trucco, codini, luci, specchi, fiori, candelabri, vesti funebri e quant'altro, per una grande prova di talento scenico, degna prosecuzione degli spettacoli che furono nella passata epoca della band inglese.
L'impacciato ragazzotto del tour di Season's End è ormai un ricordo, anche se le sue doti sceniche e teatrali appaiono decisamente differenti rispetto al suo (per lo più presunto) “rivale” scozzese.

Purtroppo, questa meraviglia dura lo spazio di quattro mesi. La Emi, che non ha adeguatamente supportato l'album ritenendolo poco commercializzabile, nonostante l'accoglienza calorosa della critica di settore, preme affinché il gruppo torni in studio e confezioni qualcosa di meno sofisticato. Nonostante la guida del quintetto inglese resti nelle mani del chirurgico Meegan, Brave ha quindi un suo successore già l'anno seguente: Afraid Of Sunlight. L'album abbandona nella forma la struttura di concept, ma continua a mantenerne l'essenza nelle sue tematiche, concentrate stavolta su un argomento che resterà caro allo scrittore Hogarth per tutti gli anni successivi: l'effetto autodistruttivo del successo e della popolarità. Ecco quindi che “Gazpacho”, con i suoi eterei arpeggi acustici, richiama le follie di Mike Tyson e O.J. Simpson, mentre “Beyond You” rende tributo allo storico produttore Phil Spector, omaggiandolo con un intenso “wall of sound”, trademark del personaggio così come dei cinque musicisti.
Ascoltando alcuni brani che seguono, dalla struttura chiaramente radiofonica come le anche troppo ammiccanti “Beautiful” o “Afraid Of Sunlight”, si potrebbe erroneamente sospettare di trovarsi di fronte a una reazione orientata all’easy-listening contrapposta al cupo ermetismo del suo illustre predecessore. Eppure, nonostante le tempistiche di realizzazione risicate, Afraid Of Sunlight risulta uno dei lavori più stratificati e sfaccettati della band, e la prova la si ottiene addentrandosi nella seconda metà del platter, inaugurata dall’adrenalinica corsa a pelo d'acqua di “Out Of This World”, magnifico saliscendi di elettrica tensione, testimonianza dell'epica impresa di Donald Campbell, morto nel tentativo di battere il record di velocità su acqua a bordo del suo Bluebird, e conclusa dal ruggito rock di “King”, il quale si impenna in un travolgente unisono finale, quasi a richiamare la grandezza del “Re” qui citato, Elvis Presley, per poi venir stroncato all'improvviso come il cuore del grande cantante, vissuto in un sempre più profondo stato di autoisolamento e depressione, vittima dell'arma a doppio taglio del suo status di rockstar. La prestazione dei cinque è di alto livello, con interventi solisti di sconcertante pathos da parte di Steve Rothery, oltre all’ormai appurata totale integrazione di Hogarth nelle dinamiche della band, con un’interpretazione personale e fortemente sentita. La metamorfosi è ormai giunta a compimento e il paragone con i primi lavori del gruppo è quasi imbarazzante, al punto che non stupirebbe se sulle copertine di Afraid Of Sunlight e Fugazi comparissero due nomi di autori diversi. L’orbita dei grandi padri degli anni 70, Genesis in primis, è ormai irrimediabilmente perduta, e lascia spazio a uno stile fortemente personale, indipendente e consolidato. Tuttavia, o forse proprio per questo motivo, il seguito dei Marillion è in drastico calo, anche per via dell'ennesimo tradimento della Emi, con conseguente ricaduta sulla consistenza del relativo tour (che per la prima volta esclude l'Italia).
L'aria di smantellamento è ormai palpabile e i Marillion, scaduto il contratto, decidono di chiudere con la major e affidarsi all'etichetta indipendente Castle Communications.

MarillionUn nuovo album, ricco di speranze, nasce quindi nel 1997: This Strange Engine appare senz’altro il lavoro più atipico della band fino a quel momento, discostandosi anche dall’ultimo corso delineato con i due album suoi predecessori. L’assenza di Dave Meegan alla produzione, con il suo tipico massiccio lavoro in sede compositiva, oltre che meramente di post-produzione, porta a un generale snellimento delle composizioni. Da qui nascono brani per la prima volta prevalentemente di natura acustica, come “Man Of A Thousand Faces”, che però sfocia presto in un’escalation dal sapore tribale, o “80 Days”, ballata pop alla chitarra acustica dedicata ai fan della band e “Memory Of Water”, praticamente una lenta e scarna preghiera quasi totalmente fondata sulla voce di Steve H. Il risultato è apprezzabile, ma denota in alcuni punti un percepibile calo creativo rispetto ai lavori precedenti, presentando per la prima volta diversi brani dalla consistenza più esile, dalla già citata “80 Days” alle divagazioni pop-rock di “Accidental Man”, quasi presa dal repertorio di uno Sting in calo di mordente, per arrivare allo strambo esperimento, dalle sonorità dal sapore addirittura caraibico (!), di “Hope For The Future”.
Ciò che alza fortemente la media, con composizioni di livello assoluto, è la solita matrice progressive della band, qui meno presente del solito ma energicamente sviluppata prima nelle atmosfere ovattate di “Estonia”, brano che avrebbe potuto trovar spazio in Seasons End, poi, e soprattutto, nella title track che va a porre il sigillo sul platter. Nei lunghi 16 minuti dell’epica suite Steve Hogarth, nell’inedita veste di narratore, svela tutta la sua infanzia vissuta nel Nord dell’Inghilterra, dai dolci ricordi della sua Kendal, al trasferimento ancora bambino nella grigia e industriale Doncaster. È una suite progressive di stampo classico, dalle molteplici situazioni e soluzioni, che denotano una composizione tendenzialmente frammentaria, comunque giustificata dal testo decisamente ad ampio respiro, che permette di tenere alta la tensione per tutto il lungo minutaggio.

