Françoise Hardy

Françoise Hardy

Una rosa per amica

Timida cantrice d'inni generazionali, ragazza yéyé suo malgrado, icona di stile, straziante narratrice di sofferenze d'amore, goffa commediante, con qualche incursione sul set e una carriera parallela d'astrologa. Françoise Hardy è la mademoiselle per antonomasia della canzone francese. Un simbolo unico di grazia ed eleganza. Raccontiamo la sua storia, tra successi, disavventure e rinascite

di Tommaso de Brabant

Timida cantrice d'inni generazionali, incredula quanto superba icona di stile, straziata e straziante narratrice d'amori malandati, goffa commediante: con in più piccoli passaggi al cinema e una carriera d'astrologa. Françoise Hardy, mademoiselle per antonomasia, fidanzatina del mondo, nonché chanteuse d'eleganza unica.
Françoise Madeleine Hardy è nata il 17 gennaio 1944 (Capricorno con ascendente Bilancia) a Parigi. Da adolescente, oppressa dalla madre, pensa di rifugiarsi in un convento; a diciassette anni però, come premio per i buoni voti ottenuti a scuola, riceve dal padre una chitarra, con la quale sogna di emulare i beniamini della radio. Iscrittasi malvolentieri alla Sorbona, risponde a una inserzione sul France-Soir per aspiranti cantanti. Approda così alla gloriosa etichetta Vogue, che subito la lancia in televisione e nei juke-box, con traduzioni francesi di successi americani.
In pochi mesi arriva il gran successo: la diretta televisiva di un referendum è interrotta da intermezzi musicali, durante uno di questi “mademoiselle Hardy” canta “Tous les garçons et le filles”. L'impatto sui francesi è forte, paragonabile a quello che avrà David Bowie sui britannici cantando in tv “Starman” abbracciato a Mick Ronson: già il giorno dopo, il 45 giri della canzone è venduto a vagonate.

In poche ore, la ragazzina altissima e magrissima vestita da collegiale conquista la Francia: già si parla di una nuova idole della benemerita tradizione canzonettistica locale. Ragazzina che però prende immediatamente le distanze dal personaggio che le viene attribuito, anche per via di quel testo: non vuole essere un'icona generazionale. Non si diverte con i coetanei, preferisce barricarsi in camera a leggere Queneau e Ionesco (che la ringrazieranno della pubblicità). Frequenta poco i ragazzi, ma sogna il grande amore – del quale dovrà occuparsi e pure tanto, diventando una cantante pop. Ne farà il suo tema preferito: con entusiasmo, ma non volentieri, vivendolo con grandi travagli. Della celebre frase virgiliana “Omnia vincit amor et nos cedamus amori”, confermerà il secondo periodo (“cediamo all'amore”) ma, pur volendo con forza credere al primo (“L'amore vince tutto”), si troverà suo malgrado smentita. Ma converrà con Platone che è bene soffrire per ciò che è bello.

Françoise HardyDiventa subito un classico pop l’Lp costruito attorno alla orecchiabile hit di Françoise: Tous le garçons et le filles. Copertina simpaticamente semplice, con graziosa foto in consonanza col filmato che reclamizza il televisione il 45 giri: la Nostra e altre fanciulle, infagottate in orrendi tabarri marroni, gironzolano in un luna park, mentre mademoiselle intona mestamente il suo inno. Di tutt'altro tono “J'suis d'accord”, altro pezzo forte per il mercato, nel quale la Hardy si lancia in un raglio alla Rita Pavone. Il tocco di classe è la struggente ballata “Le temps de l'amour”, con musica scritta da Jacques Dutronc, il futuro marito della malinconica parigina.
Dall'album sono estratti quattro Ep.

L'anno successivo viene mandato alle stampe un altro album, stravenduto in mezzo mondo: Le premier bonheur du jour, con sugli scudi il brano eponimo (presto ricantato dalla stessa Hardy in italiano come “Il saluto del mattino”), autentico manifesto dell'arte di Nostra Signora della Canzone, una canzone dolcissima in cui Françoise usa al meglio la voce, un exploit spesso replicato ma eguagliato forse solo con “Des ronds dans l'eau”.

Del 1963 è anche il primo ruolo nella (non fittissima) carriera cinematografica della Nostra: carriera che inizia male. L'immediato successo della fascinosa ragazza yé-yé viene sfruttato per aumentare il richiamo sul pubblico di “Castello in Svezia”, bolsa commedia di Françoise Sagan, diretta da un altro rivoluzionario da salotto, Roger Vadim.
Si dice che quando gli attori si divertono, al pubblico non succede lo stesso. Qui si divertono solo la Sagan e Vadim, assai compiaciuti della propria arguzia; ma, se persino Jean-Louis Trintignant ha l'aria smarrita, né il cast (che pure annovera Monica Vitti, Curd Jürgens e Jean-Claude Brialy) né gli spettatori hanno grandi speranze di beneficiare dell'estro degli autori. La debuttante Hardy ricorderà il set come particolarmente infelice, per la mancanza di coesione e di entusiasmo fra compagni di cast, oltre che per la mancanza di empatia con Vadim. Qui la cantante interpreta, con una convinzione comunque rimarchevole, Ophélie, donna rimasta bambina ma affatto innocente.

