21/09/2015

Sufjan Stevens

Teatro della Luna, Assago (Milano)


Attraverso il fuoco. Nella bocca del vulcano. Bruciare, risorgere.

Tra le fiamme di “Vesuvius”, il grido suona come il coro di una tragedia: “Sufjan, follow your heart/ Follow the flame or fall on the floor”. E di quel coro, ognuno si ritrova silenziosamente a far parte.

È tutto qui, il senso della sfida di Sufjan Stevens: immergersi nella fornace, guardare in faccia quello da cui vorresti fuggire. La realtà che brucia, che ferisce, che fa sanguinare. La realtà che accomuna la vita di tutti.

Per portare in scena nella sua interezza un disco dolorosamente personale come “Carrie & Lowell”, non poteva esserci altra strada che questa: l’intensità di una compartecipazione assoluta. Una platea che trattiene il respiro ad ogni nota, che condivide ogni confessione.

Il palco del Teatro della Luna di Assago, il palco abituale dei musical milanesi, per una sera si trasforma così in qualcosa di completamente diverso: la cornice di una sorta di oratorio laico, una celebrazione collettiva del mistero della vita e della morte.

L’introduzione tocca ai gorgheggi della cantautrice canadese Basia Bulat, che offre un perfetto antipasto in chiave folk tra ukulele e autoharp, con tanto di omaggio al maestro Leonard Cohen attraverso la rilettura della sua “Ain’t No Cure For Love”.

Poi, il profilo di Sufjan Stevens si staglia al pianoforte, nel rosseggiare delle luci di un’alba che rischiara lentamente la scena. Le note di “Redford (For Yia-Yia & Pappou)” cominciano a galleggiare a mezz’aria, ripescando dalle pieghe di “Michigan” un’ouverture che va a sfociare direttamente nell’arpeggio di “Death With Dignity”.

Ha il sapore dei sussurri di Elliott Smith, l’invocazione di Stevens allo spirito del silenzio. Alle sue spalle, i pannelli verticali che fanno da scenografia si animano come vetrate di una cattedrale: riflettono memorie, paesaggi, colori. Le immagini sgranate dell’infanzia trascolorano in un lento infrangersi di onde sulla riva, mentre il crescendo di “Should Have Known Better” si fa più maestoso che mai, accompagnato dalla gestualità stralunata di Sufjan.

 

Non c’è spazio per tute fosforescenti o ali d’angelo, stavolta. Solo una maglietta scura, solo la forza comunicativa della musica. Accanto a lui, un quartetto di compagni d’avventura (tra cui la menzione d’onore va alla cantautrice Dawn Landes) contribuisce a caricare di nuove sfumature i brani di “Carrie & Lowell”, rafforzando i contorni con trame di tastiere e batteria.

Ma quando Sufjan si mostra più esile, più solitario, più indifeso, il cuore di tutti resta impigliato nella gola, dalle ascendenze Simon & Garfunkel di “Eugene” fino a una rarefatta “No Shade In The Shadow Of The Cross”, con la nudità scoperta del suo “Fuck me, I’m falling apart”.


Sufjan Stevens

Il gioco delle luci ideato da Marc Janowitz (già al fianco di gruppi come My Morning Jacket e Decemberists) è la chiave che permette alle canzoni del songwriter americano di farsi strada ancora più a fondo: ora è un faro che avvolge Stevens di un’aura quasi mistica, ora sono le tinte sanguigne di “Drawn To The Blood”, ora è l’arcobaleno che si riflette sul passo liturgico di “John My Beloved”.

I brani sfumano uno nell’altro, sospesi in intermezzi fluttuanti che lasciano all’emozione lo spazio di penetrare nell’intimo. “Signs and wonders”, canta Stevens sullo sfondo di un canyon roccioso in “The Only Thing”: sono le uniche cose che permettono di non arrendersi all’angoscia. L’immensità del cielo, Pegaso e Perseo, l’allineamento delle costellazioni. L’insostenibile bellezza della realtà, evocata dai panorami che scorrono sugli schermi, di fronte all’insostenibile strappo della mortalità.

