Aldo Tagliapietra

Sulle Orme del prog melodico

intervista di Davide Sechi

Metti una serata con Aldo Tagliapietra. Dalle verità nascoste alle sue verità. A volte basta un saluto iniziale, quasi imbarazzato per scaldare l’atmosfera, per sentirsi vicini anche se non ci si conosce, anche se ci si trova lontani di qualche chilometro, collegati solo da una linea telefonica. Quel tono di voce caldo, profondo, certo lontano dal suggestivo falsetto che rese particolari Le Orme. Poche battute per far finta di andare d’accordo, qualche istante ancora per rendersi conto che sì, si potrebbe persino andare a cena insieme, magari di fronte a un caminetto, a raccontarsi, a confrontarsi. Aldo Tagliapietra, uno dei titolari del cambio di marcia del pop made in Italy (il "Collage" improvvisamente completato nel lontano 1971), è l’emblema del fuoriclasse dotato di umiltà, per dirla alla Arrigo Sacchi, capace di sostenere la baracca, di soffrire in mezzo al gruppo ma abile anche nella classica stoccata finale. L’ultima è di quelle decisive, che sanno di trionfo, vissuto però sempre in punta di piedi: un disco, “L’Angelo Rinchiuso”, chiusura del cerchio insperata e possibile propulsore per un ennesimo colpo di reni; un libro biografico, tra trionfi e momenti dolorosi, ancora una volta vissuti con una leggerezza d’animo da primatista del mondo.

E’ stato un autunno caldo, tra biografia ("Le Mie Verità Nascoste" - Arcana) e nuovo disco. “L’angelo rinchiuso” profuma di prog, ma è fresco, potente.
La classica ciambella uscita con il buco. Ritengo che sia uno dei miei dischi più rappresentativi. E’ uscito 40 anni dopo “Felona e Sorona”, un’opera a cui sono ancora molto affezionato, in cui misi molto di me stesso, e che penso mi abbia indicato la strada giusta da percorrere. L’Angelo è un alter ego, una visione, in cui io mi scopro. Un disco venuto di getto, ispirato, sia per quel che concerne la musica sia per quanto riguarda i testi. Durante la mia vita artistica ho composto cinque album solisti, quasi tutti realizzati però quando facevo parte delle Orme, con la conseguente voglia di fare sempre qualche cosa di differente. Ed ecco perché ripresi le mie radici blues, come accadde nel 1984 per “Nella Notte”, dove sperimentai molto, anche vocalmente, abbassando le tonalità, ma anche “Il Viaggio”, nato e cresciuto sotto l’influsso del sitar; tutti dischi realizzati in antitesi con la realtà delle Orme. Oggi non faccio più parte del gruppo e allora posso andare a briglie sciolte, riprendendo quelle formule che resero celebri Le Orme e diedero il via al movimento prog italiano.

Un passato che però non sembra ripreso in una prospettiva nostalgica, ma vissuto come qualcosa di attuale, con una componente introspettiva posta in primo piano.
Credo che sia vero. Il problema di quando si lavora in un gruppo sta nella difficoltà che il singolo componente venga conosciuto nel suo intimo, c’è più una visione di insieme. Ecco perché ho accettato di scrivere una biografia, per far capire chi sia veramente.

Vogliamo spendere un pensiero per i membri della tua band?
Sono stato fortunato nell’incontrare questi giovani dotati di una simile competenza musicale, anche a livello classico; musicisti che se gli chiedi dei passaggi relativi, che so, agli Yes te li suonano senza nessuna difficoltà. Con loro non serve neanche parlare, basta uno sguardo per intendersi.

Il nuovo album profuma di un prog fresco, impattante, con pochi orpelli, suggestivo ma diretto.
Io lo definisco prog melodico. Io sono un melodista doc, la melodia viene prima di tutto. E’ presente ovunque, in tutta la struttura. L’album è stato realizzato dal vivo, suonando tutti insieme, come accadeva negli anni 70. Mi è sempre piaciuta la dimensione live, ha quella componente di potenza che ti entra nello stomaco.

