Beat Happening

Beat Happening

L'anno zero del lo-fi

I Beat Happening di Calvin Johnson hanno cavalcato con irriverenza gli anni Ottanta, creando una nuova estetica "indie" e svestendo la musica di ogni zavorra. Con la loro spontaneità e insipienza, i tre di Olympia hanno inconsciamente patrocinato e ufficializzato la nascita di un genere: il lo-fi

di Pier Eugenio Torri

I Beat Happening, la creatura di Calvin Johnson, hanno cavalcato spensierati la seconda metà degli anni Ottanta, disturbando la scena musicale indipendente con la loro irriverenza, creando una nuova estetica rock, celebrando il nulla, svestendo la musica di tutta quella zavorra che gli era stata appiccicata addosso nel corso del tempo. Con la loro spontaneità e insipienza Calvin, Heather e Bret hanno inconsciamente patrocinato e ufficializzato la nascita di un genere: il lo-fi. Tra i padri e i padrini non vanno certo dimenticati gli Half Japanese, che con il loro "Calling All Girls Ep" furono i pionieri nel lontano 1977, e il cantastorie Jandek, eremita del rock e portabandiera della non estetica musicale. Ma se gli Half Japanese non ebbero una distribuzione tale da poter istituzionalizzare un genere - si ricordi che il loro EP veniva venduto per posta e anche quando giunsero all'esordio col triplo " 1/2 Gentlemen/Not Beast " nel 1980 non fu certo una major a produrlo - Jandek si rifiutò di rappresentare qualcuno o qualcosa se non se stesso, ligio alla propria ortodossia esistenziale, che lo ha portato a compiere un personalissimo cammino musicale lontano da luci, ma anche dal mondo. Schivo e disinteressato non poteva essere certo Jandek a celebrare l'avvento della nuova musica lo-fi.
A prendersi responsabilità, gioie e onori ci pensarono per l'appunto i Beat Happening, che grazie anche alla personalità di Calvin Johnson e a una riconosciuta influenza indieriuscirono a portare nelle camerette dei giovani americani la scoperta del decennio.


Incapaci di suonare, i tre si scambiavano gli strumenti come fossero caramelle e il risultato non cambiava. Non importa quanto si è intonati o quante corde ha la chitarra, quello che conta è il casino che si riesce a fare, il divertimento che ne esce fuori. La musica si riappropria quindi di quella spensieratezza primigenia, tornando a divertire per divertirsi, scanzonando tutti i tromboni della tecnica che annoiano, annoiano e annoiano. Non c'è più posto per loro ora; qui e ora c'è posto solo per tre amici che passano il loro tempo a scrivere la storia. Per scrivere il proprio paragrafo nella Bibbia della musica occorre però il genio, capace di veicolare la propria idea innovativa attraverso le onde sonore degli stereo. E il genio c'è, ha un nome e un cognome: Calvin Johnson, un musicwriter di alto livello - siamo dalle parti dei McCartney e dei Costello, senza eresia - con la capacità di chiudere una canzone, un'idea, una melodia in due minuti scarsi, perché l'oltre non serve, il di più è ripetizione. Eccoli dunque i Beat Happening, essenziali, veloci, punk nell'accezione rock del termine; mai oltre i due minuti, fanno musica col minimo sforzo. Poco importa, come detto, la tecnica; la canzone ha una sua forza primitiva nella melodia e nella voce, voce che Calvin e Heather usano talmente male da risultare artistici, perché anche il brutto è arte. E arte, se non brand dei Beat Happening, è la cacofonia gutturale di Johnson e l'atonalità funerea della Lewis, principi dell'estetica di una band che ha fatto del "non saper fare/non voler (di)mostrare" qualcosa di più di una ragione di vita.

