Blue Willa

Blue Willa

Una proiezione art-rock

Coraggiosi, teatrali, folli. I Blue Willa, da Prato, hanno fatto della sperimentazione e della trasversalità di generi e linguaggi il tratto distintivo della loro produzione. Viaggio alla scoperta di una band divenuta, un album dopo l'altro, un vero e proprio patrimonio della scena indipendente italiana

di Fabio Guastalla

L'abbiamo detto tante volte, e chissà quante altre ci troveremo a ripeterlo: la Toscana è il più grande proscenio a cielo aperto di band, progetti, talenti di questi primi scampoli di terzo millennio musicale italiano. Le ragioni di questa preminenza possono essere diverse: dal rapporto tra band, locali, etichette e agenzie, molto più stretto di quanto non accada altrove, alla quantità di nuovi progetti, poiché da queste parti i musicisti fanno davvero rete, si aiutano a vicenda, mescolano gli elementi e le reciproche qualità e ciò che esce è spesso e volentieri al di sopra della media.
Ebbene, se dovessimo scegliere un solo nome, un singolo frammento deputato a rappresentare il multiforme calderone sonoro che abbraccia la sempre dinamica Firenze tanto quanto la provincia più remota – da Pisa a Livorno, fino alla Montepulciano dei Baustelle – opteremmo subito, a occhi chiusi, per i Blue Willa: una formazione che ha fatto della sperimentazione e della trasversalità (di generi, di linguaggio, di espressione) il proprio dogma.

La storia dei Blue Willa comincia nel settembre del 2004 a Prato, laddove la cantante Serena Altavilla, il chitarrista Mirko Maddaleno, il batterista Graziano Ridolfo e il bassista Duccio Burberi iniziano a provare insieme sotto il nome di Baby Blue, in ossequio a Bob Dylan e alla sua “It's All Over Now, Baby Blue”. Appena mettono il naso fuori di casa, si trovano già additati quali nuovi talenti della scena toscana e oltre: partecipano al Mi Ami e si esibiscono in apertura all'Heineken Jammin Festival, ma la prima, vera grande occasione è l'edizione 2006 di “Arezzo Wave”, nella quale i quattro imperversano con i primi brani autografi ottenendo il premio di “miglior gruppo” della manifestazione.

È sempre grazie al contributo della Fondazione Arezzo Wave che di lì a poco i Baby Blue si rinchiudono nei Bunkerhaus Recording Studio di Firenze dove, coadiuvati da Jacopo Prete e Riccardo Romoli, e prodotti da Paolo Benvegnù, registrano dal vivo il primo Ep che prenderà il semplice nome di “Baby Blue”. Le sei canzoni contenute evidenziano in qualche modo il carattere estroverso, a suo modo dissonante, del quartetto pratese, già impegnato a deformare blues, folk e affini.
“Ice Cream”, al di là del gioco di parole con “I scream” - la pronuncia è la medesima – rivela il gusto tutto peculiare per una marcata teatralità che diventerà presto uno dei tratti distintivi della formazione, mentre il brano segue gli umori di un blues sghembo che esplode rumorosamente nei ritornelli. “River” si stratifica man mano, partendo dalla chitarra di Maddaleno e la voce di Altavilla per aggiungere via via gli strumenti in un polverone dal retrogusto psichedelico. La stramba filastrocca “Alligator” delinea nuove traiettore tra pop e noise, “Herzog” (i riferimenti al cinema saranno una costante in tutta la produzione Baby Blue/Blue Willa) frammenta il blues in ritmiche sincopate e poi sfocia in un rumorismo di scuola Sonic Youth. Non c'è un brano che vada via “dritto”: “So Much” vive di momenti cantautorali – la duttile voce di Serena Altavilla è già strepitosa – e accelerazioni rock, “Hot Hand” è un lascivo blues che si lancia in vertiginose spirali art-punk, gettando i semi per ciò che verrà.

All'uscita dell'Ep fanno seguito moltissime date in tutta Italia. La formula dei Baby Blue è però già pronta per essere esportata fuori confine, e in tal senso la prima occasione giunge nel marzo del 2007, quando i pratesi sono chiamati a suonare al concorso europeo “Bilbo-Rock” di Bilbao. L'estate successiva vale la seconda chiamata ad Arezzo, questa volta per la prima edizione di Arezzo Wave. Spesso si trovano a dividere il palco con artisti di caratura internazionale: Micah P. Hinson, Carla Bozulich, Chris Field, i “nostri” Paolo Benvegnù, Beatrice Antolini, Skiantos, Jennifer Gentle.