Nonostante il matrimonio con l’etichetta indipendente, la vita per la band di Aylesbury comincia a farsi difficile, in un periodo caratterizzato dal costante e rapido calo della loro appetibilità nei confronti del grande pubblico e, di conseguenza, dei loro introiti economici.
Nel 1998 il successivo album chiamato Radiation conferma la delicatezza del momento, confrontandosi con ambizioni sperimentali e abbracciando nuove sonorità più “sporche” e grezze, decisamente inedite per i raffinati albioni. Interessanti le commistioni tra il funky e il blues di tracce come “Under The Sun” e “Born To Run”; si prosegue con lo stordimento elettronico di “The Answering Machine” e con le influenze dei Radiohead su “These Chains” o, decisamente con maggior intensità, dei Beatles in “Three Minute Boy”, ottenendo risultati alternativamente buoni.
Ma, neanche a farlo apposta, i Marillion mostrano il loro meglio prelevando nuovamente dalla loro “miniera d’oro” progressiva, pur contaminata dalle sopracitate venature, con due piccoli capolavori con le mini-suite finali: il delirio onirico/visionario di “Cathedral Walls” e la lunga marcia marziale di “A Few Words For The Dead”.

Ormai confinati in mini-tour dal raggio limitato, i cinque confezionano subito un ulteriore disco, l’anno successivo, dall’esplicativo nome Marillion.com. Il richiamo alla nascita del loro sito ufficiale, in piena fase di espansione del web, è chiaro e suggella un’attenzione sempre più consistente degli artisti verso quel mondo che potrebbe permettere loro di uscire dalla preoccupante situazione che li vede ghettizzati ai margini del music business tradizionale. Il nuovo disco viene nuovamente accolto con perplessità, stavolta in buona parte giustificate da un songwriting complessivamente non del livello auspicabile. Quasi sconcertanti alcune derive nel pop più disimpegnato, con le varie “Deserve” e “Rich”, fino a momenti di vero imbarazzo con il piattume di “Thumble Down The Years”. Sentire la band suonicchiare le frivole melodie che invadono parte dell’album è uno shock per molti fan, fortunatamente rinfrancati dalla solita vena malinconica e riflessiva che permane in “Go” ed “Enlightened”, per poi scatenarsi nel colpo di coda in corrispondenza dell’unica suite del disco, “Interior Lulu” e nel sorprendente e riuscitissimo (nonché purtroppo isolato) esperimento trip-hop di “House”, con i cinque inglesi alle prese con atmosfere lounge jazzy che non troppo velatamente richiamano “Protection” dei Massive Attack.
L’inconsistenza della Castle Communications, la quale punta più a mantenere i cinque musicisti nella nicchia nella quale sono ormai da tempo confinati, piuttosto che ad ambire a un rilancio degli stessi, porta a un nuovo divorzio. I Marillion ora sono soli con sé stessi, alle prese con una svolta che ormai è disperatamente necessaria alla loro sopravvivenza, sia economica che artistica.

La rinascita

Marillion - Steve HogarthNel precedente Marillion.com, Steve Hogarth esprimeva una visione critica sul nascente mondo del web, fortemente premonitrice per l’epoca: “Fissiamo i nostri schermi per tutta la vita - che spreco di occhi - finché la tempesta elettrica fa scoppiare i nostri fusibili; e noi gettiamo uno sguardo, esterrefatti, verso la pioggia”. Chissà se nel momento di scrivere quei versi immaginava quanto proprio internet avrebbe giocato un ruolo fondamentale per il destino della sua band. I cinque membri del gruppo comprendono che è necessaria una svolta e questa può provenire proprio dalla “rete globale”. I Marillion quindi tirano fuori dal cilindro un metodo del tutto rivoluzionario per finanziare il loro successivo lavoro, garantendo a sé stessi la completa autonomia artistica: tramite un annuncio attraverso il loro fan club si appellano allo zoccolo duro dei loro fan, avviando una campagna di pre-finanziamento senza precedenti. Una cosa del tipo: “Abbiamo un sacco di idee per il nuovo album, ma non abbiamo chi creda in noi per finanziarlo. Volete essere voi a permettere che si realizzino?”. In 12.674 rispondono all'appello, acquistando a scatola chiusa e con un anno di anticipo il nuovo album.

