Vinicio Capossela

Il menestrello onnivoro

intervista di Claudio Fabretti

Incontriamo Vinicio Capossela nei camerini, dopo due ore e mezzo di concerto che hanno infiammato la Cavea dell'Auditorium. Oltre al camicione bianco d'ordinanza, indossa il bizzarro copricapo con le spighe di grano mostrato in scena. Ha ancora addosso l'eccitazione del palco, ma appare tranquillo, quasi rilassato, con un sorriso che ostenta tutta la soddisfazione per aver superato la prima, delicata tappa di un tour complesso come questo di Polvere, tranche estiva di una doppia sessione di live che lo vedrà in autunno proporre nei teatri Ombra, la seconda parte delle "Canzoni della Cupa". Un concerto impegnativo e coraggioso, soprattutto nella prima parte, che ha riproposto quasi integralmente il nocciolo più antico e folklorico dell'album. "Eravamo undici in campo. Un campo di grano mal rasato. E abbiamo fatto due tempi, più supplementari", ironizza subito, prendendosi gioco delle metafore sul calcio. Due tempi, dunque, e il primo è stato un gran polverone... "Vorrei tanto che uscendo da questo concerto ci si sentisse sporchi di paglia, di terra, che si avvertisse questa nostra matericità del polvere siete e polvere ritornerete", sottolinea Capossela, sempre con la battuta in canna: un collega alza la mano e lui subito lo fulmina: "Dai, dimmi che i prezzi dei biglietti sono alti, l'ultima volta mi hai massacrato!". E giù risate generali...
Poi si fa più serio ricordando le varie simbologie evocate dallo show: "È un concerto all'aria aperta e abbiamo ambientato queste canzoni in una specie di campo di grano in cui emergono dei rottami della civiltà della terra: pezzi di luminarie, un cranio di vacca, un residuo di qualche festa di paese. E c'è una stagione, l'estate, la stagione secca, del sudore e della ristoccia riarsa, su cui il grano è stato mietuto. Poi abbiamo scelto una data zero non casuale, il 23 giugno, la notte di San Giovanni (dove lo show è stato presentato in anteprima nella Cava di Ricci a Pignola, in provincia di Potenza, ndr), così come non è casuale essere qui oggi a Roma, nella notte di San Pietro e Paolo, visto che Paolo è il santo delle Tarante".

Da Amarcord al Tempo dei Gitani, tutto inizia e finisce con un matrimonio e con il camposanto: sono l'alfa e l'omega di una comunità. Quindi anche noi passiamo dallo sposalizio di Maloservizio alla Marcia del Camposanto.

Vinicio CaposselaNella Cupa ("la contrada oscura") il bestiario popolare si nutre di spiriti diabolici e apparizioni misteriose. Come il demone meridiano di "La bestia nel grano", che apre il concerto come una folgorazione: "Era l'inizio naturale - annuisce Vinicio - Il grano ha a che fare con la fertilità, c'è un rapporto diretto con la terra, per questo in scena siamo anche guarniti di paglia, di grano, per celebrare l'abbondanza. Poi il set prosegue con Femmine e altri ritratti femminili - da Dagarola del Carpato a Franceschina la calitrana - fino ad arrivare al Componidori, che comunque è vestito dalle massaieddas, le massaiette. Quindi c'è una serie di episodi più notturni: La scorza di mulo, La notte di San Giovanni e due pezzi di Matteo Salvatore, Taresuccia e Il Forestiero. Tutto è ambientato nella stagione estiva all'aperto, di notte e di giorno. Fino ai pezzi più da festa nell'aia: Nachecici (i maccheroni) e Puttarossa la puttanazza (e a pronunciarla viene da ridere anche a lui, ndr). Ma come sempre tutto ciò che è legato alla comunità finisce con lo sposalizio. Come Amarcord, che si chiude con il matrimonio della Gradisca, o Il tempo dei Gitani, che termina con i due che se ne vanno insieme. Tutto inizia e finisce con un matrimonio e con il camposanto: sono l'alfa e l'omega di una comunità. Nel nostro caso, chiudiamo con Lo sposalizio di Maloservizio, che ha una storia molto divertente, ispirata a un episodio realmente successo a Calitri: al povero Maloservizio hanno fatto una magia a morte, gli hanno messo un filo che attacca la porta di casa al cancello del camposanto. Un filo come quello delle Parche dei greci e dei romani, come quello di Lachesi che recideva il filo della vita. Il filo che parte dallo sposalizio e finisce al camposanto, e poi avvolge tutta la comunità e i paesi in cui è ambientata la vicenda".

