Dan Melchior, classe 1972, è un songwriter da Shepperton, sobborgo londinese ma con sede a Durham, Nord Carolina. E' attivo da una decina d’anni e già autore in duo con Billy Childish e Holly Golightly.
In questo recente doppio Lp, il debordante mosaico “Thankyou Very Much”, egli propone un trascinante misto di folk-roots rock quanto più spartano, ma anche rigoroso sul piano formale.
“Thankyou Very Much” è già il secondo album inciso da Melchior col
moniker Dan Melchior und Das Menace nel giro di un biennio, facendo seguito a “Christmas For The Crows” del 2008. Un frenetico abbecedario sensitivo, un frammentario e accattivante assalto stradaiolo di intriganti fantasie armoniche interpretate, per così dire, da un canto quasi in
trance e in perenne, amniotico, dissonante disturbo.
Per certi versi riaffiora, oltre agli ispiratori dichiarati su
Myspace - Crass, Frankie Lee Sims, Deep Freeze Mice ecc. - il suono (irresistibile) degli album targati Matador di metà decennio 90: un manto sonoro soavemente sgualcito da chitarre distorte e stridule, che per quanto sia stato definito
free-genere è un po’ la maniera di un
garage-southern blues ancestrale, ligio alla tradizione e all’occorrenza rivisitato irriverente e aleatorio.
C’è davvero molta America vagheggiata nel piglio anarcoide, nello spessore e nelle vedute fantasmatiche di questo autore; di questo suo febbricitante, rauco e fosco corpo sonico, scosso da vibranti sferragliate strumentali e da pregevoli piccole intuizioni a cesello. Un delirio sbrogliato in robuste nervature blues o sproni
noise come in “Wrapped In Fog”, “Dear Old Durham” e da simboli rurali e acidi che affiorano nelle maglie lisergico-psicotiche nel veemente terzetto di “Club Frills (And Diet Pills)”, “American Alien” e “My Slippery Shadow”.
“O! Anxiety”, il marziale brano d’apertura dell’album, richiama per trepida nevrosi e dolce isteria alcuni protagonisti della radicale, paranoica compila-manifesto "
Pisspounder".
Insolitamente ben congegnata e tutt’altro che semplice variante di genere appare poi la costruzione della miriade di brani (persino la propria sequenza è felicemente azzeccata) i cui tempi o gli immaginativi assoli richiamano allucinati apparati psichedelici
d’antan: “Blue Tentacles”, “Williamsburg, Brooklyn”, o le forti tinte strumentali in “Glen Prevails”.
La torbida e morbosa ascesa pop della
title track, “Thank You Very Much”, tanto quanto il magnetico battito in “No Horizon/No Prescription” o la nenia strascicata “Sand Friod”, farebbero invece invidia ai più validi esponenti
low-fi di ogni tempo.
21/04/2009