Françoise HardyArriva subito dopo Mon amie la rose, con la sua pletora di cavalli di battaglia. La marcetta (efficace ma non elegantissima) “Je veux qu'il revienne” (con un fonema, “on-on-on-on”, a rimarcare il refrain, soluzione quasi geniale nella sua balordaggine) è seguita da una serie di buoni brani riempitivi (aperti benissimo da “Tu n'as qu'un mot a dire”), dopo i quali arriva la parte forte. “La nuit est sur la ville”, elegia di un bidone lanciatole da un mascalzone, con climax nel triplice grido “Pourquoi, pourquoi, pourquoi?”; “Dans le monde entier”, micidiale elegia nel miglior stile della Nostra (“Que m'importe alors de savoir plus ou moins / Si d'autres cette nuit s'aiment ou bien ont du chagrin / Si d'autres se déchirent ou se rejoignent enfin/ Rien n'a d'importance sinon que tu es loin / Et que cette nuit, de toi, je ne sais rien”). Disco concluso da “Mon amie la rose”, macabra vetta poetica nella produzione hardyana (ma scritta due anni prima da Cécile Caulier, allieva del conservatorio in cerca di interpreti). Impressionante uno dei filmati promozionali, con primissimi piani di una Françoise stregonesca alternati a raffigurazioni, appunto, di danze macabre.

È il momento della consacrazione, in Italia anche più che in Francia. La Hardy è assunta quale punto di riferimento dello scenario pop italiano, che la osanna, un poco provincialmente, in virtù soprattutto del successo internazionale. Partecipa a trasmissioni televisive (il momento più noto è uno sketch con Giorgio Gaber e Caterina Caselli, che estemporaneamente fondano la band "I cani"), realizza filmati promozionali delle sue canzoni in italiano per la Rai, incontra Rita Pavone e Gianni Morandi, le sue canzoni sono cantate da Little Tony. Partecipa al Cantagiro, alla guida di una Spider la cui potenza la terrorizza.
La sua carriera attraversa una fase schizofrenica: se in Francia e nei paesi di lingua inglese è una cantante leggera ma sofisticata, una nuova Juliette Greco, in Italia è oggetto di un culto più sempliciotto, lo stesso dei cantanti italiani succitati, seppure col timore reverenziale che le è dovuto, in quanto star mondiale e più "autorevole"; un culto esercitato con trasmissioni televisive, copertine di riviste che ospitano anche articoli su padre Pio, sugli Ufo e sulle dinastie regali, di articoli di giornale sul suo taglio di capelli e su come vestirsi come lei spendendo poco. Questo la porta in parte a ridimensionarsi: da una parte si immedesima nel suo ruolo di canzonettara ingenua (ma l'etichetta di "ragazza yé-yé" non è del tutto coerente), dall'altra si compiace dell'investitura internazionale a icona pop di buon stile.

Françoise HardyInfatti al cinema riceve l'onore di due cameo raffinati: in “Ciao, Pussycat” di Clive Donner è la segretaria che manda in confusione il satiriasico Peter O'Toole, ne “Il maschio e la femmina” di Godard è la compagna di un militare. È poi chiamata nella parata di star (Eva Marie Saint, Adolfo Celi, Toshiro Mifune, James Garner) del cast di “Grand Prix”, fluviale omaggio al mondo della Formula 1 diretto da John Frankenheimer, del quale Françoise si infatua. La partecipazione a questo film è il trascorso cinematografico di cui parla più volentieri, grazie all'amicizia che stringe col doppiamente collega e quasi connazionale Yves Montand.
Smessi i panni dell'adolescente sui generis, rivendica uno status di vedette adulta – e carnale (nonostante lo choc per essere stata molestata in un club di Tunisi). Mesi dopo aver dichiarato che non avrebbe mai indossato nulla di Paco Rabanne, contrariata dal lusso eccessivo, accetta un lauto compenso per sfilare col famosissimo (e pesantissimo) vestito di placche d'oro della medesima maison, scortata da gendarmi. La gallina dai gettoni d'oro sta covando un nuovo personaggio, tenuto da parte perché la veste precedente è ancora comoda e redditizia – vecchi o nuovi, i vestiti rendono, così è fotografata in continuazione in reportage per riviste di moda.

Il filotto di successi prosegue con L'amitié, con carezzevole e struggente singolo eponimo, e La maison où j'ai grandi, che mutua il titolo dalla versione francese de “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano (l'altra super-hit italiana adattata in questo album è “Se telefonando”, trasformata in “Je changerai d'avis”). Anche i 33 giri di canzoni non estratte da album dominano il mercato: su tutte svetta la dolcezza disarmante della marcetta “Des bottes rouges de Russie” (“J'arriverai par le vapeur/ Tu me reconnaîtras, mon cœur/ J'aurai sous mon manteau de pluie/ Des bottes rouges de Russie”).