Cominciamo ad aprire l’album dei ricordi: Le Orme prima di diventare un’icona del prog, sono stati uno dei primi esempi italiani di pop psichedelico. Era il periodo con Nino Smeraldi. L’album era “Ad Gloriam”.
Alla fine degli anni 60, i gruppi venivano dal beat, si pensi ai Pink Floyd di Syd Barrett. Il nostro Syd era proprio Smeraldi. Siamo tutti passati, insieme, alla psichedelica. L’avvento di Hendrix cambiò tutto. Esplosero i Cream, con Clapton che veniva dal blues. E anche Le Orme sentirono l’esigenza di sentirsi psichedelici, con la differenza che all’estero ci si drogava parecchio, mentre in Italia era tutto a livello parrocchiale. La nostra droga massima era un bicchiere di vino. Le prime Orme vedevano il tutto come una fede, erano quasi degli automi che andavano lungo la strada della musica, non esisteva altro. Al punto che negli anni 70, quando tutto era politicizzato, noi ci tenemmo fuori, eravamo proprio talebani della musica. “Ad Gloriam”? Lo ascolto ancora oggi, quando accolgo qualche amico a cena, le suono sempre, “Milano 1968” o “Mita Mita” sono canzoni che ritengo ancora molto belle.

Nel 1970 arriva la svolta, l’Inghilterra diventa il centro di tutto, anche per voi. Cosa rappresentò quel viaggio verso il Festival di Wight?
Fu un viaggio romantico e moto avventuroso. Smeraldi abbandonò il gruppo, ci ritrovammo in tre, per cause di forza maggiore (per esempio, il nostro primo batterista fu catturato dal servizio militare, una jattura dell’epoca). Ci accorgemmo che parecchi gruppi si muovevano in trio, hammond, basso e batteria: citerei i Quatermass, gli Atomic Rooster, i Nice (anche se la principio avevano anche un chitarrista). Ci dicemmo: se questi ce la fanno in tre, perché noi no? Abbiamo quindi deciso di andare nella tana del lupo per vedere come stavano andando le cose. Quando siamo tornati abbiamo deciso di proseguire su quella strada, che un tempo era chiamata pop, che non aveva lo stesso significato che gli si dà oggi, all’epoca era qualcosa di legato all’arte, alla pittura.

Greg Lake è stato un po’ il tuo alter ego britannico. Si narra che qualche anno fa abbiate diviso il palco.
Conoscemmo gli ELP a Londra nel 1972. Passavamo spesso per la capitale britannica, per vedere, per respirare, per comprare i vestiti introvabili in Italia. Finimmo a casa di Emerson: era reduce dalla doccia e fu gentilissimo. Nacque più che un’amicizia, una stima reciproca. Gli facemmo ascoltare “Collage” e rimase a bocca aperta, non pensava che in Italia si suonasse così. “Collage” nacque anche ispirandosi a loro. Un paio di anni fa sono salito sul palco con Lake e Bernardo Lanzetti e abbiamo intonato “Lucky Man”. Lake come me passò al basso per necessità; in origine era un chitarrista, un autore di ballate. La stessa cosa accadde a Paul McCartney: chi suona il basso? Ah, tocca a me, ok! Ancora oggi le ballate di Greg sono spettacolari, bellissime, semplici e un po’ ieratiche, mi rivedo nel suo mondo. E non dimentichiamo che “Lucky Man” non piacque all’inizio a Emerson, il quale non voleva neanche metterla su disco, ritenendola troppo distante da quello che il gruppo stava facendo, troppo folk. Emerson fece un favore a Lake inserendo il moog, che poi è quello che si sente su disco, un intervento buono alla prima. Keith era più interessato agli arrangiamenti, agli interventi strumentali. E si arrabbiò di brutto quando scoprì che in America era la canzone più trasmessa. Quando la canzone è bella, anche se semplice, va benissimo, al diavolo le ideologie. Prendi John Wetton, altro ballader: “Book Of Saturday” ha due accordi ed è bellissima. La musica funziona anche senza tremila cambi, abbiamo bisogno anche di momenti rilassanti.

