Edda

Edda

La sincerità a tutti i costi

L'indimenticata voce dei Ritmo Tribale ritorna sulle scene dopo 13 anni di silenzio, di dipendenze e di... ponteggi

di Antonio Lo Giudice, Francesco Nunziata

Alzi la mano chi, sul finire degli anni Zero, si chiedeva che diavolo di fine avesse fatto Stefano Rampoldi in arte Edda, indimenticato protagonista, nei panni del cantante/frontman dell'esperienza Ritmo Tribale. Pare che, dopo il 1996, abbia intrapreso inizialmente l’occupazione di eroinomane (che, come ci è stato insegnato da “Trainspotting”, è un lavoro a tempo pieno) e, dopo la sua disintossicazione, quella di muratore. Lui alla musica non ci pensava (quasi) più e la musica, irriconoscente, ricambiava. Questo fino all’incontro con il compositore Walter Somà e il musicista Andrea Rabuffetti che lo spingono a rimettersi in gioco. E così, nel 2009 - a tredici anni dalla sua “scomparsa” - cominciano a girare su YouTube alcuni estratti dal suo primo album solista Sempre Biot ed è un ritorno che graffia il cuore.

Il frontman tarantolato dai capelli lunghi fino al sedere non esiste più, e al suo posto troviamo un artista dalla testa brizzolata che suona seduto la sua chitarra acustica accompagnato da pochi e azzeccatissimi suoni (la produzione di Taketo Gohara è da manuale). Certo, la voce è quella: acuta e leggermente nasale, non un fenomeno di dizione, ma pulsante di vita e sentimento. E i brani sembrano scritti con il sangue, fin dalle iniziali “Io e te”, impreziosita dal violino di Mauro Pagani, e “Milano”, malinconica elegia sospesa nel nulla alla sua città. “Bella come la Luna” gronda di disperata passione, mentre la title track conclude il disco in maniera lievemente più allegra, come una straniante ninna nanna.
Ogni brano, però, meriterebbe una citazione, in quanto pezzi di un mosaico che va formare quello che, a parere dell’autore, è il più bel disco italiano dello scorso decennio (assieme all’esordio del Teatro degli Orrori).

Tre anni, qualche raro concerto (dato che, nel frattempo, l’attività di muratore non è stata abbandonata) e un Ep live dopo, Sempre Biot trova un seguito (estremamente valido, ma non altrettanto) con Odio i vivi (2012), in cui il suono del Nostro viene rimpolpato da qualche distorsione, lasciando però intatta la poesia minimale dell’esordio, seppure in una forma leggermente più ostica e pessimista (“Odio i vivi/ ho i miei motivi ma li tengo per me” oppure “I miei amici hanno figli figli figli... io sempre fame”).

Si può indiscutibilmente parlare di nuova realtà della musica italiana, un aggiornamento al nuovo millennio della figura del cantautore, anche se l’impressione è che Edda sia e rimarrà unico nel suo genere.
In ogni caso, è lui che sta dando l’unico meritevole seguito all’avventura dei Ritmo Tribale, un gruppo che ha attraversato i decenni assecondando con intelligenza e creatività i cambiamenti musicali e raccogliendo sempre meno di quanto avrebbe meritato.