In ogni sposalizio ci sono sempre gli accampanti, quelli che non sono invitati, ma sono sempre lì e la festa non può iniziare senza di loro. E i miei accampanti sono alcuni personaggi ingombranti del mio repertorio, che ho inserito un po' a forza in scaletta, tipo il Marajà, il Re della cantina di "Che coss'è l'amor", la Pena dell'alma, l'Uomo vivo, San Vito...

Da lì inizia il secondo tempo del concerto, con il recupero di brani di dischi precedenti. "Ho ripreso ad esempio La marcia del camposanto e Al veglione, che comunque sono ambientati sempre in questo genere di cultura". Ma, come in ogni festa che si rispetti, ci sono sempre gli imbucati. E Vinicio ha un nome anche per loro: "Sono gli accampanti, un'istituzione degli sposalizi. Non sono stati invitati né sono parenti, ma sono lì perché mossi solo dalla voglia di vivere, dalla voglia di esserci. Sono i più ingombranti, ma alla fine senza di loro non c'è la festa. E i miei accampanti sono alcuni personaggi ingombranti del mio repertorio, che ho inserito un po' a forza in scaletta, tipo il Marajà, il Re della cantina di Che coss'è l'amor, la Pena dell'Alma, L'Uomo vivo, San Vito... Come se fosse un grande sposalizio che finisce con i non invitati".