Cosa ricordi di “Gioco di Bimba”? Il brano che vi rese celebri poteva contare su un testo di Toni Pagliucca che ancora oggi appare controverso: è vero che c’è qualcosa di torbido nelle parole?
I testi dell’epoca erano un po’ onirici, ed esistono varie ipotesi su quel testo, qualcuno ha parlato di uno stupro di una bambina. Ma la musica è come la pittura, spesso non ha bisogno di significati esagerati, ognuno ha il proprio. Conta l’emozione, se non la trovi vuol dire che non funziona.

Arriva "Collage": una copertina un po’ strana, inquietante.
La copertina doveva avere un respiro bucolico, il lavoro fu commissionato a Mario Convertino. Andammo con lui in un cimitero sconsacrato, fuori Milano. Mario ci dipinse di bianco, scavalcammo, scattammo il tutto e poi ritornammo per strada, ancora truccati, con la gente che ci guardava un po’ spaventata. La casa discografica voleva qualcosa di scioccante, sulla scia di recenti esperienze britanniche, come gli Atomic Rooster e i Black Sabbath. Fu una sorta di imposizione, una delle poche. L’altra fu per il disco live, che noi volevamo fosse distribuito a prezzo ridotto; dissero di sì, invece uscì come disco nuovo a prezzo pieno.

Prezzo politico. Quindi anche voi eravate sensibili alle cause giovanili dell’epoca, la musica deve essere di tutti, magari gratuita; poi volarono le molotov e nessuno tornò a suonare in Italia. Come la vedevate?
Noi abbiamo subito tutta la storia della musica gratis, anche più degli altri, perché ci autogestivamo, senza agenzia. Avevamo una specie di manager, Vernazza, che lavorava anche con i New Trolls. Quindi affittavamo i teatri e tutto il guadagno era nostro, e non era molto, i teatri non erano capienti, ci toccava suonare due volte al giorno. E spesso, tra le contestazioni, ce ne ritornavamo a casa senza una lira. E il pubblico magari faceva anche dei danni alle strutture e chi pagava? Noi. Così, negli anni 70, abbiamo guadagnato pochino. Solo a partire dagli anni 80 sono arrivate maggiori soddisfazioni finanziarie, grazie alle nuove edizioni, al cd, alle rimasterizzazioni.

Al di là dell'orgoglio personale e dell'affetto, quanto ritieni siano state fondamentali per la storia del pop rock le vicende del progressive italiano? Te lo chiedo perché non sono pochi quelli che, in contrapposizione alle folte schiere degli affezionati, ricordano quei tragitti come mere fotocopie delle esperienze anglofone.
E’ vero, non lo nego, soprattutto all’inizio, ma poi ci mettemmo a fare cose nostre. Il bagaglio musicale italiano c’era eccome, si pensi al Banco, e ai suoi riferimenti alla lirica. I gruppi italiani della prima generazione sono nati all'inizio degli anni 60, nel periodo beat. E' ovvio che, non avendo una cultura rock alle spalle, hanno dovuto per forza di cose imitare i gruppi inglesi e americani. Si veniva da una situazione musicale a dir poco imbarazzante: nel mondo si conosceva solamente "O sole mio" e "Volare", il resto non esisteva. Fu nel '70-'71 che le cose cominciarono a cambiare. Le band iniziarono a prendere coscienza delle loro capacità e produssero del materiale originale influenzato dalla musica popolare e, a volte, dalla classica o addirittura dalla lirica. Noi Orme, avevamo alle spalle studi classici e questo influenzò molto il nostro modo di scrivere. Io avevo la licenza di teoria e solfeggio, Tony si stava preparando per lo stesso esame, anche se poi vi rinunciò, e Michi studiava con il percussionista della Fenice, Eddy De Fanti. Personalmente io ero molto attratto anche dalle ballate popolari e per Le Orme ne ho scritte molte essendo soprattutto un chitarrista acustico.