AnorakNoPhobia esce nel 2001 e, oltre che nella versione standard, viene confezionato in una lussuosa edizione deluxe di 48 pagine illustrate, con tanto di nomi dei partecipanti impressi nei titoli di coda, limitata ai dodicimila fedelissimi. È l’inizio di un rapporto di fiducia tra band e fan senza precedenti, e tutt’altro che isolato. L’enigmatico titolo ha in verità un significato ben preciso: con anorak (letteramente: “giacca a vento”) si intendono, nello slang britannico, quegli individui con un forte interesse, talvolta ossessivo, in cose o argomenti di nicchia, di sicuro non molto trendy. Neanche a dubitarne, tale interesse è tipicamente incompreso dalla massa. H dice in proposito: “Dichiarare una passione significa esporsi al ridicolo, e personalmente preferirei un mondo pieno di gente appassionata e che crede in qualcosa e tiene a qualcosa, piuttosto che un carico di soggetti piatti che vanno in giro ghignando e puntando il dito verso altra gente. Voglio solo dire: ‘Sappiamo che siete degli anorak, e non c'è nulla di male! Lo siamo anche noi!’”.
I Marillion cercano così di far breccia nell'orgoglio culturale dei loro fan, ma in realtà è un ulteriore tentativo di sfuggire all’enorme peso del loro ingombrante passato degli anni 80. Nel nuovo secolo pochi conoscono i Marillion, in tanti li ricordano come una mera band-clone dei Genesis o pensano addirittura che la loro storia si sia conclusa con l’addio di Fish. “Vi sbagliate tutti al riguardo dei Marillion. Vi prego, inserite il nostro disco nel lettore ed ascoltatelo!”, espone un pelo di presunzione Steve Hogarth, promuovendo l’album.
In effetti, AnorakNoPhobia rappresenta una forte rottura con le sonorità passate: forti influenze dub si fanno spazio in questo nuovo episodio (complice anche il richiamo a “Mezzanine” dei Massive Attack, uscito pochi anni prima), con massiccio uso dell’elettronica di Mark Kelly, oltre a un inaspettato utilizzo di drum machine al fianco della batteria di Ian Mosley, spalleggiato da un quantomai ispirato basso di Pete Trewavas, come nell’acida “Quartz”. Il risultato, sebbene a dir poco imprevedibile, è di pregevole qualità, come in occasione delle atmosfere cibernetiche di “This Is The 21 Century”: mastodontica ipnosi esistenziale sul senso di alienazione dell’uomo moderno, vera e propria nuova ossessione dello Steve Hogarth scrittore degli ultimi tempi. Una visione crudelmente pessimista e disillusa sull’involuzione dell’uomo in “carne da frantumare e bruciare”, sotto lo sguardo bieco dell’ “uomo dal palazzo di vetro, che ha appena comprato il mondo”. Un delirio cyberpunk di 11 minuti, i cui 3 finali sono dominati da un memorabile e lancinante assolo di Steve Rothery. Tornando per un momento su terreni più sicuri e familiari, con la malinconia “made in Marillion” di “When I Meet God”, testimone di una prestazione maiuscola della voce di Hogarth , l’album si chiude con le deflagrazioni di “If My Heart Were A Ball... It Would Roll Uphill”, schizofrenica cavalcata rock dalle sferzate elettroniche con il solito finale in crescendo, come da consolidato canovaccio della band.
Nonostante tutti i brani sopracitati sfoggino un minutaggio non indifferente, non mancano episodi più rilassati e qualche riempitivo evitabile, come la semplicistica digressione easy di “Map Of The World”. Tuttavia, la qualità generale dell’album è un deciso passo avanti rispetto alle ultime altalenanti produzioni dell’epoca post-Emi, per una rinnovata vena creativa e, probabilmente, per il ritorno del fido produttore Dave Meegan alla cabina di regia.

La risposta del grande pubblico a questo lavoro è quindi incoraggiante; alcuni ricominciano addirittura ad accorgersi di questa band finita del dimenticatoio: la rivista Sound on Sound li definisce emblematicamente “the best kept secret”, “il segreto dell’industria musicale meglio tenuto nascosto”. In seguito a un lungo tour, spalleggiato da una band di supporto di tutto rispetto (nientemeno che i Porcupine Tree di “Lightbulb Sun”), i Marillion ringraziano nuovamente i fan organizzando nel 2002 il primo “Marillion Weekend”: una convention poi evoluta in biennale, dove fan da tutto il mondo si riuniscono in una tre giorni con i loro artisti preferiti. L’evento viene ricordato per la storica riproduzione integrale del concept di “Brave”, omaggio che verrà ripetuto per altri album della band inglese nelle edizioni successive del festival.