Françoise HardyLa popolarità della Hardy diventa mondiale: per sfruttarla appieno, le si fanno cantare dei 45 giri in varie lingue; particolarmente successo avranno le tante versioni di canzoni in italiano (“Le premier bonheur du jour” diventa “Il saluto del mattino”; assai meno fedelmente, “Comment te dire adieu” diviene “Il pretesto” – “Non voglio un pretesto per pietà/ Tu sai che detesto la slealtà”) e in tedesco “Träume”.
Ma la lingua dominante del mercato della musica leggera è l'inglese, per la quale si ricorre così ad appositi 33 giri: si inizia con Françoise Hardy In English, seguiranno Françoise Hardy en anglais (dalla copertina famosa) e If You Listen.
Lp riassunti nel 2013 dalla raccolta Midnight Blues: Paris/London 1968-'72, che oltre alla brillante title track annovera ottimi brani: “Song Of Winter”, “Magic Horse”, “Strange Shadows”, “All Because Of You” (che canterà alla Bbc, fra stecche agghiaccianti dovute alla timidezza), ancora la “Suzanne” di Leonard Cohen; il punto forte è forse la malìa di “Ocean”, quando una Françoise assai inquietante sospira d'essere paradossalmente rasserenata dal poter sparire, con la propria solitudine, nella vastità del mare (“Let the wind blow through my hair/ A speck of dust standing there/ Yes, I saw the ocean, said of it/ Nothing's bigger than this/ Really need a, really need a friend/ Oh, let the sea my troubles mend”).

La fase "canzonettara" quasi volge al termine, ma alla grande. Nel 1967 arriva un altro ammiccamento al giovanilismo (che non convince la Hardy, cui resta cara la propria immagine di ragazza adattata a malapena alla propria generazione): Ma jeunesse fout le camp, con evidente rimando al disco d'esordio. Stavolta però c'è molta più eleganza. I cinque brani che seguono la title track sono monocordi (anche se li apre la soave “Viens là”, quindi è lecito pazientare), ma subito dopo di loro arriva una canzone epocale. “Des ronds dans l'eau” (già cantata da Annie Girardot in un film di Claude Lelouch, “Vivere per vivere”; la Hardy pubblicherà poi anche la stessa versione inglese della colonna sonora, “Now You Want To Be Loved”), delicatissima quanto solenne ballata, che dal tono tenue della voce e un arioso accompagnamento d'archi fa affiorare la disperazione di un testo elegiaco e funesto, persino per essere cantato (l'ha scritto Pierre Barouh) da Françoise Hardy: “S'il y a tous ces témoins/ que tu veux dans ton dos/ dis-toi qu'ils pourraient bien/ devant tes ronds dans l'eau/ te prendre pour l'idiot/ l'idiot de ton village/ qui lui est resté là/ pour faire des ronds dans l'eau”).
Segue una lamentosissima resa di una poesia di Louis Aragon, già musicata da Georges Brassens: “Il n'y a pas d'amour heureux”, che la Hardy inserirà anche nell'album successivo (anche se non l'ha scritta lei, sembra il suo motto). Quasi in chiusura, l'altro pezzo forte: “Voilà”, il brano più genuinamente energico (non si tenga conto di qualche approccio rock in canzoni dall'arrangiamento aggressivo ma dal risultato poco convincente) e dinamico (in forza sia dell'intro più trascinante del repertorio, che di cambi di ritmo ben congegnati e di un refrain travolgente). L'invettiva centrale la rende l'espressione più piena e semplice dei sentimenti della fanciulla parigina: “Je suis là, devant toi, toujours la même/ Oh! Pourquoi est-ce encore toi que j'aime/ Que j'aime, que j'aime, que j'aime/ Tu es là, devant moi, toujours le même/ Oh! Pourquoi ne puis-je pas te dire:/ Je t'aime, je t'aime, je t'aime”.