Olympia, stato di Washington, sperso nel nord-ovest degli Stati Uniti; oltre c'è solo l'oceano, il vicino scomodo Canada e quell'Alaska comprata dai russi mezzo secolo fa per via del petrolio. Qui, in mezzo alle foreste e al freddo, Calvin e Heather trascorrono le loro esistenze, cercando e trovando modo di non annoiarsi. E Calvin ad annoiarsi proprio non ci pensa, pieno di idee com'è, desideroso di fare qualcosa per sé e per chi gli sta vicino. Forse si è solo giovani, adolescenti dalla favella facile, ragazzi che vogliono cambiare il mondo, con cuore e mente sovraccaricati da desideri e speranze illusorie. Alcuni però ci riescono e forse Calvin un po' ce l'ha fatta, anche perché il suo progetto inizia da lontano, quando precocissimo su tutto, all'età di 17 anni diventa una delle firme della fanzine Subterrean Pop - poi Sub Pop, fondata nel 1979 da Bruce Pavitt - che dieci anni più tardi diventerà etichetta musicale e punto di riferimento per l'alternative-rock.
Le cose iniziano a girare per il verso giusto: Calvin Johnson è iscritto alla Evergreen State College - evidentemente luogo dall'aria sana se ci ha passato tre anni anche Matt Groening, padre dei Simpsons - lavora per la radio universitaria ed è soddisfatto di quello che gli sta girando intorno, al punto che decide di fondare una propria etichetta musicale, la K Records, per far conoscere e diffondere il verbo di Olympia e delle band amiche in tutto lo stato. Il ruolo lo espone direttamente nella scena sotterranea locale, portandolo a intrecciare i primi rapporti con le band, sviluppando i primi abbozzi di un proprio futuro musicale dietro la scrivania.
Calvin Johnson ama la musica, ama soprattutto la musica indie, e quella che fa passare per la radio universitaria è la musica che vorrebbe suonare, quella che dovrebbe diventare la nuova musica dei giovani. La suona per la radio e la distribuisce poi con la sua K Records. Non ancora pago, decide di mettere in piedi un progetto musicale del tutto improvvisato con un paio di amiche: Heather e Laura. La storia, la nostra storia inizia a delinearsi proprio qui, e siamo nel 1983.

Gennaio: i primi concerti scolastici, le prime improvvisate registrazioni, un mondo là fuori che non li vuole ascoltare. Laura poi se ne va via da Olympia e se ne va via anche dalla band; Calvin si ricorda però di un ragazzo, amico di amici, incontrato per caso in Arizona durante lo spring-break, che aveva manifestato il proprio forte apprezzamento per la musica sgangherata del suo gruppo. Era Bret, e da quel momento si formarono i Beat Happening.
Le cose andavano avanti un po' altalenanti per la band, si divertivano certo, ma con loro si divertivano ben pochi. Poche le copie delle prime cassette vendute, pochi i concerti. Per dare uno schiaffo al destino e sperare, chissà, in qualche colpo di fortuna nella ruota della vita, i Beat Happening se ne vanno in Giappone. Calvin, infatti, si ricorda di un tale che aveva studiato per qualche tempo con lui in università e se ne era poi tornato in Giappone. Un aggancio e via, il primo aereo per il Giappone. Perché il Giappone ci si chiederà, e la risposta è di Mr. Johnson in persona: "Secondo il chiacchiericcio, il Giappone era l'ultimo posto al mondo in cui gli americani piacciono. Fu quasi per scherzo che i Beat Happening si ritrovarono in Giappone". Alloggiarono per qualche tempo presso la famiglia dell'amico giapponese e nel contempo riuscirono a esibirsi in molti locali del posto. Rimangono nella terra dei samurai per qualche mese, durante i quali Calvin si imbatte in una fanzine musicale australiana, spedisce loro un demo dei Beat Happening, e diventa amico del direttore. Il nome Beat Happening inizia a girare anche nell'emisfero australe. Manca ancora il passo decisivo, l'album d'esordio, la presentazione al mondo intero.

