Dust

Alla ricerca dell'equilibrio

intervista di Stefano Bartolotta

Dopo aver apprezzato molto il loro disco di debutto, non potevamo farci sfuggire l'opportunità di rivolgere ai Dust un po' di domande via mail. Le risposte, ad opera del cantante Andrea D'Addato, mostrano l'attenzione che la band ha messo nel curare al meglio tutti i dettagli e i diversi aspetti del proprio lavoro e la passione nel farlo.

Voi presentate “Kind” come il vostro debutto discografico e questo disco come il vostro primo album. Qual è quindi la vostra visione di tutto ciò che avevate fatto prima? Dei lavori preparatori? Dei tentativi per trovare una vostra dimensione stilistica?
Direi che è esattamente così. I nostri primi lavori autoprodotti avevano innanzitutto l’obiettivo di consolidare l’alchimia del gruppo e iniziare a definire un’intenzione nell’interpretare i brani, mentre il songwriting risentiva della volontà di riprodurre fedelmente le sonorità delle nostre band preferite. Continuiamo però a nutrire un grande affetto per quelle registrazioni, proprio perché ci hanno aiutato a trovare una compattezza d’insieme che, a partire da “Kind”, abbiamo cominciato a trasformare nella ricerca di una cifra stilistica.

La cosa più interessante per ciò che sono i Dust adesso, secondo me, è la capacità di integrare tra loro il modo con cui i National hanno rivisitato in modo moderno la darkwave con ciò che allo stesso modo hanno fatto i Wilco con il classic rock americano. Se siete d’accordo con il modo in cui vedo la vostra musica ora, ditemi pure tutto quello che volete in proposito.
La ricerca di questo equilibrio è stato proprio uno degli obiettivi che ci siamo posti prima di iniziare a lavorare alle nuove canzoni. Certamente, i toni darkwave sono enfatizzati rispetto a “Kind”, anche per restituire attraverso la musica l’atmosfera ambigua, spesso spettrale, dei testi. Due riferimenti come National e Wilco forse presi da soli sono un po’ limitanti, ma possono servire a rappresentare bene i due volti di questo album, in cui una prima metà costituita essenzialmente da brani più cupi e carichi di tensione, dalla title track in poi inizia lentamente a colorarsi con qualche apertura pop.

Trovo che in questo disco ci siano molte belle melodie. Come sono nate? Qualcuno ha portato agli altri un’idea melodica già finita oppure si è partiti da una bozza e ci avete lavorato insieme?
Per la maggior parte delle canzoni, siamo partiti da una serie di bozze, basate su semplici riff di chitarra o giri di accordi e su linee vocali prive di testo. Quasi tutti questi scheletri di brani sono stati composti da me e Jimbo (Andrea Giambelli), a parte “I’m Not Here”, di cui Gabriele ha scritto la musica. Ognuno di noi ha poi ascoltato individualmente le bozze, elaborando più arrangiamenti possibili per la propria parte, in modo tale da suonarli poi tutti assieme con la possibilità di sperimentare soluzioni differenti. Ci sono stati molti casi in cui alcune intuizioni in fase di arrangiamento hanno contribuito a dare a posteriori un’identità alla canzone, come “Cinema Pt.1”, in cui il tempo scarno e percussivo di Muddy e la ritmica di Riccardo hanno definito un mondo sonoro a cui gli altri si sono adattati modificando le loro parti.

Oltre alle belle melodie, è ovviamente importante avere un suono che sia funzionale a esse, e qui secondo me ci sono ulteriori progressi rispetto a “Kind”, dove già eravate molto migliorati da questo punto di vista. Anche qui, vi chiedo semplicemente di dirmi tutto quello che volete in argomento.
Con “On The Go” siamo partiti da un’idea di sound molto più nitida che in passato, perché le nuove canzoni non avevano bisogno solo di arrangiamenti che definissero il giusto tiro, ma, per rendere al meglio, necessitavano anche di una veste che potesse contribuire a raccontarne i temi. Così, abbiamo scelto di ridurre l’epicità e il wall of sound di “Kind” per un’interpretazione più ombrosa e compassata. I nuovi brani appaiono più essenziali, per rappresentare un senso di tensione emotiva implosa; forse i cambiamenti decisivi sono riscontrabili nelle chitarre, più avvolgenti e meno aggressive, e in una batteria più asciutta, mentre i riverberi sulle voci e la base di synth, che entra ed esce costantemente, contribuiscono a creare una patina quasi spettrale. Sotto questo aspetto è necessario menzionare il contributo fornito da Simone Sproccati in fase di produzione, che ci ha dato una grossa mano a dare carattere e coerenza al sound globale.

Provando a far caso ai testi, ho notato un mood generale basato sull’incertezza, sulla voglia di trovare una propria strada e un proprio posto nel mondo. È effettivamente così?
Sì, diciamo che si tratta di un’incertezza legata innanzitutto all’identità dei protagonisti dei testi e degli spazi in cui questi si muovono. I testi, come le musiche, sono stati sottoposti a un procedimento di sottrazione e spesso raffigurano due individui (forse amanti, forse amici o, addirittura, fratelli) non identificati, che abitano uno spazio privo di riferimenti concreti. Queste figure indefinite, che sembrano muoversi nelle canzoni come dei fantasmi, sono la fotografia di un’intimità ambigua, dissolta, ma, comunque, necessaria. Quella di “trovare un proprio posto nel mondo”, come giustamente hai notato tu, è una tematica ricorrente che si traduce prima di tutto nel lasciare un traccia di sé nell’altro, nel creare una complicità.