 

Ed ecco un vapore di tastiere avvolgere il pianoforte di “Fourth Of July” come un inno sognato da Vangelis, un lied post-moderno che viene sferzato da improvvise folate sintetiche. “We’re all gonna die”: il monito cresce sull’incedere marziale della batteria, fino a diventare un grido universale.

La vena cantautorale di “Carrie & Lowell” si coniuga con l’anima elettronica di “The Age Of Adz” in un nuovo equilibrio, che conferisce a “All Of Me Wants All Of You” il ritmo plastico di una ballata electro. Stevens si alterna tra chitarra, pianoforte e laptop, facendosi prendere la mano solo in un paio di occasioni dal vezzo dell’autoindulgenza: è il caso della deriva rumoristica di “Vesuvius” (con epilogo bucolico per flauto incluso) e dell’interminabile coda strumentale giustapposta a “Blue Bucket Of Gold”, che dagli echi alieni di una sorta di preludio ambientale finisce per trasformarsi in una cavalcata psichedelica sovraccarica di enfasi.

 

Al ritorno in scena per i bis, però, a prevalere è di nuovo la sobrietà più assoluta. Solo dopo l’elegia pianistica di “Concerning The Ufo Sighting Near Highland, Illinois”, accolta dall’ovazione della platea, Stevens si rivolge finalmente al pubblico. Sarebbe stato impossibile, prima di quel momento, spezzare l’incanto. E le sue prime parole sono di scuse: scuse per la tristezza delle canzoni che hanno cullato la serata. Ma tutti sanno bene che è proprio quella tristezza la parte più autentica del cuore. Condividerla notte dopo notte, in luoghi sempre diversi e con ogni genere di persone, per Stevens è come una rivelazione: “I feel we can combine our hearts and our minds”, confessa. Perché tutti siamo fatti della stessa stoffa di domande, paure, desideri.

Cappellino da baseball e camicia a maniche corte, eccolo imbracciare il vecchio banjo per rispolverare il repertorio da menestrello folk, accarezzando i controcanti di Dawn Landes tra i sapori appalachiani di “For The Widows In Paradise, For The Fatherless In Ypsilanti” e l’educazione sentimentale di “The Dress Looks Nice On You”.

 

Di nuovo, l’ombra della morte si stende sulla leggerezza solo apparente di uno dei vertici di “Illinois”, “Casimir Pulaski Day”, con il suo trombone profumato di Belle & Sebastian. Poi, Stevens chiama sul palco anche Basia Bulat per l’ultimo coro, l’immancabile canto di libertà di “Chicago”, declinato stavolta nella chiave nostalgica della versione acustica di “The Avalanche”. Da lì potrebbe benissimo iniziare anche un altro intero concerto: il pubblico che si alza tutto in piedi sarebbe pronto a farsi condurre ovunque. Invece, è già il momento del commiato.

Fuori si accendono le luci, dentro risuona ancora l’eco di “Casimir Pulaski Day”. Ancora il dolore, ancora la bellezza: “All the glory that the Lord has made/ And the complications when I see his face”. In mezzo, tutta la vita. E il suo groviglio a dipanarsi in un soffio sulla voce di Sufjan.

Setlist

Redford (For Yia-Yia & Pappou)

Death With Dignity

Should Have Known Better

Drawn To The Blood

Eugene

John My Beloved

The Only Thing

Fourth Of July

No Shade In The Shadow Of The Cross

Carrie & Lowell

All Of Me Wants All Of You

The Owl And The Tanager

Vesuvius

Blue Bucket Of Gold

 

Encore

 

Concerning The Ufo Sighting Near Highland, Illinois

For The Widows In Paradise, For The Fatherless In Ypsilanti

The Dress Looks Nice On You

Casimir Pulaski Day

Chicago

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