Nel finale c'è Il Treno, che se li è portati via tutti. È il treno della storia, lo stesso che sta smuovendo oggi intere parti della Terra. Una migrazione biblica a cui stiamo assistendo più o meno distrattamente. Le comunità si disgregano e possono riformarsi solo nel racconto, come che ho cercato di fare io con queste canzoni.
La coda finale, però, ha un sapore più amaro. E rievocandola Vinicio si fa più pensoso: "Sì, il concerto si chiude riprendendo l'ultimo pezzo dell'album, Il treno, per ricordarci che tutto questo mondo antico non esiste più. E il treno che se l'è portato via è quello della storia, esattamente come sta smuovendo oggi intere parti della Terra. Il vero evento centrale di questi anni non è la guerra in Siria, ma questa migrazione biblica a cui stiamo assistendo più o meno distrattamente. Non bisogna soltanto pensare alla gente che arriva, ma anche a cosa lascia, a come questi flussi economici stiano svuotando terre intere e paesi. Le comunità si disgregano e possono riformarsi solo nel racconto, proprio quello che ho cercato di fare io con queste canzoni. È per questo che dopo il treno ho aggiunto La Golondrina, una canzone messicana che mi ha sempre commosso e che parla proprio di questo, di una rondine costretta sempre a volare, a spostarsi di continuo, senza mai potersi riposare.
Matteo Salvatore me lo fece scoprire un musicista francese, Philippe Eidel, che aveva la versione francese (Chants de Mendiants) del nostro "Lamento dei mendicanti". "Canzoni della Cupa" attinge al patrimonio della cultura della terra, in cui non vedo profonde distinzioni tra Nord e Sud. È tutto quello che non è urbano. Ma non è un folk-revival, non è un'operazione filologica. Mi piace la matrice folklorica che attinge dal particolare e si rimodula in qualcosa di universale.
Vinicio CaposselaRadici comuni, del resto, per una musica che ha un messaggio universale. E se "Canzoni della Cupa" fosse la volta buona per esportare all'estero un volto meno noto della canzone popolare italiana? Capossela sembra un po' scettico. Forse conosce troppo bene i meccanismi della macchina discografica per coltivare vane speranze. Però ricorda un episodio: "Ho scoperto Matteo Salvatore proprio all'estero, me lo fece ascoltare un musicista francese, Philippe Eidel, che aveva la versione francese, Chants de Mendiants, del nostro Lamento dei mendicanti. Canzoni della Cupa attinge al patrimonio della cultura della terra, in cui non vedo profonde distinzioni tra Nord e Sud. È tutto quello che non è urbano. Ma il mio non è un folk-revival, non è un'operazione filologica. Ho in orrore il folklorismo, mentre mi piace la matrice folklorica che attinge dal particolare e si rimodula in qualcosa di universale, che trova posto anche nella contemporaneità. In certe battute, in certi proverbi popolari, trovo proprio un modo per leggere il mondo. E mi viene sempre in mente quella frase di Ernesto De Martino: Solo chi ha un villaggio vivente nella memoria può essere davvero cittadino del mondo. Ecco, penso che in questo anche la musica possa avere un ruolo".
E anche alzare la Polvere può allora diventare un gesto politico, contribuendo a scardinare il sistema. "La polvere è spesso collegata a gesti anarchici - concorda Vinicio - Il più famoso di tutti è quello di Antigone, che ricopre di polvere il corpo del defunto fratello Polinice, sovvertendo l'ordine del re e affermando la legge dell'umano rispetto all'editto del monarca. Ci sono tanti gesti legati alla polvere, ad esempio Gesù che scrive nella polvere "Non ucciderai" nell'episodio dell'adultera che doveva essere lapidata. La polvere è l'anarchia, perché è già la disgregazione di tutto quello che è costituito... la polvere da sparo, la polvere dinamitarda, alzare la polvere... Quest'anno intitoleremo lo Sponz Fest Chi tiene polvere spara. Non è un invito a una sparatoria, ma un altro detto paesano che significa Chi c'ha qualcosa da dire lo dica, non se lo tenga per sé. Il peccato maggiore, come mi diceva sempre la maestra in quarta elementare, è non fare qualcosa. Come nella parabola dei trenta talenti, dove chi sbaglia è quello che li seppellisce sottoterra e li tiene custoditi, non chi li impiega. Quindi il mio è un invito a impiegare quello che abbiamo".
L'omaggio a Bud Spencer? Lui era un uomo di frontiera con i suoi spaghetti-western. Ci ha offerto una rilettura di certi paesaggi in una dimensione epica. Un'epica più alla nostra portata, non quella dell'Iliade e dell'Odissea. E poi il fatto che abbia scelto come nome d'arte Bud da una birra e Spencer da Spencer Tracy dimostra che era un genio!
