Dopo un interessante esordio e un delizioso album di folktronica dalle molteplici sfumature (“The Moon Rang Like A Bell”) per gli americani Hundred Waters è giunto il momento di capitalizzare un percorso artistico di tutto rispetto. La stampa ha tessuto lodi e paragoni ingombranti per il trio di Gainesville: Bjork, Susanne Sundfør e Radiohead sono solo alcuni dei nomi citati nel descrivere l’avventuroso e appassionato alternative-pop.
Con “Communicating” la band di Nicole Miglis, cercando di arginare la perdita del polistrumentista Paul Giese, ridefinisce i contorni del proprio stile con intelligenti accenni sperimentali e piccoli frammenti di musica jazz. Malinconia, ansia e melodramma sono il corpo centrale dell’album, tra tentativi di depistaggio lirico che sorridono alla canzone d’autore a suon di piano e briciole di dream-pop (“Prison Guard”), nonché ballate più convenzionali (“Parade”) che appaiono in bilico tra Elton John e Fiona Apple.
Il coraggioso intreccio di ritmi hip-hop e dettagli armonici di “At Home & In My Head” e il trascinante groove synth-wave di “Wave To Anchor” confermano altresì gli Hundred Waters come una delle poche band capace di frantumare i canoni pop-dance con intelligenza e originalità estetica. Il languore di “Better” e il piglio solare di “Particle” sono senz’altro i tentativi più espliciti della band di rendere la formula più fruibile, ma il tenebroso minimalismo della title track, il malcelato disagio del singolo “Fingers” e la capacità di rimettere tutto in discussione con l’impetuoso refrain di “Blanket Me” dimostrano che per il trio americano c’è ancora molto da esplorare nel fragile e imprevedibile mondo della canzone pop.
19/01/2018