Si dice che l’era del prog sia finita nel 1975 e tutti, compresi voi, si siano dati alla musica leggera.
In parte è vero: quando esplose la disco music, e si attuò un cambiamento generazionale, tutto quello che c’era prima fu spazzato via. Ci trovammo, dal giorno alla notte, senza richieste e pubblico. Negli anni 80 non esistevamo più. Ed ecco che per un fatto di sopravvivenza, ci è toccato partecipare a due Festival di Sanremo. Ma non intendevamo commercializzarci, ma farci vedere, provando a creare qualcosa di nuovo.

Nel 1975 finiste però per soggiornare a Los Angeles.
Conoscevamo Armando Gallo, un giornalista nato dalle nostre parti, poi trasferitosi a Roma e in seguito corrispondente londinese, con moglie britannica, di Ciao 2001. A lui dobbiamo molto. Nel 1973-74 Armando fece armi e bagagli e si trasferì a Los Angeles. L’anno dopo noi prendemmo un chitarrista, Tolo Marton. Chiamammo Armando e ci autoinvitammo. Eravamo convinti che la California ci avrebbe dato nuove ispirazioni. Pagliuca ci sperava molto, io da artigiano ero più dubbioso, previdente, e avevo già scritto dei pezzi. Portammo quelle composizioni a LA per lavorarle, ma non andò bene. E meno male che lì realizzammo almeno “Amico di Ieri”: una mattina imbracciai la chitarra, scrissi il testo, che parlava del vento e della sabbia che sia alzavano ogni mattina da quelle parti. Ma “SmogMagica” non lo trovo riuscito; può vantare quattro brani buoni, ma altri due o tre da buttare. Sono sempre stato insoddisfatto di quel disco.

Nel 1976 fu invece la volta di Londra.
Ci proposero di lavorare con Vangelis nel suo studio Nemo. Dicemmo di sì, il che voleva dire stare lì almeno un mese. Incontrammo Vangelis, andammo a casa sua. Lo ricordo in compagnia di due levrieri, accovacciato su una sedia ovale, con la musica in filodiffusione. Lo studio fissato per le nove del giorno dopo: cominciammo a registrare, ma Vangelis non si fece vedere. Alla fine non lo vedemmo più. Così il disco ce lo producemmo da soli, in uno studio fotografico, con un’acustica non adatta. Vangelis adoperava il suono in diretta, non era interessato all’acustica, ci andava diritto con i suoi synth. Ma a noi serviva l’acustica, avevamo la batteria, le chitarre. Tutto sommato, anche grazie all’aiuto di Germano Serafin alla sei corde, facemmo un bel lavoro, direi molto bello. A Parigi, l’anno dopo, per “Storia e Leggenda” andò ancora meglio. Per “Verità Nascoste” fu pianificata anche una versione inglese; venne in mente a un funzionario britannico della casa discografica. Prendemmo le basi e andammo nello studio dei 10CC, ricantammo tutto in inglese. Ma alla fine il disco non uscì mai e nessuno ne possiede una copia. Io ho una specie di cassetta, ma non il master. E’ andato perso, come pure quello di “Felona e Sorona”.