Meno prevedibile, invece, l'omaggio rivolto a Bud Spencer durante il concerto. "Perché questo tour vuole evocare un senso di frontiera, di polvere, e per me la frontiera è sempre stata il western. Magari proprio il western all'italiana di Bud Spencer. Queste canzoni, del resto, nascono da un bacino affine, una terra di cui era originario anche il padre di Sergio Leone, nato a Torella dei Lombardi. Non c'è un paradiso perduto nella cultura della terra, del Sud in particolare. Sono storie di fatica, di fango, di miseria. Ma mi è sempre piaciuta questa idea di rimodularle in chiave di frontiera, come in un certo senso il western, che ci ha offerto una rilettura di certi paesaggi in una dimensione epica. Un'epica più alla nostra portata, non quella dell'Iliade e dell'Odissea. Bud Spencer ha contribuito a tutto ciò e almeno in quelli della mia generazione ha lasciato un segno. Mi dispiace molto che sia mancato ed era doveroso ricordarlo durante il concerto, come maestro di questo genere. Non l'ho mai conosciuto personalmente, ma mi ha sempre ispirato simpatia. Poi ho un amico, Marco Celletti che è il mio Bud Spencer... ognuno ha un suo Bud Spencer: l'amico più grosso di te. E poi il fatto che abbia scelto come nome d'arte Bud da una birra e Spencer da Spencer Tracy dimostra che era un genio!".
La poetica può convivere con la politica senza diventare per forza demagogia. È politico il fatto di fare il rebetiko, è politico anche il fatto di ballare la musica abbracciati... Come diceva Carlo Levi, "c'è il tempo della civiltà contadina e il tempo della civiltà dell'orologio". Noi parliamo di un tempo immobile che ormai esiste solo nel racconto, al quale si torna così come tornano le stagioni, come tornano il vento, il grano, la neve. Qualcosa che non ha una sua reale urgenza. Si trova quando serve, come la zappa.
Vinicio CaposselaLa saga western delle "Canzoni della Cupa", invece, era in incubazione da quasi vent'anni. Con tanti segnali premonitori, dalla epica notte di reading del 2009 sul Formicoso (l'altipiano irpino minacciato dalla costruzione di una discarica) allo Sponz Festival, fino alla pubblicazione de "Il Paese dei Coppoloni", il romanzo che funge un po' da preludio narrativo a questa raccolta musicale. "Ho iniziato a lavorare a questi pezzi nel 2003, in Sardegna, a San Salvatore, dietro Cabras, dove sono stati girati alcuni western, proprio perché è un paesaggio di frontiera - racconta Capossela - Un anno prima avevo incontrato Matteo Salvatore, nel 2001 ho visto i Calexico la prima volta. Sono tutti eventi che hanno segnato la nascita di questo percorso. Un'altra tappa significativa in questo cammino è stato il tour del 2007 con la Banda della Posta: insieme siamo andati in giro per quasi un anno e mezzo, facendo musica da ballo anche in posti secondari, perché sono convinto che ci sia qualcosa di politico nel fare certe cose. La poetica può convivere con la politica senza diventare per forza demagogia. È politico il fatto di fare il rebetiko, è politico il fatto di ballare la musica abbracciati... Abbiamo fatto un bel po' di concerti in cui univamo canzoni anarchiche, musica popolare, sonetti paesani, calitrani, musica da ballo, musica da sposalizio. Poi ho scritto Il Paese dei Coppoloni. Volevo che questo disco uscisse finché alcune persone a cui tengo sono vive, quindi mi sono obbligato a pubblicarlo. Le canzoni della Cupa, però, attingono a un tempo immobile. Quando ci si confronta con questo tempo non stai più parlando della tua fidanzata che t'ha lasciato e fra sei mesi non avrai più quell'urgenza di ricordare. Come diceva Carlo Levi, C'è il tempo della civiltà contadina e il tempo della civiltà dell'orologio. Noi parliamo di un tempo immobile che ormai esiste solo nel racconto, al quale si torna così come tornano le stagioni, come tornano il vento, il grano, la neve. Qualcosa che non ha una sua reale urgenza. Si trova quando serve, come la zappa.
Joey Burns e John Convertino sono due persone veramente belle. John è proprio l'uomo più bello del mondo... E poi ho scoperto che legge Nikos Kazantzakis! Mi ha fatto una battuta tratta dal libro "Vita e imprese di Alexis Zorba". I Calexico mettono una cromatura su quello che fanno, con la loro polvere del deserto, "dust", una parola che sembra evocare quelle roulotte d'alluminio dei film americani... Invece la polvere di Matteo Salvatore ti soffoca in gola e non ti fa respirare: è la polvere che solleva il calesse del padrone quando passa.
E a ritrovarsi, a volte, possono essere anche artisti apparentemente distanti come Vinicio Capossela e i Calexico. Un sodalizio attivo ormai da anni e che ha trovato in "Canzoni della Cupa" una nuova occasione fertile. "Joey Burns e John Convertino sono due persone veramente belle - si illumina Capossela - John è proprio l'uomo più bello del mondo (ride) Hanno quest'aria da eterni ragazzi, poi nel frattempo hanno messo su famiglia. L'ultima volta che siamo andati a registrare ho detto a John: Ma Joey lo vedo molto diverso rispetto a sei anni fa, è più nervoso. E lui: You know... marriage, house, children, everything... the full catastrophe!. E io ho subito riconosciuto la battuta contenuta in Vita e imprese di Alexis Zorba. C'è il film, ma anche il libro, e io gli ho chiesto: quale dei due? Il libro. Incredibile, John Convertino legge Nikos Kazantzakis! Davvero, sono persone eccelse, ci siamo conosciuti qualche anno fa. Nei loro primi dischi, molto alla lontana, c'è quello che cerco di fare io, in America c'è da sempre questo senso della frontiera nella musica. Calexico è un villaggio ai confini del Messico, ho visto dei loro vecchi calendari: c'erano dei trattori, dei simboli della vita rurale, qualcosa che aveva a che fare con la civiltà della terra. Secondo me, il richiamo che esercita il Messico, il Sud, ha