Imperterriti e sempre più criptici, i St. Ride continuano a declinare il verbo della dissociazione. Ma ora vogliono di più: vogliono conquistare il mondo. Conquistare il mondo con un suono pulsante, radicale, scheletrico; un suono capace di trasfigurarlo, il mondo, per riconsegnarcelo sotto forma di vibrazione aliena e magmatica.
Questo nuovo lavoro, dunque, potrebbe essere letto come la metafora di un lento ed inesorabile declino della civiltà occidentale. Eccoli, dunque, Grandi e Gusmerini, imbastire panoramiche oblique sulle magnifiche sorti & progressive (“Nagoya”), sprofondare negli abissi della materia per il solo gusto di dimostrare che sì, eppur si muove, ma tutto è destinato a perire (“Bangalore”), oppure registrare ipotetici rituali quartomondisti (“Massawa”), magari per trasformarli in ascese progressive-electronic (“Tepetlaoxtoc”).
Se ascoltate “Detroit” e ripensate per un attimo al suo recente, clamoroso fallimento, vi sembrerà proprio di trovarvi nel bel mezzo di una città fantasma, alle prese con le macerie di uno dei simboli dell’epopea capitalistica. “Ulaanbataar”, invece, si trascina per oltre sei minuti con vuoti e pieni subsonici, mentre “Trondhein” è un numero techno per dancefloor androidi.
Non siamo sui livelli qualitativi di “Cercando Niente” e “Primitivo”, ma anche questo lavoro ha il pregio di approfondire un discorso ideologico-artistico davvero personale.
09/11/2013