Due anni dopo per Stavolta come mi ammazzerai? (2014) Rampoldi sceglie un medium sonoro più lineare e “rock”, quasi a volersi ricongiungere con il passato (leggi Ritmo Tribale), il male di vivere è sempre la sua bandiera. Un male di vivere che si riversa nei testi, oggettivandosi in figure ormai cardine del suo universo poetico: droga, sesso, violenza, pedofilia, malattia e via discorrendo. Ma al centro di questa ennesima esplosione di rabbia e di cinismo c’è la famiglia (l’immagine di copertina, con tanto di piccolo Edda pensieroso, non è stata scelta a caso), luogo in cui tutti i sentimenti nascono e in cui tutti i sentimenti dovranno, prima o poi, ritornare. E, dunque, innanzitutto chitarra, basso e batteria, per raccontarlo questo suo mondo, dedicando il primo verso al padre (“Tutte le volte che vedo mio padre/ esco di casa con la voglia di ammazzare”, recita nei primi secondi dell’iniziale “Pater”) e una valanga di odio per tutti. Anche per Dio.
Ecco, dunque, che ruvide dissertazioni rock come “Coniglio rosa” e “Stellina” (“Tu sei solo pelle e fica/ anoressica/ ti prego mangia su di me/ mangia me”), il funk geometrico di “Bellissima”, le scansioni metalliche di “Piccole isole”, l’ironia cinica e rabbiosa di “Mademoiselle” e il punk “saturo” di “Ragazza meridionale” convivono con fumosi ibridi tra blues e jazz che mescolano lascivia e bisogno d’affetto (“Mela”), assurdismo in forma di ballata (“Yamamay”, “Ragazza porno”, “Peppa Pig”, quest’ultima con un arrangiamento di fiati che fa pensare ai These New Puritans di “Field Of Reeds"), e una “Saibene” che, tra pianoforte, chitarra e voce, suggerisce che la vita, in fin dei conti, altro non è che tutta una messinscena (“Chi dice la verità non può chiamarsi Rampoldi”).

Passano altri tre anni e con Graziosa utopia (2017), Edda fa capire chiaramente di non voler certo tornare sui suoi passi, anzi, le caratteristiche che iniziavano a intravedersi nel disco precedente emergono ora pienamente. Le melodie, pertanto, sono ormai decisamente rotonde, il suono è curato e molto attento alle armonie e a proporre dinamiche fluide, il timbro vocale è sempre un po’ bislacco, ma si incardina perfettamente in questo nuovo impianto musicale. Anche qui, però, non si può parlare di standardizzazione per Edda, intanto perché, come detto, il suo modo di cantare potrebbe difficilmente portarlo all’attenzione di quel pubblico allargato che inizia ora a scoprire i nomi più in voga del circuito indipendente, e poi perché i testi esprimono, come in passato, inquietudine e disagio nei confronti sia del mondo esterno che di se stesso.
Si comincia con “Spaziale”, nella quale un suono delicato e avvolgente accompagna il racconto di come la serenità sentimentale aiuti a stare meglio ma di certo non cancella i problemi che ognuno si porta dentro. “Signora” sfrutta giri brevi e ficcanti di tastiera e chitarra e una melodia particolarmente immediata per mettere in luce la perversa attitudine di andarsi a cercare le difficoltà anche quando ci si potrebbe adagiare su ciò che si è ottenuto. In “Zigulì” il suono è particolarmente disteso e aperto, soprattutto grazie agli archi, ma sotto c’è ancora una storia di difficoltà, in questo caso relativa allo staccarsi da qualcuno che ci fa stare bene sul momento ma che chiaramente ci porterà a stare male nel lungo periodo. “Picchiami” è particolarmente diretta e rock e descrive il desiderio che qualcuno si allontani da noi per salvare almeno se stesso.
I testi mantengono tutte le caratteristiche che hanno reso lo stile di Edda unico e riconoscibile: l’esposizione del proprio lato femminile, l’eroina, la vita metropolitana come specchio dei tormenti interiori. Rampoldi, però, ha ormai deciso che la parte musicale deve essere non più in stretto accordo con quanto raccontato, ma deve porsi quasi in contrasto con le storie stesse. Un contrasto che, però, deve comunque avere lo scopo di valorizzare quanto viene raccontato, così ecco che la pulizia e la cura sonora hanno la funzione non di accondiscendere l’ascoltatore, ma di accompagnarlo con gentilezza nel mondo difficile dell’autore, senza spingerlo dentro di forza come avveniva agli inizi.
Una scelta nuovamente destinata a dividere, ma, per chi scrive, è molto più appagante ascoltare un disco con questo tipo di dinamiche rispetto a uno in cui si va dietro in modo facile alle sensazioni espresse con i testi.