a che fare con la terra, con qualcosa di non ordinato, che ognuno di noi ritrova. La frontiera vera non è tra Messico e Stati Uniti, ma è tra civiltà arcaica e civiltà dell'orologio. Quel villaggio, per uno dell'Arizona del 2001, significa comunque accedere a questo tipo di frontiera. I Calexico mettono una cromatura su quello che fanno, con la loro polvere del deserto, dust, una parola che sembra evocare quelle roulotte d'alluminio dei film americani. Invece la polvere di Matteo Salvatore ti soffoca in gola e non ti fa respirare: è la polvere che solleva il calesse del padrone quando passa. C'è un pezzo che si chiama Lu Polverone, che ti toglie il fiato, ti dà proprio l'idea del soffocamento di questo poveraccio, che ha lavorato tutto il giorno e come massima forma di umiliazione deve subire questa boccata di polvere. Il tema della frontiera mi aiuta a cercare di rendere più digeribile questa materia, che invece è proprio nostra.
Non posso essere nessuno solo perché in Inghilterra qualcuno fa un referendum e la Borsa crolla, per cui non ho più un cazzo. Devo avere qualcosa che va al di là di questo. E vuol dire appartenere a una cultura. La burocrazia internazionale ci dovrebbe garantire la libera circolazione, ma non dovrebbe mai costringerci a una omologazione del linguaggio: non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti la stessa storia. I localismi, le particolarità sono importanti. È sbagliato usarli in modo politico, non in modo culturale.
Vinicio CaposselaNel frattempo irrompono in sala i suoi musicisti, lo abbracciano, vogliono andare a fare festa con lui. "Questo saluto mi ricorda che questa materia non è roba inventata - sottolinea Vinicio - C'è il western, c'è il fumetto, ci sono i Calexico, ma soprattutto c'è una radice vera, che è la radice della mia vita, che attinge a qualcosa che magari non ho vissuto direttamente ma di cui sono cresciuto impregnato del racconto. Ed è un racconto che secondo me appartiene a tutti noi. Un mondo che ci ha dato la radice e che cambiamenti molto veloci hanno polverizzato, anche se possiede una storia millenaria. Non posso essere nessuno solo perché in Inghilterra qualcuno fa un referendum e la Borsa crolla per cui non ho più un cazzo. Siamo in una civiltà in cui se non hai niente non sei nessuno, mentre io devo avere qualcosa che va al di là di questo. E vuol dire appartenere a una cultura. È sbagliato mettere delle frontiere, la burocrazia internazionale ci dovrebbe garantire la libera circolazione, ma non dovrebbe mai costringerci a un'omologazione del linguaggio: non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti la stessa storia. Io credo che i localismi, le particolarità, siano importanti. Però naturalmente non devono essere usati nel modo sbagliato. È sbagliato usarli in modo politico, non in modo culturale".
I concerti teatrali daranno spazio a un repertorio diverso: il lato lunare, il lato dello sterpo e dei fantasmi. Il lato degli ululati e dei rovi, dei rami che contro luna danno corpo alle creature della Cupa: il pumminale, il cane mannaro, la bestia nel grano...
Staremmo ad ascoltarlo ore, ma la festa incombe e prima di congedarsi, Capossela tiene a spendere due parole sulla sua nuova banda. "Un gruppo composito, che unisce radice e frontiera. Quando ho visto i Calexico per la prima volta nel 2001, mi aveva colpito il fatto che avessero con loro quattro mariachi. Noi non ne abbiamo quattro, ma due, però abbiamo anche due che suonano i tamburi a pressione, i cupa-cupa, questo strumento atavico che esiste anche in Africa. Li abbiamo presi da Tricarico e apportano al disco un elemento radicale. Nelle Canzoni della Cupa, insieme ai Calexico e ai Los Lobos, convivono dei maestri italiani come Antonio Infantino e Giovanna Marini. E poi c'è il giovane Francesco Lucisano alla chitarra battente, uno strumento molto nostro. Abbiamo messo insieme i mariachi, i cupa-cupa, le voci - sia Giovannangelo De Gennaro sia Enza Pagliara usano la voce, ma facendo anche ricerca sul repertorio, sulla canzone tradizionale. Poi c'è uno sperimentatore come Mirco Mariani, già nei Saluti da Saturno, che unisce mellotron, percussioni e voce. E infine i due chitarristi, Asso Stefana (assente in questa prima data) e Victor Herrera, chitarrista spagnolo e compagno di Josephine Foster. È un gruppo del tutto nuovo, che mi è anche costato fatica mettere insieme. Credo che esprima questa coralità, questa pluralità di voci caratteristica del mondo che evochiamo. E tutto avviene in una maniera un po' radicale, nel senso che ognuno fa il suo, ma non da solo, a coppie: due cupa-cupa, due trombe mariachi, due chitarre, due voci. Naturalmente il concerto di stasera era solo il primo vagito, l'affiatamento migliorerà". E poi seguirà la versione autunnale di Ombra... "I concerti teatrali daranno spazio a un repertorio diverso: il lato lunare, il lato dello sterpo e dei fantasmi. Il lato degli ululati e dei rovi, dei rami che contro luna danno corpo alle creature che si fanno vedere da uno solo alla volta per sfuggire alla classificazione zoologica. Sono le creature della Cupa: il pumminale, il cane mannaro, la bestia nel grano. Creature che prendono vita nelle canzoni".