Il 2008 è, soprattutto, l'anno in cui i Baby Blue tornano in studio (lo StudioLab Recording di Cascina) insieme a Benvegnù per registrare il primo Lp Come!, che uscirà nella primavera dell'anno successivo sotto l'ala protettrice di A Buzz Supreme. Le tredici canzoni sono “scritte da Mirko Maddaleno, ispirate da Serena Altavilla e arrangiate dai Baby Blue”. Il risultato è – parole loro – “un eterogeneo fuoco d'artificio”. Apre “Suga”, altro segnale d'amore verso quella “America provinciale” che i quattro giovani toscani continueranno a rinverdire in musica e non solo, come si vedrà. In quanto al brano, è uno scanzonato folk-blues che cede il posto alle cadenzate melodie pseudo-country di “Far From Home”.
Segue una nuova versione di “River” e, soprattutto, l'alt-rock di “Miss”, tra distorsioni, dissonanze e repentine digressioni. “All You've Known” è uno dei gioiellini dell'album, una sorta di filastrocca circolare che, dopo un travolgente crescendo, sfocia in una strepitosa coda garage-pop. “Rita” torna in superficie per esaltare una volta di più la prova vocale di Altavilla, “Took Me Long” resta in atmosfere blues ma sfodera un inedito e riuscito doppio falsetto. “Silently” si colora di tinte pulp, “Eileen” e “Mess” sono le ennesime incursioni in un immaginario delimitato da blues minimali e accenti teatrali.
E laddove “Under Your Foot” torna a bilanciare l'intimismo iniziale con il climax finale, “Old Story” sa di country (ma pur sempre alla maniera dei Baby Blue) che esce da un grammofono nell'altra stanza, non fosse per quel muro di distorsioni che a metà brano sembra voler segnare il confine tra sogno e realtà. Chiude i giochi “About It”, brano crepuscolare in cui Maddaleno è protagonista assoluto a voce e chitarra acustica mentre Altavilla aggiunge i cori.
Come! amplia ulteriormente i consensi attorno al nome dei Baby Blue, al resto ci pensano le date in giro per lo Stivale, il vero valore aggiunto di una band le cui esibizioni non sono semplici concerti, bensì rappresentazioni teatrali in cui i movimenti assecondano la musica e il pubblico viene attirato e respinto, coinvolto e poi lasciato solo.

All'alba del 2010, i tempi sono maturi per l'ingresso dei Baby Blue nel roster della bolognese La Famosa Etichetta Trovarobato, che già da qualche anno curava il booking dei quattro pratesi. Il nuovo tandem prelude all'uscita di un nuovo album, in uscita nel settembre del 2010 con il titolo di We Don't Know. Salutato Paolo Benvegnù, in cabina di regia – stavolta lo studio di registrazione è il trydog di Agliana, Pistoia - c'è Alessio Pepi dei Dilatazione.
Al momento della sua uscita, We Don't Know rappresenta il culmine del (pur breve) cammino dei Baby Blue, l'attimo in cui l'apprendistato si trasforma in vera consapevolezza e piena maturità. I quattro sono ormai totalmente padroni del loro peculiare modo di fare musica, che riversano in dieci brani nuovi di zecca e dotati di nuovo spessore, ulteriore profondità.
Quello dei Baby Blue è nuovamente blues minimale, folk scordato, cantautorato umorale. E forse molto altro ancora. “Don't Ask Me Why” parte con l'intreccio delle voci di Altavilla e Maddaleno e finisce con una sorta di omaggio – inconscio? - al Jugband Blues barrettiano, persino a livello di metriche liriche: “And the sky is too high the earth too tight the sea's not dry don't ask me why”. “Oh Marie” è il primo esercizio di stile per l'ugola della Altavilla, qui piena e calda, altrove, nelle rockeggianti “Shut Up” ed “Earthquake”, sguaiata e paranoica. Proprio “Earthquake”, primo singolo estratto, diviene il brano-simbolo dell'opera con la sua irresistibile indolenza a cavallo di chitarre garage e retrogusto art.
“I Don't Know” mostra il lato più raffinato del progetto, “Hey Baby Hey” quello più intimista. “Stay A While” racchiude nei suoi tre minuti filastrocche sghembe e crescendo bellicosi. La successiva “All Right” rappresenta una sorta di manifesto dell'anticonvenzionalità alla maniera dei Baby Blue: un insieme di generi, stati d'animo, sonorità che si succedono in una breve carrellata di istanti. “Dawn” e “Porto Palo” chiudono l'album tra dialoghi sovrapposti e liriche non-sense. Giacché è l'incomunicabilità, per assurdo, il vero tratto distintivo di questi tempi di sovraesposizione mediatica, e i Baby Blue, in quanto artisti, non fanno che tradurre in musica ciò che vedono e respirano.
Punto di arrivo, e allo stesso tempo nuova svolta nel cammino del quartetto, We Don't Know incassa le lodi sperticate della critica specializzata, mentre la band pratese – che subito dopo l'uscita del disco saluta Burberi, cui subentra in pianta stabile Lorenzo Maffucci sempre al basso – esporta il suo surreale teatrino al di fuori dei confini nazionali e in ogni angolo d'Italia.

