La nota stampa lo ha definito un cerbero power-pop con le sembianze di Ray Davies, Brian Wilson e Tom Petty. Beh, al di là della parzialità di un assunto tanto chiassoso, tocca ammettere che, per una volta, uno di quei coloriti ritratti preconfezionati, piazzati a effetto per scopi promozionali, ha colto nel segno e incontra la nostra approvazione.
"In Triangle Time" è il nono album della quasi ventennale carriera di Kelley Stoltz, il primo a uscire per l'etichetta dell'amico John Dwyer dopo una lunga permanenza in scuderia alla Sub Pop e l'estemporanea esperienza alla Third Man di Jack White, nonché la terza uscita di un ultimo scorcio di 2015 evidentemente molto intenso, dopo l'Ep "Four New Cuts" e il più che prescindibile "The Scuzzy Inputs Of..." intestato all'alias Willie Weird, entrambi fuori per Stroll On.
Chi era pronto a deplorare l'ennesima minestrina riscaldata può mettersi l'animo in pace. Collezione di eccentricità assortite, questo lavoro porta avanti con profitto l'evoluzione dagli stereotipi di un felice bozzettismo
sixties a una
new wave rivisitata (
Echo and The Bunnymen e
Fall, tra gli innumerevoli riferimenti), riuscendo là dove il precedente "
Double Exposure" aveva in buona parte mancato il colpo. Uno sberleffo all'ortodossia baroque-pop, uno specchio deformante per quei modelli drogati dalla reiterazione, dal giogo di una
weirdness finalmente libera di imperversare a livello formale e di scrittura.
Ci si presenta con un torvo giro di basso, chitarra da
Lennon alienato e interpretazione sul lisergico andante, spesa non certo per il gusto ruffiano dell'artificio. "Cut Me, Baby" e la successiva "Jona" dettano la linea a un disco pervicacemente fuori linea, sbalestrato, sconnesso con ostinazione dai dettami di massima del genere, più sperimentale direbbe qualcuno, indifferente a ogni indirizzo espressivo e del tutto a proprio agio nell'andare beatamente alla deriva.
"È venuto fuori in maniera naturale", ha confessato l'artista, californiano d'adozione. "Dopo una vita musicale condotta all'insegna della pignoleria, delle sovraincisioni e gli inserti sinfonici
à-la Phil Spector, ho optato per tenere la mia nuova creatura in una forma scheletrica, ho spento il mellotron e acceso i synth". Una descrizione illuminante, che tuttavia non riesce a rendere conto di quanto minimi si siano fatti gli scarti, o di come sia divenuto cruciale l'accumulo, la sedimentazione inesorabile, tra le pieghe di queste esplorazioni placide ma guizzanti, autistiche, incoerenti. Per chi sappia entrare in confidenza con questo spiazzante magnetismo, si tratta di un'opera potente e di rara coerenza nella descrizione di un viaggio senza meta e senza ritorno, che fagocita le più disparate reminescenze in un revival originalissimo, perché di fatto irriconoscibile, lucido nel suo sbrindellato dispiegarsi al cospetto dell'ascoltatore.
"Crossed Mind Blues" è un altro episodio emblematico della poetica sfuggente del nuovo Stoltz. Persegue in via sistematica l'applicazione delle logiche compositive del kraut-rock alle più oblique ballate marca
Beatles di fine anni Sessanta. Il risultato è questo ossessionante psych-pop, deviato e privo della benché minima ansia da prestazione, che non chiede altro che essere respinto o amato senza ritegno. Si prenda quindi "You're Not Ice": grana sovraesposta, suggestioni acidissime, follia galoppante sulla falsariga dei momenti più estremi e malati sul "Magical Mystery Tour", o delle derive rancide, sfarfallanti e infantili dell'amico Dwyer in "
Castlemania". O anche "Heart Full Of Rain", vaudeville decostruito e rimontato secondo il proprio estro perverso, col sadismo del sabotatore che non ha più nulla da perdere.
Le montagne russe del fanfarone Kelley contemplano inoltre numeri che parrebbero rubati a un impossibile
Thurston Moore in acido ("Fictional Girl"), cliché consunti del modernariato
Brit (la
kinksiana "Wobbly"), negativi fotografici di un simposio
Bowie/
Lou Reed di quattro decenni fa ("Litter Love"),
riff degli
Stones sbocconcellati ("Pyramid Of Time") e colonne sonore di noir anni Ottanta impazzite come la maionese ("The Hill").
Apparentemente più accessibile, "Star Cluster" sembrerebbe fare eccezione. In realtà il Nostro vi replica la medesima inclinazione allucinata e gli stessi trucchi da ipnotista
jangle-pop. E se la chiusa di "Destroyers & Drones" illude sul possibile recupero del senno, con un riavvicinamento al
retro-pop più convenzionale dei propri trascorsi (o di un
Jim Noir, altro fenomeno del
detournement easy-listening), è in realtà l'ultimo stadio della pazzia a venire mimato, quello dell'estasi senza più confini.
"In Triangle Time" si impone come un album davvero difficile da fissare ed etichettare una volta per tutte, ma anche come la miglior rivincita possibile per il
songwriter di stanza a San Francisco nei confronti dei suoi eterni detrattori e delle loro ingenerose accuse di prevedibilità.
Avanti così, Kelley!
22/12/2015