Parlando di testi, non posso evitare la domanda sul brano in italiano presente nel disco. Vi chiedo di spiegare ai lettori che rapporto avete avuto con la lingua italiana negli ultimi due anni.
Il nostro rapporto con la scrittura in italiano, in realtà, è molto controverso. Siamo sempre stati particolarmente affascinati dal pensiero di come possano suonare i Dust in italiano, tant’è che, nel corso degli ultimi due anni, abbiamo scritto qualche brano nella nostra lingua. Dopo aver suonato quelle canzoni dal vivo, però, ci siamo resi conto che non ce le sentivamo pienamente cucite addosso, forse perché la musica dei Dust ha sempre vissuto sul contrasto tra l’emotività dell’interpretazione e un certo distacco reso possibile dalla lingua inglese. Ciononostante, abbiamo comunque deciso di inserire nel disco “Nell’Aria”, una canzone quasi totalmente strumentale in cui le poche parole cantate sono in italiano, perché avevamo bisogno di un brano che distendesse il ritmo, ma che fosse anche destabilizzante. Così, il ritorno al punto di partenza sancito dalla successiva “Cinema Pt.2” sarebbe sembrato ancora più intenso.

Questo disco secondo me ha la capacità di colpire subito l’ascoltatore ma richiede anche una certa attenzione nell’ascolto per capirne in pieno tutte le sfumature, insomma non sembra fatto per l’attitudine quasi bulimica e usa e getta che ha la maggioranza degli ascoltatori di oggi. Temete un po’ che il disco venga ascoltato un paio di volte e poi abbandonato, non perché non piaccia ma perché richiede troppo tempo e sforzo? Non ditemi che non è una cosa che vi interessa, dall’ascolto si percepisce un enorme lavoro svolto quindi non ci crederei mai se diceste che l’avete fatto solo per voi stessi.
Sicuramente, questa svolta è emersa da una nostra esigenza di provare nuove soluzioni sul sound dei Dust, ma fare un disco solo per noi stessi sarebbe ingrato nei confronti di chi ci ascolta. Siamo più che consapevoli del fatto che “On The Go” richiederà un po’ di tempo prima di coinvolgere l’ascoltatore e che si adatta poco all’attitudine usa e getta della musica contemporanea. Però, abbiamo anche piena fiducia in chi ci ascolta e crediamo che, grazie anche alla scelta dei singoli e relativi videoclip e al modo in cui le nuove canzoni verranno interpretate sul palco, “On The Go” possa essere apprezzato anche da chi inizialmente si chiederà dov’è finito il wall of sound di “Kind”.

Mi aspetto che dal vivo il suono sia piuttosto fedele a quello del disco, è così?
Il live è probabilmente la dimensione in cui ci sentiamo più a nostro agio, che ci permette di esprimere le atmosfere create durante le registrazioni in maniera più intensa. Il lavoro fatto in studio, soprattutto dal punto di vista dei suoni, è la base su cui si regge tutta l’esperienza del concerto, tuttavia il nostro approccio live è sempre piuttosto interpretativo, lasciando spazio in quasi ogni brano a delle parti improvvisate. Gli arrangiamenti sono sempre in continua evoluzione e difficilmente la versione di un pezzo sentita a un concerto sarà uguale a quella precedente.

Almeno due di voi fanno parte anche di altri progetti e in passato non avete mai disdegnato di collaborare con altri gruppi. Quanto è importante confrontarsi con altri contesti e altri musicisti? Pensate che serva solo quando si è in fase “di crescita”, oppure sentite che non si finisca mai di imparare dagli altri anche quando si è “arrivati”? Sempre che vi sentiate arrivati, in effetti.
Credo che il sentirsi arrivati sia uno dei pensieri più dannosi che possano crearsi nella testa di un musicista, o di un creativo in generale. La cosa più bella del fare musica è proprio la voglia di stupire se stessi prima ancora del pubblico e il mettersi sempre in discussione è indispensabile per poterci riuscire. Al momento, quattro Dust su sei sono impegnati in progetti paralleli, proprio per l’esigenza di confrontarsi con altre realtà e mettersi in gioco, infatti sia Donnie Lybra che Red Roosters si distaccano parecchio dai Dust soprattutto dal punto di vista della scrittura. Queste esperienze portano inevitabilmente a delle piccole contaminazioni anche nei nostri arrangiamenti, basti pensare che alcune parti di tastiera di “On The Go” sono state arrangiate e suonate da Roberto Redondi dei Donnie Lybra, prima di lui non avremmo mai pensato nemmeno lontanamente a un arrangiamento di synth come quello di “If I Die”.

Seguo la musica italiana da molto tempo e mi sembra che mai come ora ci sia un gran fermento nell’hinterland nord di Milano e nella parte della Brianza più vicina al capoluogo meneghino. È così, oppure c’è sempre stato ma è solo ora che sta venendo più alla luce?
Nel corso degli anni, ci è capitato di ascoltare un sacco di progetti validissimi provenienti dalla provincia a nord di Milano e dalla Brianza e con alcune di queste band si è anche instaurato un rapporto di amicizia che va al di là dell’ammirazione. La cosa che abbiamo notato in tutto questo tempo è che dalle province nasce della musica non migliore, ma più particolare rispetto a quella di progetti “cittadini”, probabilmente anche per via della lontananza da alcune dinamiche un po’ più mondane e modaiole della scena indie delle aree metropolitane.



Discografia

Kind Ep (Tomobiki, 2012)
On The Go (Sherpa Records, 2015)
Pietra miliare
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