Beat Happening (K-Sub Pop, 1985) arriva sugli scaffali nel 1985, a due anni dalla nascita del gruppo. In pochi sembravano crederci, ma Calvin Johnson poteva contare su una perfetta conoscenza dell'ambiente, su agganci giusti (la produzione dell'album è affidata a Greg Sage dei Wipers) e su una notevole dose di intuizione musicale. Intuizione davvero unica, che lo ha portato a definire, già con questo primo lavoro, le linee guida del lo-fi.
Album imprescindibile, Beat Happening è un bozzetto in bianco e nero, non concluso e frammentario, ma al tempo stesso perfetto e organico. "Our Secret" è il biglietto d'ingresso: davanti a noi una camera disordinata, chitarra sul letto, batteria all'angolo e il basso inesistente appoggiato alla parete. Un paio di bottiglie aperte sul tavolo, una decina vuote per terra. L'aria che si respira è questa. Il dormitorio di una università, lo scantinato che diventa studio di registrazione. In un paio di righe si è abbozzato il mondo Beat Happening. Si rimane colpiti da qualcosa di familiare, di non eccessivo, di non superfluo. Anzi, quello che colpisce è il desiderio di togliere, eliminare, semplificare.
Allora via con la monotonia di una batteria in sottofondo, un giro di chitarra ripetuto all'infinito, e la anti-voce di Calvin Johnson: ricordiamoci di questi elementi, perché sono i cardini di buona parte del disco. Al legittimo timore di 50 minuti tutti uguali si sfugge grazie a uno dei massimi talenti musicali indie: Calvin Johnson illude il suo pubblico, giocando a chi suona/canta peggio, regalando canzoni che non si dimenticano come "Fourteen" e "Bad Seeds" per esempio, presenti in doppia versione su disco. La prima lancia la voce di Johnson in una filastrocca da un minuto e mezzo secco con ritornello tanto semplice, quanto splendente e unico. "Fourteen" è una di quelle canzoni che potrebbe suonare chiunque e nessuno; un paio di battiti di mano sulla cassa della chitarra (qui è il tamburello della Lewis per la verità) e via, all'inseguimento dei tre accordi tre e del fingerpicking finale (alla buona). "Bad Seeds" è un garage-rock sporco, punk nell'accezione originaria del termine (qui presente anche una registrazione live del brano, decisamente migliore della versione studio). "Bad Seeds" è un omaggio a Iggy Pop, agli Stooges e a tutti i cattivi semi sociali. Altro omaggio a Iggy Pop, questa volta in versione matura, è "What's Important": ascoltandola non si riesce proprio a prescindere da "The Passenger". Una citazione, nulla più, anche perché il brano corre su altri binari, in direzioni opposte. Non mancano varianti come le adolescenzialate della Lewis: "Down At The Sea" è una canzoncina al limite dell'infantile, cantata svogliatamente e suonata con in testa tutt' altro, mentre "I Spy" è l'episodio più cupo e claustrofobico del disco, primo segno di una direzione musicale che troverà nella discografia successiva terreno fertile.
Beat Happening è album che vale una carriera.