Françoise HardyL'anno dopo arriva Comment te dire adieu, un altro disco pivotale nella carriera di Françoise Hardy. In apertura, quello che diverrà poi un classico della canzone pop (cantata fra gli altri da Jane Birkin, Amanda Lear, Jimmy Sommerville, Belle and Sebastian): la canzone che dà il titolo al disco, con il sapido testo di Serge Gainsbourg costruito sulle rime in -ex (“sous aucun prétexte/ je ne veux/ avoir de réflexes/ malheureux/ il faut que tu m'ex-/ pliques un peu mieux/ comment te dire adieu/ mon coeur de silex/ vite prend feu/ ton coeur de pyrex/ résiste au feu/ je suis bien perplexe/ je ne veux/ me résoudre aux adieux”).
A un riempitivo di qualità come “Où va la chance” segue ancora una canzone di Gainsbourg, stavolta una cover: l'elegantissima resa di “L'anamour” (“aucun Bœing sur mon transit/ aucun bateau sur mon transat/ je cherche en vain la porte exacte/ je cherche en vain le mot exit/ je chante pour les transistors/ ce récit de l'étrange histoire/ de tes anamours transitoires/ de Belle au Bois Dormant qui dort”), con arrembante intro al piano e deliziosa resa vocale. Quindi un'altra ottima cover: la stregante versione francese della “Suzanne” di Leonard Cohen (interpretata anche in italiano, da Fabrizio De André). Il resto del disco, a partire dalla riproposizione di “Il n'y a pas d'amour heureux”, non riserva emozioni: ma la quaterna d'apertura basta a rendere questo album una parte fondamentale della discografia di Françoise.

Vende a vagonate l'ultimo album della prima fase della carriera della Hardy: pur pubblicato nel 1970, Soleil è un disco degli anni 60. A parte la chitarronata della title track (e la balzana idea di promuoverne il 45 giri facendosi filmare nella Milano invernale), cui pure la Hardy si legherà inserendola in antologie e ribadendola in duetto, il momento forte è “Je fais des puzzles” (che in inglese diventerà, chissà perché, “Magic Horse”: da “il avait des façons Londres/ de me promettre Corfou/ mais au soleil ou à l'ombre/ je le suivais n'importe où/ le soir, le soir, je fais des puzzles/ le soir, le soir, je me sens bien seule” a “In the crying wind I hear you calling me from way up high/ Magic horse fly to the sunshine, take me there before I die/ Higher, higher, higher in the sky, faster, faster, faster we must fly”).

Françoise HardyArriva l'anno dopo La Question, l'album più completo, la cesura nella discografia hardyana, inizio dei sommessamente deliranti anni 70 di Françoise Hardy: il solo fra i 33 giri della cantante francese a restare più noto dei brani estratti, in virtù anche dell'iconica copertina, con foto in bianco e nero scattata dall'amica Catherine Ruotolo.
Il primo album "serio", l'inizio della svolta: dalle canzonette agli psicodrammi – svolta che avrà qui il proprio momento migliore. L'atmosfera è, come indica la suddetta foto, cupa, scabra, inquieta. Gran parte dell'impresa è dovuta a Tuca (nome d'arte di Valeniza Zagni da Silva), cantautrice brasiliana, fuggita dal proprio paese in quanto perseguitata politica (e omosessuale), che conquisterà la collega francese con chitarra e melodie (l'infatuazione di Tuca per la graziosa Françoise non gioverà a una malinconia che la porterà a seguire una dieta tanto drastica da esserle fatale, nel '78, a soli 34 anni).
L'inizio è ansiogeno: “Viens”, una dichiarazione di guerra (“comme une bombe exploser/ je n'ai jamais laissé passer/ une guerre sans y entrer” – riappare il leggendario on on on di “Je veux qu'il revienne!”) a un amato sempre più lontano, canzone tesa ai limiti della sopportazione, nella quale rintocchi di basso sono seguiti da una breve, furente sviolinata; dopo alcuni accordi di chitarra illusoriamente calmi, arriva la voce in continua accelerazione di una mademoiselle Hardy inedita. Segue la title track, dal ritmo blando ma dall'atmosfera ancora più tesa e dal testo ancora disperatamente rassegnato (“de ta distance à la mienne/ on se perd bien trop souvent/ et chercher à te comprendre/ c'est courir après le vent/ je ne sais pas pourquoi je reste/ dans une mer où je me noie/ je ne sais pas pourquoi je reste/ dans un air qui m'étouffera/ tu es le sang de ma blessure/ tu es le feu de ma brûlure/ tu es ma question sans réponse/ mon cri muet et mon silence”). “Même sous la pluie” farebbe pensare a un ritorno alle ballate più tradizionali, non fosse per il tono ancora esasperato, resa sincopata di un'altra dichiarazione d'amore disperato.
Arriva un'altra sorpresa, più audace ma meno gradevole: “Chanson d'O”, sequenza di mugolii su base strumentale con effetti sonori da b-movie di fantascienza. Il disco registra poi un'impennata con “Le Martien”, stralunata fantasia che evoca uno spasimante extraterrestre, arrivato fin quaggiù per chiedere la mano della graziosa chanteuse. Arriva quindi un autentico ritorno alla tradizione della chanson francese, “Mer”. Poi uno dei saggi migliori della malinconia à-la Hardy: “Oui, Je Dis Adieu”.