In poco più di mezz'ora, ascoltando Vinicio Capossela, sembra di aver fatto un giro nel mondo e nel tempo. Dalle radici ad oggi, dalla contrada della Cupa alla Civiltà dell'orologio. E a guardare bene la punta delle scarpe, ora, sembra davvero impolverata.

(Roma, 28 giugno 2016)



Discografia

All'una e trentacinque circa (Cgd East West, 1990)7
Modì (Cgd East West, 1991)6,5
Camera a Sud (Cgd East West, 1994)7
Il ballo di San Vito (Cgd East West, 1996)7
Liveinvolvo (live, Cgd East West, 1998)8
Canzoni a manovella (Cgd East West, 2000)8
L'Indispensabile (antologia, Cgd East West, 2003)
Ovunque proteggi (Cgd East West, 2006)7,5
Nel niente sotto il sole - Grand tour 2006 (live, Atlantic/Warner Music)
Da solo (Cgd East West, 2008)5,5
Solo Show Alive (live, Atlantic/La Cùpa/Warner Music, 2009)
The Story-Faced Man (antologia, Nonesuch, 2010)
Marinai, profeti e balene (La Cùpa/Warner, 2011)7,5
Rebetiko Gymnastas (La Cùpa/Warner, 2012)6
Canzoni della Cupa (La Cùpa/Warner, 2016)7,5
Ballate per uomini e bestie (Warner, 2019)7,5
Tredici canzoni urgenti (Parlophon/Warner, 2023)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Vinicio Capossela su Ondarock