Gli anni passano, Johnson è sempre attivo nella musica, ma si attarda a uscire col nome Beat Happening. Si teme che il progetto si sia concluso già col primo album, quasi come se la spallata data al mondo musicale abbia colmato le esigenze artistiche del trio di Olympia. Invece nel 1988 arriva Jamboree (K-Sub Pop, 1988), ma si intuisce che qualcosa è cambiato. Basterebbe guardare distrattamente la durata dei brani per notare un che di diverso: alcuni scavallano i due minuti, un paio sforano nei tre. Non più 25 bozzetti, ma 11 brani di cui metà completi, intenzionalmente compiuti. A ricordarci di chi stiamo parlando l'altra metà del disco, la parte centrale per la precisione, composta da graffiate musicali della durata massima del minuto e mezzo (tra gli altri i cinquanta secondi di "Ask Me" o il minuto secco di "Jamboree"). Per il secondo album Calvin Johnson si affida alla co-produzione di un tale di nome Mark Lanegan (allora già da tre anni mente degli Screaming Trees).
Jamboree riesce a sorprendere un po' tutti. Nonostante l'impronta musicale non si discosti troppo dalla linea tracciata con l'esordio, i Beat Happening hanno, ora, un suono più potente, rock, rumoroso. Il "togli il superfluo e anche il necessario", dogma imprescindibile in Beat Happening viene in parte raggirato, costruendo brani d'impatto più immediato, cercando e in parte trovando soluzioni più raffinate. Sia chiaro: nessuna concessione al mercato, alle vendite, ma semplicemente un nuovo percorso musicale.
Il disco è breve, 25 minuti scarsi di musica, per 11 brani che viaggiano tra i 58 secondi e i 3 minuti, roba da Guided By Voices, roba da Beat Happening. "Bewitched" è l'apertura: un riff di chitarra elettrica in stile garage, ripetuto all'infinito, con un Calvin Johnson intento a smorzare l'atonia della sua voce per seguire l'atmosfera rock del brano. Basterebbero da soli questi 3 minuti per farsi un'idea delle novità in casa Beat Happening. Abbandonato Calvin seguiamo ora la Lewis: anche lei si presenta in abiti leggermente riveduti con il cadenzato pop-rock di "In Between", meno viscerale e approssimativo delle prove a cui ci aveva abituato. Fatte le presentazioni, Calvin Johnson lancia subito "Indian Summer", brano manifesto della loro musica, tra i più conosciuti e coverizzati del repertorio del gruppo. "Indian Summer" è una ballata priva di qualsiasi emozione, un osso scarnificato. Nessun gusto, nessun sapore, ma un proprio fascino, quasi imprescindibile. Un manifesto condiviso della low-fidelity music, portavoce di un movimento indie che gridava al mondo la propria esistenza.
Completano il lotto l'apatia di "Hangman", il garage-rock di "Crashing Through" e il ritorno al paradigmatico modus tollens di "Jamboree", che curiosamente dà il titolo anche all'album, pur essendo più affine al capolavoro dell'esordio e non perfettamente allineato con il nuovo corso sonoro. Misteri di menti bizzarre. Finale a sorpresa e col botto. Estetica punk certo, minimalismo certo, indie-rock certo, ma "This Many Boyfriends Club" è anche e soprattutto noise-rock. Siamo in territorio Sonic Youth; sono i Sonic Youth interpretati da un Calvin Johnson qui alle prese con lo zenith della sua cacofonia vocale.

Si chiude qui la produzione migliore dei Beat Happening, due album che hanno lasciato il segno, nati dal nulla, ma così ben radicati nel substrato musicale indie da essere diventati archetipi di un nuovo genere musicale, progenitori (non certo gli unici, si pensi anche agli Half Japanese per esempio) di un movimento musicale, di una nuova estetica rock, di un nuovo-spregiudicato-doityourself approccio alla musica. Le loro 35 canzoni di produzione 1985-88 sono state mandate a memoria da qualsiasi gruppo che, a fine Ottanta/inizio Novanta, abbia intrapreso la strada dell'indie-rock/alternative-rock. Dai Nirvana ai Sonic Youth e a tutto quello che si può trovare in mezzo, prima e dopo. Calvin Johnson ha seminato, ha fondato qualcosa di dannatamente irritante e sgradevole, semplice e perfetto. La sua musica ha sconvolto le orecchie di critici musicali, ascoltatori e musicisti. Senza i Beat Happening, l'intero movimento lo-fi sarebbe stato diverso. I Beat Happening sono i Beatles del lo-fi, non si può non passare sopra i cadaveri delle loro canzoni, per capire l'essenza/essenzialità di un genere tutto.

Il legame tra Calvin Johnson e Mark Lanegan è ormai consolidato, nel corso dell'anno i due organizzano un tour americano insieme girando per lo più negli stati dell'ovest. In sala d'incisione hanno coabitato per Jamboree, ed è di questo periodo anche lo split Beat Happening & Screaming Trees (Homestead, 1988). Il risultato è alterno, come del resto furono alterne le reazioni: chi si prostrò dinanzi ai due eroi dell'indie americano, chi rimase tiepido di fronte a un progetto nato effimero.
Ad onor del vero, va detto che questo Ep mette in vetrina tutti i topoi della musica Beat Happening - sconclusionati accordi di chitarra perennemente ripetuti, una Heather Lewis in splendida forma e protagonista di tutte le parti vocali - così come della musica degli Screaming Trees - il wall of sound che fa molto "fuzzy" è il loro marchio di fabbrica e una splendida interpretazione vocale del solito Lanegan in "Polly Pereguinn". Non aggiunge nulla alla discografia né degli uni, né degli altri, rimanendo legato per quello che in effetti è: uno split tra amici non qualsiasi.