La pubblicazione de La Question è seguita da quella di Et si je m'en vais avant toi, che per quanto diverso ne è considerato un fratello minore: è infatti un disco di alleggerimento, per riavvicinare un pubblico più ampio (eppure il precedente ha venduto parecchio). Il disco si fa notare di meno, è più convenzionale, ma comunque di gran qualità, fra trascinanti malinconie come “Le soir”, un sospirato omaggio a Emil Cioran (“Cafard”), impennate (“Où est-il, Prisons”), rivendicazioni ironiche ma non troppo della propria, in seguito magnificata, spiritualità (“Ma vie intérieure”), sino a un ritorno alle canzoni da ragazzina (la title track). Pur se in tono dimesso, uno dei momenti migliori della discografia di mademoiselle Hardy.

Françoise HardyMessage personnel, pur uscendo solo un anno dopo Et si je m'en vais avant toi, è il suo album più costruito, nel tentativo di tornare al tono serio di La question e superarne la perizia tecnica. Un album assai buono, con motivi di interesse ben più validi del precedente, ma poco intenso.
L'avvio è delicatissimo, “Première rencontre”; segue un ritorno molto carino ad atmosfere gioiose, “Rêver le nez en l'air”. Poi “L'amour en privé”, di Gainsbourg, con una gagliarda e sacrosanta invocazione (“L'amour c'est ce qu'on peut faire de mieux, alors pourquoi s'en priver?”) seguita da un ritornello greve, con i soliti sospiri su violini concitati. Subito dopo il colpo magistrale: “Berceuse”, la classicissima ninna nanna, cantata con magnifico trasporto. La concentrazione poi cala, arriva giusto un duetto semi-parlato con Georges Moustaki, “L'habitude”, botta-e-risposta in una coppia immaginaria senza più slancio, ispirato a “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman (uscito lo stesso anno).
Quindi arriva la title track. Messaggio lasciato su di una segreteria telefonica: prima parte telefonata, seconda cantata. Lo stile è quello dei brani più atroci di Domenico Modugno, “Piange il telefono” o “Il maestro di violino”, ma senza la verve demenziale di questi. Comunque sublime: imbarazzante e irrestibile, insopportabile e trascinante.

Nel 1974, un parziale passo indietro: Entr'acte, col quale la vena confidenziale della Hardy giunge al parossismo. La nascita del figlio ha ricongiunto lei e Dutronc, ma Françoise intende spaventare (anche a mezzo stampa) il compagno per tenerselo stretto. Riunisce così un team (tra cui proprio Dutronc, per “Fin d'apres-midi”, il brano conclusivo) che metta in musica dei testi, direttamente indirizzati al farfallone, tenuti da anni nel cassetto.
È così assemblato il solo concept-album della cantante parigina, nonché il solo in cui si concentri sulla propria intimità – già sbandierata in tante interviste. Immagina di vagare, la notte, in cerca di compagnia maschile. Apertura aggressiva e un poco cafona con “Ce soir”, qualche alto e basso fino alla invocazione dal tono epico (sembra quasi il Franco Battiato che nel decennio successivo giocherà fra la canzone d'amore tradizionale e l'inno mistico con “E ti vengo a cercare”) “Je te cherche”. Alcune edizioni sono chiuse da “Que vas-tu faire?” (arrangiata da Jean-Michel Jarre), celentanesca perorazione sulla bruttezza di un mondo dominato dalla violenza e dall'odio; avrà poi il buon gusto di non ergersi più a profetessa di ovvietà.

Françoise HardyGli anni 70 potrebbero finire con la Hardy, seppur rappresentante di un mondo canzonettaro fuori moda, ancora nome di prima grandezza. Nel 1977 infatti pubblica con la Emi Star, un album molto buono, degno di chiudere la trafila iniziata con La question (che pure, resta vari gradini sopra).
Tralasciando il molesto stranguglione che è la title track, 7 minuti (il brano più lungo della sua carriera – quanto sarebbe gradito se altre sue canzoni durassero tanto) trascorsi a lamentarsi del perché lo stesso pubblico che l'adora per le canzoni non si interessa della sua persona (per questo provvede lei a informare il mondo), i brani sono ottimi e l'atmosfera affascinante, complice il ritratto della copertina.
“Chanson sur toi et nous” è la canzone d'amore ideale, semplicissima e lancinante. Passato il divertissement di “Enregistrement” (da Gainsbourg), c'è un'altra ottima variazione sul tema della canzone classica: “Flashbacks”. Poi la stessa idea ripetuta due volte: gli incipit enfatici e i ritornelli ansiosi di “Je ne suis que moi” e “Drôle de fête”. Aperto il disco con una lagna, lo si chiude con un'altra: “Fatiguée”, ma è giusto un breve congedo che non può guastare il risultato finale di quello che, giusto sotto La question, Mon amie la rose e Ma jeunesse fout le camp si avvicina al podio dei migliori dischi di Françoise Hardy.
I discografici però decidono che non sarà così: Star si comporta benino con le vendite, ma come non ha l'importanza storica de La Question, non ne ha l'impatto sul mercato.