Nemmeno due anni dopo Stefano “Edda” Rampoldi, con gli arrangiamenti e la direzione artistica di Luca Bossi, e bassista della band che lo segue live, se ne esce con un album, il cui nome trasmette spensieratezza e frivolezza – meglio ancora – che tanto ritrova Edda nelle canzoni di musica leggera dell'Italia che già godeva i benefici del miracolo economico.
Fru fru condivide buona parte della linea melodica del disco precedente, qui le fa totalmente sue premendo l'acceleratore sulle chitarre e le tastiere. “E se” è il primo brano, un vortice dance – accompagnato dai giri di chitarra e tastiere - che subito ti prende con un ritornello killer (“Guarda come sono fatta / Guarda come son vestita / A me non me lo devi dire / Fammi godere con le dita / Guarda come sono fatta / Guarda come son vestita / E stavo con te”). Il testo trasmette sin da subito l'impudicizia, tipica dei personaggi a cui dà voce (o che vive?) Edda (e da mattatore assoluto).

Non è da meno “The soldati”: altro ritornello killer, altre zaffate di synth. Gli ingredienti giusti per una seconda traccia tutta da ballare al grido di “Sono stata ad aspettare / Sono bella come un cane / Ti ho afferrato / E ti ho baciato”. Più dalle venature disco rispetto alla precedente, ma anche questa gode di un arrangiamento esemplare perché ricordabile e complessa insieme.
“Italia gay” suona - contagiosa - come una provocazione smaliziata contro un paese che si guarda l'ombelico; che ne ha sempre approfittato dello status di nazione modello di cui gode per via della sua storia e cultura. Ma è un inno pride che vale (anche) come auspicio perché possa riprendersi dalle barbarie che ha fatto razzie della nostra società.
“Edda” è stata incisa nel giorno della scomparsa della madre (a cui è dedicato il brano). La madre che prestò “involontariamente” il nome d'arte a Stefano Rampoldi: il figlio che con questa placida ballad accompagna la genitrice nel viaggio che la vedrà reincarnata in un corpo giovane. Karma e reincarnazione come prevede il credo dell'Hare Krishna. Il testo tocca il vertice della spiritualità, qui raggiunta con estrema grazia e in punta di piedi dall'artista meneghino.

“Samsara” si presenta come una mossa sinuosa del disco che si ispira ai suoni provenienti dall'India. Il brano è una seduta spirituale vera e propria e delle più virtuose; e per giunta impegnata essendo un'invettiva nei confronti di Sant'Agostino, rispetto a San Francesco (presunto vegetariano e amico degli animali). E si specchia con un umorismo sbarazzino che conquista facendo sorridere (“Sesto piano / Sto volando senza ali / Ottavo piano / Un piano in più dei sette nani”). Si va verso la conclusione con “Abat-jour”, qui Edda è mosso dall'attitudine più terrena perché bramoso di raggiungere la carne (nel senso più alto e umano del termine).
A “Ovidio e Orazio” non gliele manda a dire: perché colpevoli di averlo tenuto incatenato - con le versioni di latino da tradurre - negli anni di liceo. E tenuto a bada, e a suo malgrado, dalle prime pulsioni sessuali. Il brano di chiusura è una magniloquente cavalcata synth-pop che contiene delle dense armonie e tra le più elaborate dell'album.


Fru fru vive per tutta la durata di intuizioni mirabili: la chitarra pizzicata come un sitar in “Samsara”, le liriche che emanano sudore, sentimento e ormoni galoppanti (“E se” e “Ovidio e Orazio” i portabandiera di questa scuola di pensiero). Et cetera et cetera. Agli afecionados della vena più alt-rock e punk non farà subito (o forse per niente) breccia nel loro cuore, si accorgeranno, e si spera, di un disco che crescerà con più e più ascolti. Sapranno cogliere le intuizioni e gli arrangiamenti – di un magistrale e attento Luca Bossi – che mantengono le fila di un prodotto tra il pop (furbo e capace) e la disco. Ogni brano è un potenziale singolo, va riconosciuto.