L'anno successivo, nel 1989, arriva improvviso il terzo album dei Beat Happening: Black Candy (K-Sub Pop, 1989). Un ossimoro, Black Candy è un ossimoro: dolcezza nera, dolcetto scuro, liquirizia. Un ossimoro che si ripete ciclico durante i 30 minuti dell'album: il titolo del brano "Pigiama party in un covo di fantasmi", felicità mista a paura, vibrazioni positive interrotte da sadici incubi paranoici, mentre con toni cupi e alienati un cantastorie racconta le cazzate di un adolescente. Ridere del tragico, cinismo o superficialità infantile. Bambini che ritornano e cantano, rispolverano dall'armadio i propri giocattoli, bambole senza testa, appesantite dalla polvere e dal non uso. Ecco, allora, Calvin Johnson & friends alle prese con citazioni di musichette per videogame, batterie giocatolo suonate a ritmo nullo e infine il raro cono di luce puntato finalmente sul basso di Bret Lunsford. Con Black Candy si apre un nuovo capitolo musicale: già in passato si erano sentiti lontani echi crampsiani, ma mai come in questa occasione il gruppo di Lux Interior e Poison Ivy diventa indiscussa musa ispiratrice del gruppo di Olympia.
L'intero mood del disco è colorato di nero. Il programma prevede un Calvin Johnson sempre più padre padrone e una Heather Lewis sempre più alla ricerca di un proprio spazio, di una propria identità. Sembrerebbe il preludio a un mostro a due teste, se non fosse che, proprio in questo disco, è presente il primo duetto - e altrove rarissimo - tra Johnson e la Lewis. Partiamo proprio da qui, da questa collaborazione: "Other Side" è canzone compiuta con una struttura musicale ben definita o più definita del solito. Nel brano viene citata la melodia del computer game Red Rover, ricordo e omaggio a un mondo fanciullesco vicino in tutto all'approccio musicale dei Beat Happening. Un giro di chitarra ripetuto per tre minuti tre, toni funerei e scazzati, appesantiti da minacce di depressione che hanno colorato di nero tanto la copertina dell'album quanto i brani in esso presenti. A esser cinici tuttavia, "Other Side" porta con sé anche un'idea di divertissment paranoico. Laddove proprio la (a)sintonia aveva regalato gemme splendenti, qui l'incontro della voce di Calvin Johnson e Heather Lewis è spontaneo e fresco: trattasi sempre di due automi, annebbiati dalle proprie paranoie, alle prese svogliatamente con una melodia, ma il gioco riesce lo stesso. "Black Candy" è il pozzo nero del disco: "Lasciate ogni speranza, voi che entrate". Ci si tuffa incuriositi dentro, e si cade nel delirio malato, senza via d'uscita, di un uomo - Calvin Johnson - che sembra recitare in tre minuti il suo testamento. Come a un ballo mascherato, si traveste da sacerdote dell'apocalisse, sbeffeggiando sardonicamente il ruolo e chi musicalmente lo ha impersonato, finendo pure per imitare la voce del corvino Lou Reed ammorbidito dalle catechesi diaboliche dell'ultimo Morrison. Calvin Johnson non imita nessuno, prende a prestito, rivaluta e storpia, trasforma e appesantisce il tutto concedendo il massimo della propria cacofonia. "Knick Knack" è l'unico viaggio in solitario di Heather Lewis: il suo sentiero musicale è quello già tracciato e tutt'al più si presta a continue scoloriture. Così ecco che anche "Knick Knack" è la solita marcettina punk, ritmata, veloce e fanciullesca, nel segno di una forzata continuità musicale tra toy-pop e punkettino adolescenziale. La parte centrale dell'album è occupata da "Pijama Party In A Haunted Hive", "Gravedigger Blues" e "Bonfire", perfetta colonna sonora di un qualsiasi b-movie horror. Altro disco, altra canzone manifesto: questa volta è il turno di "Cast A Shadow", insieme a "Indian Summer" l'inno eterno di Calvin Johnson e dei suoi Beat Happening (di cui gli Yo La Tengo fecero una splendida cover), colonna sonora di qualsiasi indie kid.
Black Candy in qualche modo segna la fine della sperimentazione di Calvin Johnson, che preferisce adagiarsi su quanto costruito fino ad allora. Il twee-pop dell'album è stato tuttavia assimilato da tutta la successiva scena indie-pop, influenzando tanto i Belle & Sebastian (se consideriamo le canzoni più pop del disco) quanto le CocoRosie e il toy-pop (musica pop suonata in modo/mood adolescenziale).