La suddetta Emi perciò la affida alle cure di Gabriel Yared e Michel Jonasz. Ormai declassata da cantautrice a cantante, la Hardy si rassegna a una tanto breve quanto interminabile di rassegna di album quasi comici, all'insegna di un certo humour francese (che è gelido come quello inglese, ma meno composto e soprattutto efficace). Lei stessa afferma dopo poco di essere più propensa alle “belle canzoni lente con sottofondo di archi: non amo che le canzoni tristi”; ma il modello dichiarato dei suoi nuovi tutori è Stevie Wonder, non proprio un piagnone.
Il nuovo corso è inaugurato da una delle immagini più affascinanti della sua carriera, ossia il videoclip di “J'écoute de la musique saoule”, nel quale la Hardy, dalla figura più esile che mai, balla (per quanto almeno la consueta rigidità glielo consenta) su di un opprimente sfondo blu. Il problema però è proprio la canzone: “J'écoute de la musique saoule” è una dichiarazione d'intenti tanto vana quanto poco appropriata alla Hardy ascoltatrice. Se la Hardy non è mai stata emotiva, il disagio per la nuova linea impostole dalla casa discografica è debordante: ben lo si vede da altri filmati promozionali, nei quali la ricerca del dinamismo è tanto forzata da finire col far risaltare la semi-immobilità della cantante.
Quello che si apre è un mini-periodo all'insegna della simulazione d'una nuova identità, all'opposto di quella vera della Hardy: la convivenza fra queste due anime, unita all'insipienza delle canzoni, porterà a una tripletta di album sotto il segno delle mezze misure.

Seguiranno Gin Tonic, che non offre nulla più che una “Jazzy Retro Satanas” grondante indecisione, il solito umorismo da teatro di rivista (“Si c'est vraiment vraiment vrai” e “Sole comme une pomme”), nonché nuove avvisaglie della tendenza patetica che tornerà atrocemente nella Hardy dolente più "matura" (“Que tu m'enterres”) e in copertine tenebrose.

Françoise HardySegue, manco a farlo apposta, À suivre, con altre lepidezze (“Vouyou Voyou”) e qualche malinconia di grana grossa (“Villégiature”), al centro di esibizioni televisive sempre più frequenti e svogliate (il peggio sarà un duetto televisivo col marito: entrambi volutamente sottotono e fuori ritmo, con l'orchestra che sbaglia di proposito e giù risolini, che arguzia, che gag, neanche il concerto viennese di Capodanno…).
À suivre non è che la colonna sonora del tanto agognato matrimonio con Dutronc, celebrato in Corsica con rito civile, fra privatezza della cerimonia e ostentazione del lieto evento (e di foto con lo sposo stravaccato e ghignante davanti al sindaco).
Si festeggia così il coronamento del sogno della dolce Françoise infestando l'estate francese con la leziosa filastrocca “Tamalou” (ossia "T'as mal où?", un gioco di parole che nemmeno, anni dopo, la Chrissie Hynde di “The Isle Of View”).

Il pubblico francese, contento di farsi infliggere le vicende private della neo-madame Hardy, fa balzare in cima alla hit parade questa filastrocca (in pieno sincronia con Gianni Morandi che proprio allora precipitava, con “Sei forte papà!” e “La befana trullallà”, in un periodo di affanno accostabile a quello della collega transalpina).
Pur vendendo come nemmeno ai tempi del Cantagiro, la Hardy giunge a un punto di rottura. Le manca il pathos, anche atroce, degli album di poco precedenti: ad aumentare il rimpianto, c'è il fallimento della svolta allegra, che non l'ha divertita. La Hardy comica non funziona, tantomeno se frenata.
La tensione di album quali La Question era accompagnata a una ispirazione e una qualità ormai smarrite. Il ritorno alla serietà riporterà sì questa Grande Dame della canzone francese al registro che le è più proprio, ma brani del livello di “La Nuit est sur la Ville”, di “Viens”, di “Chansons Sur Toi Et Nous”, di “Message Personnel” non capiteranno più.

Il punto di rottura la porta a liberarsi della propria immagine. In due modi: accorciando vistosamente la lunghissima chioma e rinnegando (ancora) la propria natura di ragazza timida.
Pubblica Quelqu'un qui s'en va, altro titolo che è una dichiarazione di intenti. Rapporti abbandonati, se non dipartite: ricordi di figure da un passato in macerie. È il 1982, Françoise Hardy ha 38 anni e già si atteggia a donna in età avanzata che fa la retrospettiva di una vita travagliata.
Il tentativo è ben condotto, arriva anche un videoclip piuttosto costruito per “Tirez pas sur l'ambulance”. Ancora non si può fare a meno degli episodi comici, sempre senza provare a essere divertenti: così ci si trova propinata “Un deux trois chat”.

