A dispetto di quel che si potrebbe pensare i tempi di William Orbit e dei Chemical Brothers non sono sepolti e dimenticati: Beth Orton, a quarantadue anni, sembra aver metabolizzato tutto ciò che di buono e di meno buono le è capitato in una carriera lunga abbastanza da permetterle di aspettare una piccola eternità prima di dare un seguito al disco forse meno apprezzato, e forse con più di qualche torto, della sua produzione, quel “Comfort Of Strangers” in cui la cantautrice inglese nel 2006 aveva voluto certificare una sorta di svolta in chiave acustica, o perlomeno più canonica rispetto al passato.
Oggi, sei anni e due figli dopo, esce “Sugaring Season”, un disco eccellente fatto di dieci canzoni in cui nulla risulta fuori posto. La solita batteria di collaboratori di prima classe stavolta è arricchita dalla presenza, in due tracce, della chitarra di Marc Ribot, e in generale, al di là della elegante e sicura produzione di Tucker Martine (Rem, Sufjan Stevens, Decemberists, My Morning Jacket), sembra di poter dire che far suonare un disco a gente del genere (tra gli altri il batterista Brian Blade e il bassista Sebastian Steinberg) è un lusso che difficilmente finisce per non ripagare.
Poi c’è la sua voce, naturalmente. Flautata, immateriale eppure solida: e la conosciamo bene la voce di Beth Orton, che si increspa come nella tirata iniziale di “Magpie”, con una incalzante ossessione, quasi psichedelica, da tenere a bada a fatica, o si assottiglia e si lascia modellare come un impasto pregiato nella fiaba amara di “Something More Beautiful”. Questa voce che sa essere anche sbarazzina, quasi volesse giocare, ogni tanto, a prendersi poco sul serio – e ascoltate “Call Me The Breeze”, i suoi mille veli, con quel wurlitzer che s’aggroviglia intorno al giro corto di Blade e le carezze di chitarra che ti solleticano l’umore.
Sono canzoni fatte di piccoli travagli, piccole storie e piccole felicità, e Beth dimostra di saper andare di valzer (“See Through Blue”) come di reggere il peso di un pianoforte lasciato a farle il controcanto da solo per quasi tutto il tempo di “Last Leaves Of Autumn”, senza ombra di dubbio una delle vette dell’album. Ma la verità è che risulta difficile trovare vertici di sorta, in alto e in basso, perché il livello di “Sugaring Season” – e qui sta la sua forza maggiore – è costante dall’inizio alla fine. È un disco che ragiona con un’unica testa e respira con un solo naso e una sola bocca, un disco che si muove senza scarti, fluido, compatto. Da “Magpie” alla bellissima “Mystery” sembra non passare più di un lungo istante.
La cura e il gusto dei particolari – ecco la lezione folktronica che non si disperde - fanno di questo lavoro uno dei più significativi di un 2012 decisamente povero di idee e di coraggio. Se è per questo, direte voi, dove starebbe il coraggio di Beth Orton? Probabilmente nella disinvoltura con cui, dopo un periodo di silenzio che avrebbe affossato la popolarità e la baldanza di musicisti ben più in vista, se ne esce fuori con un disco totalmente estraneo a tutto ciò che va per la maggiore in questi giorni, forte per la qualità della scrittura delle canzoni e per il modo in cui le canzoni sono suonate, un disco compatto ma non monolitico, classico ma non banale. Un disco a fuoco, e centratissimo. Welcome back, Beth.
19/10/2012