Il percorso preparatorio verso quello che sarà il terzo album è irto di tappe e di cambiamenti. Mentre i quattro partecipano a un paio di compilation-tributi (rileggono “Dark Globe” di Syd Barrett e “Castle” dei Codeine per la toscana White Birch Records), il vecchio nome Baby Blue scompare e al suo posto prende vita il più personale Blue Willa: “Abbiamo cambiato nome per poter perpetuare la storia dei Baby Blue e dargli una continuità; era arrivato il momento dello sviluppo per la nostra creatura e come ogni passaggio di fuoco va accettato e assaporato”, afferma Altavilla nell'intervista rilasciata a OndaRock. E Maffucci aggiunge: “Willa è un nome femminile (forse è una storpiatura di Willow?) che sa un po’ di America arcaica, rurale, fluviale. Chiaramente è tutta America che non possiamo che conoscere dai margini, ed è ciò che è restato impigliato tra le mani dopo aver visto, rivisto, rimuginato il film 'La morte corre sul fiume', a giochi fatti una raccolta di visioni che, a sorpresa, abbiamo scoperto risuonare in maniera sorprendente con le ambientazioni che si stavano man mano dettagliando. La decisione di questo parziale smascheramento, di adottare questa nuova mezza identità, è arrivata quando le registrazioni del disco erano quasi arrivate al termine, quando cioè era chiaro quanto di 'progettualmente inedito' per noi costituissero i nuovi pezzi nelle nuove forme”.
Ci sono ancora il cinema, l'America con le sue tradizioni musicali, il passato e il futuro prossimo, che si fa carico di elementi privi di un significato preciso, ma che comunque suonano maledettamente bene, proprio come i Baby Blue e i Blue Willa.

Blue Willa esce nel gennaio del 2013, sempre su etichetta Trovarobato. Se possibile, con il nuovo lavoro i pratesi riescono ancora una volta ad andare oltre se stessi e i propri limiti, partorendo un disco completo e complesso e dando vita a undici canzoni nelle quali ogni elemento precedentemente incontrato si inspessisce. Il termine art-rock è qui non solo di comodo per chi scrive, ma anche in un certo senso dovuto: la visione dei Willa non è prettamente musicale ma a tutti gli effetti artistica, si lascia contaminare dalle immagini cinematografiche e si fa di nuovo trasportare da una teatralità che si riverbera nei toni e nei gesti, tanto dal vivo quanto su album. In cabina di regia c'è una figura a dir poco d'eccezione, Carla Bozulich in persona, “stregata” dal progetto toscano al punto da diventarne la produttrice artistica. Forti della sua esperienza, i quattro si proiettano in ulteriori profondità nelle quali Altavilla si muove a proprio agio tra passaggi sublimi e ruvidezza punk, Maddaleno e Maffucci triturano la materia e la ricostruiscono da zero, Ridolfo si limita a ricamare con una batteria a cavallo tra jazz e hardcore.
La soffusa epicità di “Eyes Attention” apre l'album in punta di piedi, la voce di Serena Altavilla spettrale, l'accordion e le chitarre a cullare un'invisibile processione. Stride, dopo un'ouverture tanto accomodante, il clamore noise di “Fishes”, uno sfasato cabaret che si dissolve e poi si riforma nel percosso ritornello. Come ne fosse, stavolta sì, una propaggine, dal caos sorga la marcetta noir “Tambourine”, quasi la trasfigurazione in musica di una processione spiritica di Francisco Goya. “Moquette” è un (involontario?) omaggio ai Fiery Furnaces, “Vent” un lento, ostinato crescendo senza meta né senso (“without any illusion, no because, no why”). Niente a che vedere con l'ennesimo brusco risveglio, un forsennato punk tribale che prende il nome di “Good Glue”.
Il blues abbozzato di “Rabbits” strizza l'occhio al disco precedente, Birds dà sfogo a un'allucinata schizofrenia musicale. “Moan” riprende il filo del caos e lo affoga in quintali di distorsioni, “Cruel Chain” spazza il frastuono e di fatto chiude il sipario ritornando alle origini, a quello strano impasto di blues minimale, folk scordato, cantautorato umorale sempre presente, mai uguale a se stesso.

Blue Willa

Discografia

Baby Blue (come Baby Blue, 2006, autoprodotto)

Come! (come Baby Blue, 2009, autoprodotto)
We Don't Know (come Baby Blue, Trovarobato, 2010)

Blue Willa (Trovarobato, 2013)

SOLKI
Peacock Eyes (Ibexhouse / Astio Collettivo / Fegato Dischi / Sacred Hood / Santa Valvola)
SERENA ALTAVILLA
Morsa (Blackcandy, 2021)
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Fishes
(videoclip da Blue Willa, 2013)

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