MarillionSull’onda del successo avuto con la loro iniziativa, i Marillion tentano nuovamente la carta del pre-ordine per il successivo album che, come affermano, sarà piuttosto vicino a un concept, pur con una struttura diversa. La risposta all’iniziativa è nuovamente entusiasmante e, dopo una lunga lavorazione, nel 2004 esce Marbles, che in breve tempo viene riconosciuto dalla critica mondiale come uno dei vertici dell’era Hogarth.
Mastodontico doppio cd, ovviamente distribuito anche in versione deluxe per i fedelissimi finanziatori (e con l’incomprensibile scelta di realizzare anche un’edizione retail da un solo cd, escludendo alcuni dei migliori brani del lotto), smuove gli entusiasmi dei fan della band che in molti lo promuovono come unico album in grado di paragonarsi al capolavoro Brave. In effetti, qualche vago sentore del concept datato 1994 si percepisce, ma il parallelismo, più che nello stile e nelle composizioni, sta nell’aver saputo proporre nuovamente un quasi miracoloso equilibrio fra lunghe e ambiziose composizioni, melodie dirette ed efficaci e liriche dalla formidabile potenza evocatrice. È così che nasce “Invisible Man”, vero e proprio picco della carriera degli ex-figli dei dinosauri del progressive, i quali confermano nuovamente la loro evoluzione rispetto alle loro primordiali radici: un uomo inconsapevolmente ritrovatosi invisibile, immateriale, vive un’esperienza da incubo completamente scollegato dalla realtà, senza la possibilità di intervenire nel mondo esterno da lui percepito. Strumming di chitarre e tastiere ipnotiche rendono il senso di straniamento che prova, con le esplosioni dinamiche del brano a sottolinearne la violenta sensazione di impotenza mentre getta il suo corpo nel mezzo della strada, nel vano tentativo di attirare l’attenzione dell’ambiente circostante.
La voce di Steve Hogarth vomita prima lo strazio dell’uomo nel vedere la donna che ama, e che segue indisturbato, subire le violenze del suo uomo senza poter far nulla per impedirlo, per poi crollare in una mesta ninna-nanna blues fatta di triste rassegnazione (“Cercherò di aiutarti, quando inciamperai. Ma inciamperai attraversandomi”). Formidabilmente concretizzata dalle doti teatrali del loro frontman in sede live, “Invisibible Man” è forse l’esempio massimo nella carriera dei Marillion di perfetta fusione fra testo e musica, metafora su pentagramma dell’impotenza dell’uomo nel poter far fronte all’orrore svelato dal mondo globale. Steve Hogarth dichiarerà al riguardo: “Viviamo in un'epoca in cui veniamo a conoscenza di ogni tipo di orrore che avviene dall'altra parte del mondo, per via dei mezzi di comunicazione di massa, televisione e giornali. [...] E ciò è del tutto innaturale. In quanto esseri umani, non abbiamo gli strumenti per sentirci responsabili di ciò che accade in Ruanda, o a Sydney, in Australia o in Città del Messico. Penso che tutto ciò introduca un pesante onere in ogni essere, perché per quanto possiamo sforzarci, non riusciremo mai a non sentirci almeno un po' responsabili di ciò”.
Ma il tema di “Invisible Man” è solamente un’ouverture del vero e proprio concept di Marbles: la perdita della fanciullezza e la conseguente graduale scomparsa della propria innocenza, vista nella prospettiva di un bambino che nel tempo perde tutte le sue adorate biglie (in Inglese, “to lose the marbles” è un’espressione che indica la “perdita della ragione”), mirabilmente narrata nei quattro onirici intermezzi “Marbles I/II/III/IV”. Questa perdita porta alla rinuncia al proprio genio creativo (“Genie”), al rimorso per non aver tentato di raggiungere i proprio sogni, “l’unica cosa imperdonabile”. Così si raggiungono punti di somma commozione mentre H pronuncia: “Ho perduto le stelle e il cielo. È stato così che ho potuto conservare la terra. Così mi sono ritrovato oltre lo scarico del razzo, tra fuochi d’artificio esplosi, in Novembre” (“The Only Unforgivable Thing”). Un’ulteriore trasgressione dal concept insiste con il tema dell’alienazione nella maggior suite dell’album, “Ocean Cloud”, 18 minuti in cui è percepibile l’odore dell’Oceano, in una perfetta alchimia tra complesse composizioni progressive e le immagini evocative dell’impresa di Don Allum nella sua traversata dell’Oceano Atlantico. Solo nel finale si svela il segreto della tematica del disco: il riferimento alla favola di Peter Pan, con il raggiungimento dell’ “Isola che non c’è”, grazie a quello che diventerà il nuovo classico della band, “Neverland”, lunga ed epica fuga lirica e strumentale dove Mark Kelly esegue un memorabile lavoro alle tastiere.
I due singoli pop estratti dall’album, “Don’t Hurt Yourself” e “You’re Gone”, entrano nella Uk Top20, e il secondo raggiunge addirittura il 7° posto. Tutto senza avere alle spalle una major discografica. Marbles smuove l’ambiente del progressive e riporta la band al suo pubblico della prim’ora, richiamando perfino alcuni vecchi nostalgici del giullare.

