Je Suis Le Petit Chevalier

An Age Of Wonder

2012 (La Station Radar)
ambient-drone

Non pago di sfornare con un'assiduità invidiabile talenti genuini in materia di cantautorato e popmuzik nel senso più ampio del termine, da qualche tempo il Belgio è pure una piccola terra promessa che accoglie alcune tra le più interessanti produzioni europee di quel vastissimo macrocosmo definito genericamente “ambient-music”. Se Dirk Serries ha infatti spianato la strada in patria verso queste sonorità, in moltissimi hanno provveduto poi a diffondere, quando non modificare e radicalizzare, quelle intuizioni iniziali, moltiplicando i livelli di lettura a dismisura, in un paese relegato tutto sommato ai bordi dell'attenzione musicale mondiale (si spera ancora per poco).
Da circa un lustro, assieme ai due protegées di casa Miasmah Kreng e Kaboom Karavan, Félicia Atkinson (francese ma da tempo residente a Bruxelles) è il nome di punta di una scena che ha ritrovato il bandolo della matassa e sorride al futuro, e che, nella sua prolificità finanche estenuante, ha cominciato finalmente a ingranare la marcia giusta. E ironia della sorte, è col suo progetto parallelo, Je Suis Le Petit Chevalier (sì, il nome deriva proprio dal celebre brano di Nico), non meno produttivo di quello madre, che i conti hanno preso a quadrare, che il progetto acquista una fisionomia più definita.

Rilasciato lo scorso marzo, “An Age Of Wonder”, puntata numero otto di un side-project varato giusto nel 2010, è composto da due lunghissime suite di diciotto minuti circa ciascuna, in cui la Atkinson raggiunge con una precisione finora soltanto sfiorata quella compenetrazione tra arti visive e musica, fino a questo momento agognata come la più classica delle chimere. Confessa di essersi ispirata alla comunità Amish, ai tramonti del Wisconsin e all'estate di San Martino belga, e nei continui torrenti sinestetici che il lavoro sfodera, non manca di farsi riconoscere questa molteplicità negli ascendenti, e l'istintivo contrasto che li separa.
Strutturate infatti come effettiva opera d'ambiente, le due facce del vinile, non dissimili nella realizzazione, delineano uno scenario in cui i luoghi dell'anima riflettono e si riflettono nello spazio che li circonda. Spazi chiusi e aperti, abissi e risalite, vagabondaggi per deserti sterminati e impenetrabili foreste diventano così il pretesto per singolari riflessioni sull'inconscio e sull'esistenza, che prendono forma in un mélange inquieto e violaceo, ripetutamente rigato da una profonda nostalgia.

Un inconscio che s'innalza lentamente e si ferma a mezz'aria: come una Julia Holter strappata dal torpore del suo esoterismo, come una Rachel Evans sorpresa a guardare per una volta la terra invece che gli astri, in “Fever Dunes” la Atkinson si avvicina nell'oscurità con l'impalpabilità di uno spettro, parlando lingue dimenticate, con un calore fioco che scioglie il freddo circostante. La senti vicina quella voce, eppure sa farti trasalire anche da lontano, persa nella stretta di un giro di tastiera, nell'abbraccio fosco di droni e impulsi elettrici che si intrecciano e si trasfigurano in continuazione in quel paesaggio desertico, decantato sin dal titolo.
Più turbato, il contatto con l'elemento naturale in “The First Forest” si fa carico invece di tensioni brulicanti, in cui gli istinti vocali vengono repressi per cedere il posto a complesse trame di organo e chitarra, che si abbattono sull'algido bordone in un mulinello sempre più vorticoso, in un duello che non porta né a vincitori né a vinti. In un silenzio covato a fatica, la tempesta a cui affidare i propri struggimenti interiori, di qualunque carattere essi siano.

Nonostante qualche lungaggine di troppo, la Atkinson, con un nome diverso, ha imbroccato un percorso, liquido e ammaliante, che potrebbe seriamente portarle una maggiore, e a questo punto, meritata, visibilità. Con l'auspicio che il disco in questione, nei suoi floridi soundscape, possa essere il primo mattone verso una reale "era del miracolo".

03/12/2012

Tracklist

  1. Fever Dunes
  2. The First Forest

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