Chi paventava come più scellerata delle strategie la sovraesposizione cui i Thee Oh Sees parevano averci abituato, può alla fine tranquillizzarsi. Dopo un 2011 condito da due dischi di inediti, un’ampia raccolta di B-sides e amenità assortite oltre alla solita manciata di ardite collaborazioni, la band di San Francisco sembra aver saggiamente optato per una condotta di maggior riserbo: un solo Lp a referto e un paio di trascurabili split single (con The Mallard e Quintron & Miss Pussycat).
A non venire meno sono comunque tanto la qualità effettiva di una proposta che resta agilmente tra le più interessanti in circolazione (nonostante lo stuolo di imitatori cresca a vista d’occhio, specie all’interno della scuderia di famiglia Castle Face), quanto il piacere dello scherzo e della sorpresa che il progetto californiano non ha mai smesso di coltivare, nel caso di “Putrifiers II” con la scelta ingannevole di un titolo che si propone come seguito di qualcosa che, di fatto, non esiste.
Ad essere sinceri parlando dei Thee Oh Sees, una linea di continuità pare sempre evidente: ben poche altre realtà nella scena psych-rock di questi anni possono infatti vantare un sound ormai classico e riconoscibile come il loro. Nello specifico di “Putrifiers II”, la doppietta piazzata in avvio va implicitamente a completare la (parziale) svolta del corposo predecessore “Carrion Crawler / The Dream” – loro prova forse più convincente di sempre – ribadendo che i banali vezzi del garage lo-fi restano una variabile di cui la formazione statunitense può tranquillamente fare a meno.
Nella rombante partenza di “Wax Face” tutte le peculiarità stilistiche del gruppo (spirali di effetti, isteria elettrica, cori e urletti ultrariverberati) sono egregiamente espresse, con un talento nella sintesi ed una compattezza sonora che altrove, spesso, erano mancati. Nondimeno “Hang A Picture” fa centro nel solco delle tipiche esplorazioni tra rock revival e pungente psichedelia West Coast: limpida, precisa, rotonda, trottante e con più di una reminescenza dai tempi dei primi veri successi, “The Master’s Beedroom” e “Help”, nemmeno cinque anni orsono peraltro. Coordinate analoghe anche per il singolo “Lupine Dominus”, una “My Sharona” in acido che la vocina infida di Brigid Dawson e i bramiti del Fuzz War trasformano in una sorta di rivisitazione, meno spigolosa, di uno dei migliori pezzi del repertorio live del gruppo della Bay Area, “Contraption/ Soul Desert”.
Se in superficie sembra ridimensionata l’indole estremista, almeno rispetto agli episodi più naif e meno accomodanti del catalogo Thee Oh Sees, non ha perso smalto la sottile vena sperimentale che da sempre accompagna ogni loro uscita, quel gusto nel recuperare una tradizione per adulterarla a piacimento attraverso canaloni sonici ossessivi e ritornanti, distorsioni mai gratuite, ritmiche perentorie e fumose digressioni. Evoluzioni sghembe e rumorismo fine a se stesso sono quindi ridotti al minimo indispensabile ma il gruppo non rinuncia alle tonalità tra il rancido e il floreale che ne hanno ormai consolidato l’impronta.
In “Flood’s New Light” recupera ad esempio scampoli dell’infantilismo sfarfallante di “Castlemania”, con le giuste cromature e il disimpegno festante che sono inconfondibili specialità della casa. E, nello stesso genere, riecco in “Will We Be Scared?” il beat dei sixties rigorosamente deviato in linea con la propria indole stralunata (sulla falsariga dell’ormai lanciatissimo discepolo Ty Segall), un po’ come era capitato con le gustose cover da autentici carneadi della canzonetta (Norma Tanega e la West Coast Pop experimental Band) che chiudevano quell’album acidulo e sgangherato. Pilotati dall’estro di un John Dwyer comunque assai meno scanzonato del solito, gli Oh Sees confezionano così uno dei loro lavori in assoluto più vari, dove la palma per la maggiore sorpresa spetta di diritto all’oscura ed avvolgente “So Nice”, insolita per la compostezza marziale e per il ruolo cruciale del violoncello, seppur non più straniante del resto del lotto.
Il brano che dà il titolo alla raccolta avvicina invece l’art-rock intimista dei Deerhunter e, tra meraviglia narcotica e improvvise illuminazioni, potrebbe quasi essere scambiato per una outtake da “Halcyon Digest”. Il vulcanico leader si concede poi il lusso di un ennesimo colpo gobbo, sfoderando un pezzo curiosamente arioso e privo di asperità o artifici disturbanti, tra chitarre jangle-pop, archi e cantato adamantino (“Goodbye Baby”), ma non manca un omaggio alla psichedelia gentile e barocca del Ray Davies degli anni d’oro (“Wicked Park”).
Produzione notevole e due ospiti di lusso: Mikal Cronin al sax e Chris Woodhouse, che aggiunge ulteriore sostanza e profondità ad una sezione ritmica come sempre fenomenale.
02/01/2013