Approfittando del successo ritrovato, la band si rimette presto al lavoro, stavolta orfana del suo fido Dave Meegan, ma passando il timone della produzione a Mike Hunter, ingegnere del suono che da anni segue la band. Stavolta non viene chiesto nessun prefinanziamento e nel 2007 vede la luce Somewhere Else. Tuttavia l’album perde senza pietà il confronto con il suo scomodo predecessore, rivelandosi un mezzo passo falso. Il cambio in cabina di produzione determina composizioni sì più scarne e asciutte, da un lato guadagnando in immediatezza e impatto (con buoni margini di miglioramento in sede live), ma dall’altro perdendo quella sopraffina stratificazione che fortemente caratterizzava i due convincenti lavori passati.
Non mancano i brani pregevoli come la title track, incentrata sul recente divorzio che ha profondamente segnato il vocalist e piena di quelle caratteristiche tipiche del marchio Marillion, “wall of sound” finale compreso; oppure “A Voice From The Past”, dall’interessante struttura che snoda i suoi elementi intorno all’incedere del pianoforte di Mark Kelly; discorso simile per “No Such Thing”, nella quale è Steve Rothery a dettare i tempi con gli ipnotici arpeggi della sua chitarra.
Tuttavia, il disco tradisce diversi cali di tensione, soprattutto in corrispondenza dei brani più essenziali e immediati, quali lo scialbo singolo “See It Like A Baby” o brani appiattiti da spunti blandi e poco sviluppati come “Thank You Whoever You Are” e “Most Toys”. L’impressione è che i Marillion siano usciti svuotati dall’“impresa-Marbles”, sfiniti e forse provati dalle aspettative tornate alte dopo il ritorno al successo in seguito a lunghi anni dietro le quinte. Altro aspetto da non sottovalutare sta nel probabile smarrimento provocato dall’addio di Meegan, ormai vero e proprio sesto componente della band. Era necessario quindi un lungo rodaggio prima di recuperare uno stato di forma paragonabile a quello ritrovato nel lavoro precedente.

Nel frattempo, avviene un fatto storico: in occasione dell'evento annuale “Hobble On The Cobble” di Aylesbury, città sede operativa della band, Fish copre il ruolo di headliner e realizza il suo sogno di cantare “Market Square Heroes” nella piazza della città, nientemeno che con Steve Rothery, Mark Kelly, Pete Trewavas e Ian Mosley. Dopo quasi 20 anni la formazione degli anni 80 torna a suonare insieme, seppur per un solo brano. Fish dichiarerà: “C'erano uomini adulti in lacrime, nelle prime file del pubblico”.

MarillionConcluso il “Somewhere Else Tour”, con buona risposta di pubblico e ottime performance da parte del quintetto, la band riceve da parte della sua fanbase molteplici richieste per il ritorno alla formula del pre-order; è un evento straordinario che testimonia come lo zoccolo duro del seguito della band voglia sentirsi parte del “progetto Marillion”, il quale viene accontentato per il quindicesimo lavoro della loro carriera, Happiness Is The Road, che esce a un solo anno di distanza dal predecessore. In effetti questa nuova opera parte da una base di canzoni già nate ai tempi di Somewhere Else, per poi svilupparsi al punto da produrre un nuovo doppio cd, dopo l’esperienza di Marbles. I cinque inglesi preferiscono però non considerarlo un album doppio quanto una “doppia uscita”, composta da due distinti lavori nati contemporaneamente: “Essence” e “The Hard Shoulder”. Effettivamente i due dischi non hanno molto in comune l’uno con l’altro. “Essence” consiste in un nuovo concept, dove un Hogarth in versione spirituale descrive il suo viaggio intrapreso con la lettura del libro “Il potere di adesso” di Edkhar Tolle, prescrittogli durante una visita da un medico, intento a risolvere uno stato depressivo nel quale si trovava l’artista di Kendal nei mesi precedenti, arrivando alla consapevolezza che “la felicità non è alla fine della strada, la felicità è la strada”.
Il disco propone diverse gemme di indubbio valore: l’impatto del viaggio di “This Train is My Life”, emozionante seppur dalla formula ormai decisamente canonica; la tenera e sospesa carezza di “Wrapped Up In Time”; lo stato di meraviglia descritto da “Trap The Spark” per concludersi nell’inno finale, con inaspettate digressioni reggae, di “Happiness Is The Road”. Tuttavia il concept nella sua interezza tende a peccare in compattezza e solidità, tradendo diverse forzature che tendono a disorientare l’ascoltatore, oltre ad alcuni trascurabili intermezzi che finiscono col diluire l’altrimenti ottimo potenziale di un disco fortemente incentrato sull’aspetto emozionale, più che tecnico, delle composizioni, per gran parte dominate dal duo Hogarth-Kelly.
Le cose migliorano sensibilmente con “The Hard Shoulder”, dove ritornano finalmente a far capolino quelle composizioni dense con le quali la band riesce a esprimersi al meglio. Ecco quindi che vede la luce l’ambiziosa suite “Asylum Satellite #1”, dal sapore space-rock, che richiama certi ricordi cibernetici già espressi in AnorakNoPhobia, seguita a ruota da “The Man From The Planet Marzipan”, bizzarra marcia progressiva, sincopata e claudicante come il passo dell’ “uomo marzapane”, alter-ego hogarthiano nel quale viene incarnato un pessimista senso di straniamento nei confronti della società moderna, cosiddetta “normale”. Ancora una volta, nella storia del collettivo di Aylesbury, è la vena progressiva a portare i suoi migliori frutti, ma non mancano spunti ispirati anche in altri ambiti, con la tenera dolcezza della ballata “Older Than Me”, che sfuma nell’amarezza scandita dai secondi che passano in “Throw Me Out”. La tremenda piattezza di “Half The World” è quindi un peccato perdonabile, nel buon contesto generale.