La pausa è necessaria. Françoise Hardy è donna dai vari interessi e dai vari talenti: perché sprecare tempo in studio e produrre album mediocri? Decide di passare la metà del decennio occupandosi di astrologia. Scrive manuali, presenzia costantemente a una trasmissione radiofonica, ingaggia risse furibonde in televisione (volano parole tremende fra lei e una cartomante, poi riconosciuta truffatrice su scala nazionale). Non è contenta della sua occupazione alternativa, così dopo sei anni riprova con le canzoni.

Françoise HardyNel 1988 esce Décalages, la cui sola riuscita sta nel palesare la schizofrenia da cui la sua produzione discografica pare ormai inguaribile. Ancora humour da oratorio (“Sieste”; “Une misse s'imisce”), lamentele ormai tipiche del personaggio e interrogativi non profondissimi (“Je suis de trop ici”; “La vrai vie c'est où”). In mezzo, una hit clamorosamente imbroccata: “Partir quand même”, che col suo andamento melò non è proprio il brano più sobrio della Nostra.
L'ingresso in classifica di “Partir quand même” non è un motivo bastante per tornare nei negozi di dischi; almeno non prima di otto anni.
Danger, con la sua copertina fiammante e il suo titolo facile e minaccioso, si materializza nel 1996. Non se ne accorge quasi nessuno, forse perché è dignitoso, nonostante l'evocazione di un maledettismo che non c'è. Citati e ringraziati gli ispiratori, Luis Buñuel e Marguerite Duras.

In silenzio, Madame Hardy torna a far girare gli ingranaggi: tanto che la pausa successiva dura solo quattro anni. La pausa più "breve" finisce per essere quella più prolifica.
Clair obscur esce nel 2000, forte di una cover di “Tears” di Django Reinhardt (“Tous mes souvenirs me tuent”), un duetto con Iggy Pop (“I'll Be Seeing You”), un intervento di Eric Clapton (“Contre vent et marées”), un duetto col marito, da cui l'ex-fidanzatino Jean-Marie Périer trae un clip (“Puisque vous partez en voyage”).
Fanno più effetto i nomi che non il disco, che però è un segnale. Il nuovo millenio vede la Françoise Hardy lanciata su di un percorso fatto di album non epocali, ma almeno dignitosi; avendo un passato fatto non solo dei cinque imbarazzanti album pubblicati fra il 1978 e il 1988, ma anche di due decenni, gli anni 60 e 70, trascorsi a dettar legge nella scena pop, se lo può permettere.

Un altro silenzio di tre anni è interrotto nel 2003 dalla pubblicazione di una raccolta: Messages personnels, non proprio un greatest hits, dato che delle venti tracce la quasi title track è uno dei pochi 45 giri. Madame Hardy rivendica la scelta dei brani con una piccatissima nota nel booklet – di questo, la parte migliore è l'immagine di copertina, foto virata al blu di una espressione stregata e stregante della bella chanteuse.

L'anno successivo, un album di inediti: Tant de belles choses, più che giustificato dall'elegantissima title track, nonostante una parte di chitarra elettrica invadente (un rischio, data la timidezza vocale della Nostra). Canzone adattata nel 2014 da Franco Battiato per Alice, che ha bene risposto allo stile della collega francese.

Françoise HardyNel 2006 arriva l'operazione Hardy & Friends: Parenthèses, parata di duetti dall'esito sconfortante.
Partenza fievole, assieme ad Alain Bashung, su di un classicone quale “Que-reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet. Sugli scudi stanno le stucchevoli grida di Ben Christophers nella sua “My Beautiful Demon”, i karaoke assieme a un Julio Iglesias dal tono particolarmente turgido (“Partir quand même...”) e Alain Souchon (“Soleil”), i balbettii catarrosi di Alain Delon (“Modern Style”).
Appena curioso il solo brano che la Hardy canta da sola, “La Valse des regrets”, da un valzer di Johannes Brahms (che già Georges Guétary cantava), con l'amica Hélène Grimaud al piano.

Passano quattro anni e basta un album appena ordinario basta a colmare le lacune del precedente disastro: La pluie sans parapluie, scritto e inciso in oltre un anno, con un team di collaboratori che coinvolge tanti nomi minori della canzone francese del Duemila e Mark Plati, dalla ducale corte di David Bowie (Plati avrebbe dovuto essere il produttore dell'album, ma avendo scritto le partiture di sette canzoni in due giorni, viene licenziato con l'accusa di negligenza; sarà conservato il suo basso su Champ d'honneur, rendendo il titolo involontariamente ironico).
Il disco vende più del solito, grazie al pubblico delle piccole star coinvolte: ma l'emozione è sempre latitante.

Nel 2013 esce L'amour fou, tanto pubblicizzato quanto privo di slanci o sorprese. La voce è divenuta un garrulo lamento, mentre eleganti ma statici filmati in bianco e nero dallo studio di registrazione accompagnano le canzoni.
Il disco è l'appendice alla reinvenzione di Madame in veste di romanziera: col medesimo (banalissimo) titolo, uscito in traduzione italiana poco dopo la pubblicazione della versione originale, pubblica la sua prima prova narrativa, ribadendo la vocazione autobiografica. Un monologo che esaspera la tendenza confessionale della Hardy (che se prima si limitava a lamentarsi, ora è anche rancorosa): trattasi di una tediosa, scorretta, atroce invettiva contro il marito e le sue amanti, senza fare nomi ma non lesinando gli insulti.