Arrivano gli anni Novanta, il grunge, Seattle la nuova capitale della musica. La Sub Pop etichetta di riferimento. E' il riflusso. Tornano gli hippie, ma questa volta non suonano chitarre acustiche inneggiando alla pace e all'amore; questa volta imbracciano chitarra elettriche e urlano la propria depressione. Sono i cantastorie dell'adolescenza di tutto il mondo, e la storia ha voluto che fosse un luogo di boscaioli, sperduto nella geografia dei 50 stati, il punto di partenza, la miccia di tutto.
Il 1991 è l'anno di " Nevermind " - la definitiva consacrazione del rock giovanile -, ma è anche l'anno di " Spiderland ", di "Out Of Time", di " Loveless ", di "Screamdelica", di "Yerself Is Steam" e di un'altra ventina di album - stando bassi - più o meno epocali.
Evidentemente in giro si respirava aria di rinnovamento, e la musa delle arti soffiava la propria ispirazione più spesso del solito. In mezzo a questa vera e propria rivoluzione rock, il nuovo album dei Beat Happening sbiadisce e perde il confronto con quasi tutti. Del resto, i loro capolavori sono già scolpiti nella memoria storica da cinque anni e il loro pezzetto di Eden se lo sono assicurati; che le Muse aiutino dunque anche gli altri.

Ad aprire Dreamy (K-Sub Pop, 1991), l'ennesimo inno autistico di Calvin Johnson, quella "Me Untamed" che sopravvive con un paio di graffiate chitarristiche ripetute alla noia accompagnate da qualche distratto colpo di batteria. Alla voce baritonale di Johnson segue l'ormai noto de-emotizzato incedere vocale di Heather Lewis ("Left Behind"), a suo agio in quell'angolino di pop che strizza l'occhio al teenie-pop travestito a funerale per l'occasione. "Dreamy" è il tentativo del gruppo di trovare un equilibro tra una raggiunta maturità compositiva/artistica e l'impronta naif che ancora li contraddistingue. L'impresa, ardua, riesce a metà, seppur sia meritevole il tentativo: il risultato è acqua tiepida, incapace a tratti di colpire e coinvolgere con le grezze armi di un tempo cuore e mente. Anche l'ambientazione oscura di "Black Candy" viene abbandonata, si apre una finestra e un lampo di luce inizia a illuminare gli antri più bui. Certo, non siamo in un giardino fiorito nel mezzo della primavera, ma "Fortune Cookie Prize" e "Cry For A Shadow" sono timidi tentativi di aprirsi al mondo, scrollarsi di dosso parte della depressione che tutto ottenebra e accennare un sorriso. Gli occhi però rimangono tristi, e Calvin Johnson trova tempo, modo e gioia - sadica gioia - per crogiolarsi di nuovo nelle sue paranoie depressive con "Hot Chocolate Boy", in cui rielabora la stessa melodia per due minuti, e ancor più nei due minuti di "I've Lost You", ripetizione ciclica di un qualcosa lontano chilometri dall'essere melodioso. Accenni di garage-rock.