Recuperato in parte lo scivolone di Somewhere Else, e concluso il lungo tour a supporto del nuovo rilascio, i Marillion entrano in un lungo periodo di pausa, alla ricerca della scintilla decisiva. Nel frattempo, il 2 ottobre dello stesso anno esce Less Is More: disco di brani dell'era Hogarth riarrangiati in chiave acustica. Il lavoro effettuato è in alcuni casi ammirevole, con alcuni episodi di vera e propria re-interpretazione delle loro opere (esempio eclatante sta nella nuova vita donata alla già convincente “Hard As Love”), ma nel complesso è un buono ma non imprescindibile esercizio di stile. Da segnalare anche un tour in Germania di supporto ai Deep Purple, oltre allo storico ritorno a Lorely.

Passano così quattro lunghi anni: mai così lunga è stata l’attesa per un nuovo album degli inglesi. L’impressione, anche ascoltando le confessioni di Steve Hogarth al riguardo di un suo particolare periodo di calo creativo a livello lirico, è che il quintetto stia prendendo il tempo necessario per ritrovare lo smalto di un tempo. L’ingresso della band nei “Real World Studio”, storica sede di proprietà nientemeno che di Peter Gabriel, alza le aspettative, arrivate a livelli stellari al circolare, nei primi mesi del 2012, delle prime indiscrezioni sul nuovo lavoro: un inaspettato ritorno alle lunghe composizioni, di cui addirittura tre ben oltre i 10 minuti. Il pensiero a capolavori passati come “Invisible Man”, “Ocean Cloud” e “This Strange Engine” sono inevitabili, a ulteriore conferma che il lato più amato dai fan della band inglese resta sempre quello di natura progressive. Dopo l’ormai consueto pre-order, nel settembre del 2012 Sounds That Can’t Be Made fa il suo arrivo e, come prevedibile, sono proprio le suite a colpire maggiormente. Il disco parte coraggiosamente proponendo subito la sua maratona, “Gaza”, ben 17 minuti ambientati nella spinosa situazione mediorientale, tipologia di tematica insolita per lo scrittore di Kendal. Lo stile di composizione ricorda maggiormente brani come “This Strange Engine” per via dei forti e netti cambi di umore, restando fortunatamente entro il limite dell’indefinito confine che separa una suite compatta e coerente da un’accozzaglia di idee incollate, tipico cliché negativo che affligge molti artisti del mondo progressivo. Ciò che più sorprende è l’inaspettata cattiveria del sound dei flemmatici inglesi, nella prima metà del brano, con distorsioni che richiamano vagamente alcuni recenti lavori dei Tool, pur tornando nel finale su lidi più consueti e familiari.
La potenza lirica dei testi torna su livelli di primo ordine, in particolare grazie all’interpretazione assolutamente eccellente di H, il quale tocca il suo apice espressivo nella romantica suite “Montreal”: lunga cronaca del primo “Marillion Weekend” ambientato nel capoluogo del Quebec. Le immagini ricreate dalle melodie, soprattutto nella traccia appena citata, sono di una forza evocativa tanto vivida da riportare alla memoria le imprese di Marbles, ricordando il lavoro datato 2004 nell’efficacia con la quale le stesse si fondono con i testi, che assumono un ruolo non trascurabile per apprezzare l’opera fino in fondo. Non è un caso, quindi, che il metodo di composizione, in seguito al graduale rodaggio con la nuova produzione a capo di Hunter, si sia gradualmente spostato verso un approccio più figurativo che strettamente tecnico, privilegiando l’aspetto emozionale a quello razionale. Accade quindi di poter quasi vedere Steve Hogarth, nella sua camera d’albergo di Montreal, osservare ipnotizzato la tv mentre trasmette il “Live in London” di Leonard Cohen - un inglese in Canada mentre ammira un canadese in Inghilterra (“ain’t a perfect simmetry?”) - immaginando sé stesso al suo atteso show, la sera successiva: “Scaldava il cuore vederlo fluttuare per la hall, emanando, riflettendo, irradiando; proprio come vorrei fare io domani sulle distese, delicate, mani di Montreal”.
Non mancano comunque composizioni più trascurabili, come l’inconsistente “Invisible Ink”, ma vengono abbondantemente compensate dalle riuscite e rocciose costruzioni della title track o del gran finale “The Sky Above The Rain”, nella quale le doti canore del cantante albionico sembrano voler dimostrare un’infinita primavera, a dispetto di quanto vorrebbe dimostrare il freddo calcolo dell’anagrafe.