Leggendo la tua biografia, “Le mie verità nascoste”, ne viene fuori il quadro di una persona molto attaccata a radici e famiglie, con poche distrazioni, e molta musica.
Come detto eravamo quasi dei talebani e spesso anche la famiglia è finita in secondo piano. Una famiglia in cui l’artista non c’era, c’era solo il marito e il padre. Non ho mai portato quella parte a casa. Non mi sono mai sentito una rockstar, neanche sul palco, meglio stare in disparte. Non mi è neanche mai piaciuto essere riconosciuto. Non parlo di fastidio ma di imbarazzo. Ho sempre cercato di essere prima di tutto onesto, una qualità che spero si avverta nell’Angelo. L’ho voluto realizzare quasi come se fosse l’ultimo disco. Anche se ho già sette-otto pezzi che trovo bellissimi, oso dire migliori di quelli dell’ultimo album. Perché se io non lavoro non so che fa fare…

“Storia e leggenda” ha qualche richiamo all’allora nascente new wave, con delle soluzioni che sembrano anticipare il Battiato più celebre.
Abbiamo sempre voluto rischiare. Con Battiato siamo amici, anche se non ci sentiamo più così spesso.

Cosa vi saltò in mente ai tempi di “Florian”? Un disco di musica da camera
Abbiamo fatto come i “Salmoni”, siamo andati controcorrente. Siamo rimasti scioccati dal successo della disco, ci siamo presi tre anni e abbiamo studiato gli strumenti classici. Con il violoncello ho sudato con la mano destra, l’archetto è quello che tira fuori il suono. Farlo da piccoli è il segreto, ma all’epoca ero già un 33enne.

Gli anni 80: “Venerdì” suona decisamente wave, ne fosti soddisfatto?
Ci accorgemmo che la musica stava andando in una direzione elettronica. Volevamo seguirla pur mantenendo la nostra orma, e secondo me ci riuscimmo. Eravamo convinti fosse un buon lavoro ma non andò bene e ci ripensai. Però poi l’ho rivalutato: è pieno di situazioni insolite, riuscite, oggi mi piace ancora di più.

Sanremo 1982: nel bel mezzo della manifestazione, Toni Pagliuca fuggì via; che accadde?
Non stava bene spiritualmente, era inquieto, vedeva cose che non esistevano, non voleva presentarsi sul palco, creare uno scandalo. Andò via. Allora al Festival non si suonava dal vivo ma completamente in playback. Il direttore del Festival, Ravera, chiese se qualcuno tra i partecipanti se le sentisse di cantare dal vivo,. Noi fummo tra i pochissimi, con Claudio Villa e Mia Martini. Salimmo comunque sul palco, con Roberto Colombo, grande e stimolante produttore, che fece la parte di Pagliuca. Tornati a casa, ci dicemmo che Le Orme avevano chiuso, dopo anni di contrasti umani. Sanremo fu solo il clou.

Sanremo 1987, un nuovo ritorno con "Dimmi Cos’è". Le telecamere restituirono un’immagine di Tagliapietra sorprendentemente emozionato.
Lo facemmo perché era lo spettacolo più importante con milioni di spettatori ma con un pressapochismo tecnico incredibile. Non riuscivamo a sentirci, sbagliai l’attacco. Non ero emozionato, anche se venivamo da cinque anni di assenza e la platea era enorme; gli unici problemi furono tecnici.

I cantanti prog italiani: si è spesso detto che ci fosse carenza
Non dimenticherei Bernardo Lanzetti. Il problema è che molti di noi non hanno cominciato con l’idea di cantare. Anche oggi in questo senso avverto delle pecche. Il musicista italiano è spesso preso dallo strumento e non considera la voce. In America è l’opposto. Il Banco e Le Orme, con voci magari non subito apprezzate, ricordiamo che Smeraldi mi voleva sostituire con un austriaco, non sarebbero stati gli stessi. La PFM, straordinaria strumentalmente, non aveva un cantante, una volte ci provava Mussida, un'altra Premoli. Poi arrivò Lanzetti e la Premiata fece secondo me le sue cose migliori.