La metamorfosi di Edda lo ha spinto a registrare dischi dai generi più disparati, portandolo in più direzioni e con una costanza qualitativa davvero invidiabile che lo vede tra i protagonisti rispettabili di questa scena musicale. L'Edda-pensiero è frequente nella sua produzione che funziona per sincerità e per divertissement in quello che pensa e scrive.

 

Nel 2022 arriva Illusion, con un Edda in fase di evoluzione artistica che smussa un po' di irruenza per lasciare più spazio a un lato intimo che ci fa venire voglia di intenerirci, piuttosto che ballare come col precedente Fru fru, l’album della svolta pop, si fa per dire, considerando la spigolosità del personaggio.
Deus ex machina di questa correzione di rotta è il Re Mida del rock indipendente Gianni Maroccolo con cui era già uscito nel 2020 "Noio; volevam suonar.", con ragione sociale Edda e Marok.
Alla barra di comando c’è l’ex-Ritmo Tribale, ma la mano esperta di Maroccolo, alla produzione e alla cura degli arrangiamenti, continua ad indicare la via maestra. Marok spinge la voce di Edda in territori non ancora esplorati negli album precedenti, modellandola quasi come uno strumento, rendendo alcuni passaggi di “Illusion” davvero sublimi. Ci se ne rende conto subito dal falsetto celestiale del singolo “Lia” struggente dedica alle vite dei genitori prima di metterci al mondo e poi se ne ha conferma nei momenti più evocativi come “Trema” e “La croce viva”.
Ma l’ex bassista di LitfibaCccpCsi convince anche Edda a suonare la chitarra in studio durante l’’incisione al fine di ottenere la spontaneità e l’immediatezza della fase di composizione.
Ma è tanta la voglia di fondere elementi nuovi come in “Alibaba”, storia di disagio sentimentale che unisce sitar alla Claudio Rocchi con il gelato al cioccolato di Pupo, o “L’ignoranza”, che si eleva da un robotico carillon strombazzante a molleggiate aperture pop. La voce di Edda si innesta elegantemente anche nelle atmosfere rarefatte alla Csi di “La croce viva” e “Mirai”, nei sapori anni 70 in “Buonasera Signora”, nella propulsione funky di "Brown", negli accordi sgranati della chitarra di “Trema”, negli arpeggi riverberati dell’azzeccata apertura di “Mio Capitano” e nel l’arrembante rock sporco in “Carlo Magno”.
I testi come sempre sono visionari e poco lineari lasciati molto alla libera interpretazione, liberi dalla  zavorra del politically correct, svolazzano con leggerezza tra le citazioni dei grandi del passato: la “Non è Francesca” di “Brown” e “l’Alghero” di “Carlo Magno”, a passaggi ironici alla "Freak" Antoni “Come bella l’ignoranza/ la coltivo dall’infanzia” per passare alla forza dei grandi interrogativi di “Lia” “Sai perché si muore? Non ti dirò di piu, di piu”.
Intensa come mai in passato, pensata e progettata (anche grazie all’aiuto Flavio Ferri e Antonio Aiazzi) senza perdere di spontaneità, la nuova uscita di Edda è uno di quei dischi che richiedono qualche ascolto in piu, ma quando arrivano, ti prendono e ti si attaccano addosso, e non è un’Illusion.

 

Contributo di Stefano Bartolotta ("Graziosa Utopia"), Simone Tribuzio ("Fru fru"), Lorenzo Montefreddo ("Illusion)

Edda

Discografia

RITMO TRIBALE

Bocca Chiusa (1988)


Kriminale (1990)

Ritmo Tribale (1991)

Tutti Vs. Tutti (1992)

Mantra (1994)

Psycorsonica (1996)

Bahamas (1999)

Uomini 1988-2000 (antologia, 2007)

EDDA
Semper Biot (Niegazowana Records, 2009)

7

Odio i vivi (Niegazowana Records, 2012)7
Stavolta come mi ammazzerai? (Niegazowana Records, 2014)6
Graziosa utopia(Woodworm, 2017)7,5
Fru Fru (Woodworm, 2019)8
Illusion(Al-Kemi Records/Ala Bianca, 2022)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Edda su OndaRock