marillionForti del successo commerciale e di critica di Sounds That Can't Be Made, la band torna nel 2016, dopo una lunghissima lavorazione di tre anni. Nel mezzo, due Marillion Weekend, dal successo di pubblico e dalle ambizioni tecniche sempre più elevate; il primo album solista di Steve Rothery, "The Ghosts of Pripyat"; le prime collaborazioni in Italia, con la prog-band romana RanestRane e il premio come "Band Of The Year 2013" ai Prog Awards.
La nuova creatura, F.E.A.R., tocca vette qualitative sorprendenti nonostante confermi la continua crescita della band dal capitombolo di rottura Somewhere Else, segnado un nuovo landmark nella lunga carriera della band.
L’acronimo che titola il disco nasconde il motto “Fuck Everyone And Run”, dal tono decisamente insolito per questi posati englishman. Questo finché non ci si imbatte nelle parole di Steve Hogarth: "Questo titolo è nato non con la rabbia o l'intenzione di scioccare. E' una frase cantata - nel brano ‘New Kings’ - con tenerezza, nella tristezza e nella rassegnazione ispirata da un Inghilterra, e da un mondo, che funziona sempre più nutrendosi della filosofia ‘ognuno per sé’. C'è un senso di presagio che permea gran parte di questo disco. Ho la sensazione che ci stiamo avvicinando a una sorta di profondo cambiamento nel mondo - una tempesta politica, finanziaria, umanitaria e ambientale irreversibili."
I brani dell'album, praticamente una raccolta di suite, sembrano la naturale evoluzione dei paesaggi sperimentati nel recente passato della band. L’approccio cinematografico e narrativo è in linea con “Gaza” e “Montreal”, del disco precedente (ma anche con le remote “This Strange Engine”, “Interior Lulu” e “Goodbye To All That”). Tuttavia, più che una ripetizione, si ha l'impressione dell'assestamento e consolidamento di un un trademark frutto di quelli che negli ultimi 10 anni sono stati talvolta esperimenti non del tutto sviluppati, proponendo finalmente brani del tutto coesi, compiuti e che si snodano con naturalezza nelle loro parti. La motivazione di ciò sta probabilmente in Mike Hunter, il quale sembra abbia raggiunto la crescita e l’intesa necessaria a portare ad esprimere il potenziale dei cinque collaboratori, sebbene con un apporto profondamento diverso da quello maniacale (ma prosciugante) di un Meegan.
In particolare colpisce la rinnovata verve di Mark Kelly, il quale occupa il ruolo di protagonista insieme ai soliti noti Hogarth e Rothery, pur concentrandosi prevalentemente in un massiccio lavoro oscuro al servizio dei suoi comprimari. Brani come "The Leavers" offrono scenari variopinti che si alternano con grande naturalezza; "El Dorado" è una possente composizione symphonic-prog con evidenti richiami pinkfloydiani; "White Paper" è la chicca del disco, con le sue malinconiche atmosfere degne del King of pain Sting.
F.E.A.R. è un'importante conferma di una carriera prolifica ma generosa, un lavoro profondamente maturo ed emozionante pronto ad essere accolto da coloro che sapranno tornare ad ammirare un album nel suo insieme, liberi da dettagli interpretativi o analisi asettiche sui richiami stilistici.

rah512Anche critica e pubblico apprezzano il nuovo vertice creativo raggiunto dalla band, la cui popolarità, già in forte ritorno dopo la pubblicazione del precedente "Sounds That Can't Be Made", torna ulteriormente a crescere fino a portarli addirittura al palco della Royal Albert Hall il 13 ottobre 2017, documentato dallo splendido live album All One Tonight - Live at the Royal Albert Hall. Un traguardo improbabile da immaginare già solo pochi anni prima, addirittura inconcepibile negli anni bui della band di fine anni 90, quando la loro fuoriuscita dall'orbita EMI sembrava averli definitivamente relegati nel dimenticatoio.


Impegnata nel tour di FEAR e nei preparativi della loro biennale Marillion Weekend, con il tempo esteso ormai a ben cinque date comprensive delle Americhe, la band fa tesoro dell'esperienza alla RAH con il collettivo di archi e fiati e produce Marillion With Friends from the Orchestra, proponendo una selezione di classici riarrangiati con orchestra.

Dopo essere sopravvissuti alla devastante pandemia Covid-19 che ha colpito il globo nel 2020 e ferito gravemente il settore della musica, i cinque inglesi tornano più vivi che mai con un ulteriore picco nella loro carriera.
Il 4 marzo 2022 esce An Hour Before It's Dark e la band ribadisce a dispetto dei sei anni trascorsi dall'ultimo lavoro di inediti l'eccezionale stato di forma e ispirazione che sta vivendo, con un lavoro nel quale è evidente come la sinergia con il produttore Hunter sia più che mai rodata. Brani come "Sierra Nevada" e "Care", di diritto tra i nuovi classici della band, rappresentano bene lo stile "cinematografico" del post-progressive di cui sono ancora tra i protagonisti, offrendo all'ascoltatore immagini sonore vivide che vanno a braccetto con i testi di Steve Hogarth, divisi tra la crisi climatica del pianeta e l'inevitabile riferimento al virus che ha caratterizzato le vite di tutti nei due anni appena trascorsi.
Un disco Marillion al 100% con tutti gli ingredienti tipici della loro formula: gli assoli taglienti di Rothery, il raffinato minimalismo di Mark Kelly, il lavoro ritmico di Trewavas scandito dalla flemma del quasi settantenne Ian Mosley fino alla voce di H che fa sfoggio dell'intero repertorio, quasi noncurante degli anni che passano.
La novità di questo nuovo lavoro è l'introduzione - saggiamente ponderata e mai invadente - del coro Choir Noir e dell'ormai familiare quartetto d'archi In Praise Of Folly che permette di aumentare il potere espressivo dei cinque, culminando nel crescendo commovente del tributo a Leonard Cohen: "The Crow And The Nightingale".
Dopo 40 anni da "Market Square Heroes" è quasi incredibile questi inglesi riescano ancora a proporre lavori tanto intensi e convincenti.