Anche i Beat Happening beneficiarono dell'esplosione del grunge, e per la prima volta i loro brani entrarono in heavy rotaion nelle radio di tutti college americani. A suggellare l'anno 1991, in estate arriva il circo del Lollopalooza, nato per celebrare l'alternative-rock e autocelebrarsi. Carrozzone immenso, che percorre in lungo e in largo gli Stati Uniti, sfilata in casual delle band più amate, punto di riferimento per qualunque festival futuro, vacanza-premio dopo una stagione di stravizi con amici, e gli amici degli amici che si alternano su un palco gigantesco davanti a folle oceaniche. Il tutto orchestrato dalla mente tutta lustrini e genio di Perry Farrell dei Jane's Addiction. Calvin Johnson non ci sta, è tutto troppo grande, troppo modaiolo, troppo mainstream, occorre trovare qualcosa di alternativo, di alternativo al Lollopalooza che è già il baluardo nazionalpopolare dell'alternativo. Basta davvero poco e nel 1991, a San Francisco, Calvin Johnson organizza l'International Pop Underground e inscena il suo show, chiamando a raccolta oltre ai suoi Beat Happening, anche Fugazi, The Fastbacks, Thee Headcoats, Nation of Ulysses, Mecca Normal e altre 50 band. Fu un enorme successo, a riprova di quanto la gente sentisse il desiderio di vivere la musica, di aggregarsi, di condividere. Fu inoltre la definitiva incoronazione di Mr Johnson come re dell'indie. La sua K Records divenne il nuovo punto di riferimento della scena underground, allargando infinitamente il proprio roster di artisti.

Ormai gli interessi di Calvin Johnson si fanno sempre più impegnativi, la K Records non è più una questione di amici, e la sua ricerca di nuove cose da fare è irrefrenabile. L'esperienza Beat Happening, invece, sta morendo, messa nell'angolo e quasi abbandonata. I tempi magici sembrano finiti, l'artista pare abbia concluso il suo ciclo; è tempo di smettere, salutare, arrivederci e tante grazie. L'uscita di scena della band che ha cambiato molto della musica rock negli anni Ottanta è You Turn Me On (K-Sub Pop, 1992), il classico colpo di coda del maestro. Conscio di aver detto tutto quello che poteva e sapeva in ambito lo-fi, Calvin Johnson saluta tutti con l'album della maturità: finiti i chiassi adolescenziali, la velocità orgasmica, il tutto e subito, il punk, Johnson celebra i suoi anni, la sua popolarità, il suo essere adulto con tempi dilatati, inaspettati per i fan dei Beat Happening. I sette minuti di "Tiger Trap", i sei di "Bury The Hammer" e i nove di "Godsend" non si spiegano altrimenti se non con il desiderio di essere definitivi, di finire compiutamente. Album di forte complessità, You Turn Me On intreccia tutti i temi della carriera del gruppo, riveduti e corretti con l'occhio dell'uomo maturo. La stessa Heather Lewis è quasi irriconoscibile in "Noise", lontano galassie dalle marcettine punk a cui ci aveva abituato. Riconoscibile invece il suono, la chitarra suonata con la solita imperizia sverginata però dagli anni di pratica, perché a forza di suonare anche i Beat Happening hanno incredibilmente perfezionato il loro stile.

Nel 1991 i Nirvana diventarono il gruppo più famoso del mondo, il loro leader un santone; tra i meriti di quel pazzo di Kurt Cobain non va dimenticato il tentativo, riuscito, di riportare alla ribalta gruppi che avevano lavorato nell'ombra per tutto il decennio precedente, preparando il terreno per l'esplosione alternative dei Novanta. In mezzo ai vari Meat Puppets (celebrati con una serie di cover nel "Mtv Unplugged") e Sonic Youth (che spinsero la Geffen a produrre i Nirvana) troviamo anche i Beat Happening. Del resto Olympia, nello stato di Washinghton, non era una città così grande e Calvin Johnson fu uno degli eroi di Kurt Cobain.
Il riflusso mediatico e commerciale non colpì tuttavia i nostri, che anzi lasciarono anzitempo il palco, alzarono la mano e salutarono. Fine della storia. Con due album fondamentali per capire l'indie-rock, i Beat Happening avevano già fatto abbastanza.

Beat Happening

Discografia

Beat Happening (K-Sub Pop, 1985)

8

Jamboree (K-Sub Pop, 1988)

8

Beat Happening & Screaming Trees (Positive, 1988)

5,5

Black Candy (K-Sub Pop, 1989)

6

Dreamy (K-Sub Pop, 1991)

5

You Turn Me On (K-Sub Pop, 1992)

6,5

Pietra miliare
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