Françoise HardyLa fine della carriera, tante volte paventata, sembra ormai imminente. Françoise Hardy è una star sempre più inerte e vittima di se stessa, rinchiusa nel compiacimento per i suoi stessi drammi.
Coi dischi ha smesso da parecchio di dire qualcosa, i film le hanno dato poco, da astrologa si è impegnata ma non ne ha fatto una vocazione totale, i suoi libri sono brutti. Intervistata, parla solo di stanchezza, dell'invincibile tristezza che le ha dato il marito e di guai fisici (fra cui un tumore benigno). Suscita scalpore e fastidio una sua lettera ai giornali, in cui definisce intollerabili e violente le super-tasse per super-ricchi del governo Hollande.
Le fa un regalo Katie Melua, che con una dolce cover di “All Over The World” offre a Paris Match l'idea d'intervistare assieme le cantanti, con tanto di foto in cui Madame, sempre più esile, finalmente sorride.

In tempi di volgarità mediatica costernante, è consolante il recupero di alcune vedette dei bei tempi andati – anche se a poco ciò porta. In giorni di twerking e tristezze assortite, si recupera Audrey Hepburn: la si recupera su internet, la si riproduce su borsette e accessori, ma almeno ci si accorge che un certo stile è esistito. Lo stile di altre star recuperate solo per questioni d'immagine – ma almeno, sono belle immagini: Grace Kelly, o Romy Schneider.
Stessa sorte per una cantante francese che impazzava negli anni 60, quando la televisione proponeva canzonette e non reality show. Internet, lo stesso strumento che favorisce il dilagare di Miley Cyrus e Lady Gaga, pullula di immagini della spilungona che fece sognare David Bowie e fece rimpiangere a Bob Dylan di non esser riuscito a spiccicare parola, trovandosela di fronte – trovò le parole troppo tardi, e si consolò appiccicandole sul retro di “Another Side”.
Malinconica e rassegnata, Françoise Hardy è oggetto di un fiorente revival. La scena in cui i due piccoli protagonisti di “Moonrise Kingdom” ballano sulle note di “Les temps de l'amour” (dopo che la graziosa Suzy ha presentato a Sam il disco d'esordio della Hardy come il suo preferito) è diventata un cult; il connazionale François Ozon ha scandito un suo film, “Giovane e bella”, su quattro sue canzoni; Alice ha lanciato l'album “Weekend” con “Tante belle cose”, adattamento italiano di “Tant de belles choses” realizzato da Franco Battiato.
Mon amie la rose si lamenta, ma non appassisce.

On est bien peu de chose
Et mon amie la rose
Me l'a dit ce matin
A l'aurore je suis née
Baptisée de rosée
Je me suis épanouie
Heureuse et amoureuse
Aux rayons du soleil
Me suis fermée la nuit
Me suis réveillée vieille

Pourtant j'étais très belle
Oui j'étais la plus belle
Des fleurs de ton jardin

Bibliografia consigliata:
Françoise Hardy - Le despoir des singes et autres bagatelles
Catherine Rotulo, Françoise Hardy - Ses plus belles années
Françoise Hardy - L'amore folle

Françoise Hardy

Discografia

Tous le garçons et le filles (Vogue, 1962)
Le premier bonheur du jour (Vogue, 1963)
Mon amie la rose (Vogue, 1964)
L'amitié (Vogue, 1965)
Françoise Hardy Sings in English (Vogue, 1966)
La maison ou j'ai grandi (Vogue, 1966)
Ma jeunesse fout le camp... (Vogue, 1967)
Comment te dire adieu? (Vogue, 1968)
En Anglais (United Artists, 1969)
Soleil (Sonopresse, 1970)
La Question (Sonopresse, 1971)
Et si je m'en vais avant toi (Sonopresse, 1972)
If You Listen (Kundalini, 1972)
Message Personnel (Warner Bros./WEA, 1973)
“Entr'acte” (WEA, 1974)
Star (Pathé Marconi/EMI, 1977)
Musique saoule (EMI, 1978)
Gin Tonic (Pathé Marconi/EMI, 1980)
À suivre... (WEA, 1981)
Quelqu'un qui s'en va (WEA, 1982)
Décalages (WEA, 1988)
Le Danger (Virgin, 1996)
Clair-obscur (Virgin, 2000)
Messages personnels (antologia, Virgin, 2002)
Tant de belles choses (Virgin/EMI, 2004)
(Parenthèses...) (Virgin/EMI, 2006)
La pluie sans parapluie (Virgin/EMI, 2010)
L'amour fou (Virgin/EMI, 2012)
Pietra miliare
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