I Marillion proseguono con la loro determinata, quasi cocciuta marcia, libera da pressioni imposte dal music business ma sicuri nella loro nuvola retta da un fedelissimo e determinato zoccolo duro di fan. Un caso più unico che raro di profonda fidelizzazione in un mondo e in un’epoca aspramente provati dalla dura legge del mercato.

Steve Hogarth - Marillion

Discografia

MARILLION
CD & LP
Script For A Jester's Tear (Emi, 1983)

Fugazi (Emi, 1984)

Misplaced Childhood (Emi, 1985)

Clutching At Straws (Emi, 1987)

Season's End (Emi, 1988)

Holidays In Eden (Emi, 1991)

Brave (Emi, 1994)

Afraid Of Sunlight (Emi, 1995)

This Strange Engine (Castle, 1997)

Radiation (Sanctuary, 1998)

Marillion.Com (Sanctuary, 1999)

Anoraknophobia (Intact, 2001)

Marbles (Intact, 2004)

Somewhere Else (Intact, 2007)

Happiness Is The Road (Intact, 2008)

Less Is More (Intact, 2008)
Sounds That Can't Be Made (EarMusic, 2012)

F.E.A.R. (Fuck Everyone And Run) (EarMusic, 2016)
With Friends from the Orchestra (EarMusic, 2019)
An Hour Before It's Dark (EarMusic, 2022)
EP
Marquet Square Heroes (Emi, 1982)
LIVE
The Thieving Magpie (Emi, 1988)
Made Again (Emi, 1996)
Anorak In The Uk(Emi, 2002)
All One Tonight - Live at the Royal Albert Hall (EarMusic, 2018)
VIDEO
Recital Of The Script (Emi, 1983)
Live From Loreley (Emi, 1987)
From Stoke Row To Ipanema(Emi, 1990)
Brave, The Movie(Emi, 1995)
The Emi Singles Collection(Emi, 2002)
Live From Cadogan Hall(Edel, 2011)
Brave Live 2013 (Racket Records, 2013)
ANTOLOGIE
Real To Reel (Emi, 1984)
Brief Encounter (Capitol, 1986)
B-Sides Themselves (Emi, 1988)
The Best Of Both Worlds (Emi, 1997)
STEVE HOGARTH
Live Spirit: Live Body (live, 2002)
Ice Cream Genius (1997)
Natural Selection (live, 2010)
Not The Weapon But The Hand (con Richard Barbieri, 2012)
Arc Light (Ep, con Richard Barbieri, 2013)
Live at the 100th Club (live, 2014)
St John the Evangelist, Oxford 18 October 2014 (live, 2014)
Colours Not Found in Nature (con gli Isildurs Bane, 2017)
Friends, Romans (live, con i RanestRane, 2017)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Script For A Jester's Tear
(live nel Recital Of The Script, da Script For A Jester's Tear, 1983)

Jigsaw
(live a Zurigo, Svizzera, da Fugazi, 1984)

Kayleigh
(videoclip, da Misplaced Childhood, 1985)

 

Lavender
(videoclip, da Misplaced Childhood, 1985)

Sugar Mice
(videoclip, da Clutching At Straws, 1987)

The Space
(gig live, da Season's End, 1988)

No One Can
(videoclip, da Holidays In Eden, 1990)

Brave
(l
ive al Marillion Weekend, Minehead, Inghilterra, 13 marzo 2005, da Brave, 1994)

Afraid Of Sunlight
(live al MCM Cafe, 1999, da Afraid Of Sunlight, 1995)

Estonia
(live a Londra, Inghilterra, da This Strange Engine, 1997)

Interior Lulu
(live, da Marillion.com, 1999)

When I Meet God
(live, da AnorakNoPhobia, 2001)

Neverland
(live, da Marbles, 2004)

You're Gone
(videoclip, da Marbles, 2004)

Somewhere Else
(live, da Somewhere Else, 2007)

Happiness Is The Road
(trailer dell'album Happiness Is The Road, 2008)

Sounds That Can't Be Made
(trailer dell'album Sounds That Can't Be Made, 2012)

Steve Hogarth - Marillion su OndaRock

Steve Hogarth - Marillion sul web

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