Rainbow Chan

Spacings

2016 (Silo Arts)
art-electro-pop, avant-pop

Di dischi che riflettono su relazioni andate, sulle dinamiche che hanno condotto al loro fallimento e su quanto meccanismi analoghi rischiano di infettare anche quelle future, ne abbiamo sentiti così tanti nel corso degli anni che onestamente un simile espediente tematico risulta ormai alquanto stantio. Fa piacere constatare come sia un album d'esordio quale “Spacings” a costituire una felice eccezione alla regola, e fornire un approccio decisamente diverso alla materia in questione, ponendosi, anche stilisticamente, in maniera critica rispetto ai topoi che continuano a riproporsi nella stragrande maggioranza dei break-up album e prodotti consimili. Quanto si dipinge infatti nel disco di Rainbow Chan, producer nata a Hong Kong ma di stanza a Sydney, è ben più di una meditazione sui cocci rotti di un passato che non può tornare indietro, diventa piuttosto l'occasione per compiere un'attenta analisi sulle dinamiche psicologiche che si instaurano in una relazione, su quei piccoli elementi apparentemente insignificanti ma che rivelano molto più su chi parla rispetto ad atteggiamenti più plateali, ma allo stesso tempo ben più ovvi e comuni. Nel corso dei trentasette minuti del lavoro, l'indagine finisce col parlare, più o meno apertamente, di Chan stessa, e ancor di più della lucidità e della determinazione che l'hanno portata avanti nel suo cammino, finanche nella realizzazione di uno tra i dischi pop più peculiari e intriganti degli ultimi anni, specchio fedele della straripante personalità della sua autrice.

In effetti, già il tortuoso percorso che ha condotto alla pubblicazione del disco testimonia una certa difficoltà, un'imprendibilità stilistica (e conseguemente anche di target) che ben inquadra la forza della creatività e delle idee che accompagnano il progetto, una dirompenza espressiva che non ha esitato a posticipare l'uscita del lavoro, pur di non sacrificare una briciola del proprio impatto. Un impatto che vede Rainbow Chan trovarsi di fronte a una situazione analoga a quella della Róisín Murphy del grandioso (e sottovalutato) “Ruby Blue”, laddove il tentativo è quello di porsi in una via di mezzo tra sperimentazione sonora/timbrica e immediatezza melodica, per un pop sofisticato e dalle ambizioni avantgarde, comunque memore delle caratteristiche di scrittura che lo rendono tale. Se il rischio è quello di scontentare sia i poptimisti più incalliti sia chi invece vive di sola produzione, nondimeno è questa terza strada a costituire la chiave del successo dell'artista, strada in cui la pluralità di riferimenti e influenze si traduce in un pop elettronico poliedrico e dinamico, eppure sempre rigoroso nella stesura, attento alla gestione dei tempi e a non cedere al compiacimento produttivo. Una macchina musicale calibrata in ogni dettaglio, il cui è successo è attribuibile fondamentalmente a tre elementi principali, in perfetta cooperazione tra loro: l'attenta diversificazione dei tagli ritmici, l'originalità dei motivi sonori, la cura nelle interpretazioni, sempre in primo piano nel dettare il mood e la lettura preferenziale. Per quanto Chan abbia lamentato una certa mancanza di pulizia nel risultato finale, non è detto che una produzione più laccata avrebbe cambiato chissà quanto le carte in tavola.

Quel che è certo è che le presunte ingenuità attribuibili a un'opera prima qui semplicemente non esistono. Lo testimonia in primis il modo in cui sonorità attualmente considerate tabù, come ad esempio l'r&b di una ventina di anni fa (quello di Mariah Carey altezza “Rainbow” o delle TLC, per intendersi) trovino nuova linfa alla luce della bass-music e di un trattamento hi-tech che ne toglie ogni traccia di stucchevolezza intrinseca, rafforzando l'intrico delle trame sintetiche (“Shell”). In seconda battuta, colpisce particolarmente il recupero di elementi propri del pop cinese e taiwanese anni 70 e 80, suoni ascoltati probabilmente sin dall'infanzia e qui presentati in collage privi dei filtri orientalisti di tanti artisti occidentali. Da questo punto di vista, il singolo “Nest”, unico momento in cui traspare qualcosa di simile all'auto-deplorazione (“I'm not enough for you/ I'm not enough for you”), è l'esempio privilegiato: sopra la base ripresa quasi a pie' pari da “Losing You” di Solange, Chan distorce motivi e melodie propri dell'eredità pop della sua terra d'origine, piegandoli al punto da svelarne qualità nuove, possibilità soul, perfetto bilanciamento per il peculiare trasporto lirico della vocalità della musicista. In effetti è bene spendere due parole sulla voce, ben lungi dall'essere un semplice (per quanto privilegiato) sostegno alla limpidezza dei testi. Dotata di una delicatezza timbrica e di una sinuosità che in una certa misura potrebbe accostarla alle eroine del nu-r&b contemporaneo, Rainbow Chan se ne discosta invece di gran lunga per una più pronunciata corporeità e vigore, sfruttati a dovere per meglio sottolineare i cambi di umore tra un brano e l'altro, le piccole variazioni nelle coloriture.

Non sorprende come la producer sappia quindi districarsi alla grande sia nel scivoloso territorio della ballad (naturalmente aggiustata e corretta nel sound all'occorrenza, ma sempre funzionale a veicolare al meglio le splendide inflessioni soul della voce), come anche reggere il passo di tagli ritmici più grintosi e aggressivi, proponendosi a suo modo come sofisticata diva dance. Un talento che insomma coordina attorno a sé e alla sua espressività il resto, ponendosi come chiaro baricentro attorno al quale lasciar gravitare idee e spunti: si fa presto insomma, a passare dal hip-hop old-school intriso di venature new jack swing (evidenti nel sassofono, suonato dalla stessa Chan) di “Stretched”, alla fisicità selvaggia, quasi “etnica” dei loop percussivi di “Work”, peraltro ben sostenuta dallo stesso testo, inno all'impegno e all'esercizio. Un binomio che funziona in maniera analoga tra “Last”, blocchi melodici a incastro sopra a un battito dal tiro industrial-techno, e la più rilassata “Pillow Talk”, saggio di malinconico dream-pop (interessante la doppia soggettiva del testo, ora accusatoria, ora più giustificante) imperniato su bassi funky e glockenspiel in controtempo modulato come se si trattasse di pattern glitch. E il gioco potrebbe andare avanti, in fondo l'autonomia espressiva dell'artista è tale che anche gli episodi apparentemente più deboli del disco possiedono sufficiente carattere e solidità d'impianto da non figurare come semplici tappabuchi.

Da canto suo, Rainbow Chan è contenta di essere riuscita a giungere alla pubblicazione di “Spacings” senza dover sacrificare in alcun modo il proprio approccio idiosincratico alla produzione e alla composizione. Si spera che anche in futuro, magari con un soggetto testuale più particolare, si mantenga intatto il suo metodo creativo.

01/12/2016

Tracklist

  1. Only Kindling
  2. Nest
  3. Stretched
  4. Work
  5. Pearled Into
  6. Shell
  7. Last
  8. Pillow Talk
  9. The Letter
  10. Coalesce




Rainbow Chan sul web