Cosa pensi della scena prog attuale? Ti senti parte di essa? Ritieni che abbia ancora ragione di esistere?
Attualmente esistono secondo me due tipi di musica progressiva: quella stile anni 70, che può essere interpretata come una sorta di rock classico e che ha degli schemi obbligati, e un prog moderno, più elaborato, più tecnico, ma relegato a una elite di fruitori molto ristretta.


(Si ringrazia per la collaborazione Marco Bercella)

(Ascolta la puntata di Blah Blah Blah - OndaRock On air)

***

Tra Orme e ombre

di Gianfranco Marmoro

Protagonisti della grande era del rock italiano, Le Orme rappresentano il punto di contatto tra la magniloquenza del progressive made in Italy e le velleità più pop della tradizione italiana. Pur concentrando tre musicisti di notevole caratura tecnica la voce di Aldo Tagliapietra resta un elemento di distinguo della band veneta. L’incontro con l’ex cantante della band è molto amichevole e disinvolto, la cornice festosa del Vinyl Fest di Salerno rende tutto molto cordiale e spontaneo. Figura imponente e ricca di un fascino antico e fiabesco Aldo Tagliapietra sembra molto disponibile ad aprire i ricordi della sua carriera con Le Orme.

Quanto è stato importante essere i protagonisti della prima uscita discografica di un gruppo rock-progressive italiano?
In verità fu solo un evento fortunato, il movimento italiano era già ben definito e vivace, la pubblicazione del nostro primo album fu importante ma nulla sarebbe cambiato se Pfm, Banco o altri ci avessero preceduto.

Il tuo timbro vocale era abbastanza atipico, una scelta rischiosa per una band rock...
In verità fu per puro caso che diventai il cantante del gruppo, nessun altro di noi aveva voglia di cantare, così presi coraggio cercando di ispirarmi alle voci più innovative del rock inglese.

La carriera delle Orme è stata caratterizzata da un successo in paesi diversi tra loro, cosa ne pensi?
Anche se l’Inghilterra si interessò molto alla nostra produzione, furono gli americani e i messicani i fan più vivaci fuori dai confini italiani, oltre ai giapponesi che si sono dimostrati dei veri divoratori della nostra tradizione progressive, pubblicando delle ristampe digipack che sono ora tra le perle più ricercate dai collezionisti.

È stato piacevole scoprire che l’autore della copertina del tuo ultimo album è una vecchia conoscenza, ovvero Paul Whitehead. Ci sveli i retroscena di questa collaborazione?
Paul è sempre rimasto in contatto con la band delle Orme, negli ultimi anni poi un’amicizia sempre più intensa ci lega e ci tiene in costante contatto, è stato naturale per lui disegnare la copertina del mio album, spero che questo sodalizio artistico duri ancora

Una delle canzoni che caratterizza il vostro percorso musicale è “Se Io Lavoro”, un brano pop che sembrò un tradimento delle vostre intenzioni iniziali, ma nonostante tutto interessante e atipico, il testo è tuo?
C’è una storia divertente dietro quella canzone, stavo in bagno leggendo un articolo di Sorrisi e Canzoni, in un'intervista Maurizio Costanzo affermava “se io lavoro è perché non so che fare”, una frase che mi sembrò rubata ai miei pensieri, non c’era modo migliore per raccontare la mia storia ed ecco che scrissi il brano in una versione acustica che aveva ben poco in comune con quella pubblicata su 45 giri, le tastiere suonano molto diverse dal solito perché era nostra intenzione farne una canzone radiofonica.

A quale album delle Orme sei particolarmente legato?
Credo che “Felona e Sorona” rappresenti al meglio la nostra carriera, un album che non sembra aver perso il fascino dell’epoca.

Credo che sia anche uno dei pochi album il cui simbolismo regga il confronto con il cinismo contemporaneo...
Sono convinto che sia un album ancora attuale e valido musicalmente, ed è stato il mio punto di riferimento per il prossimo album concept che uscirà a breve "L'angelo rinchiuso".
 
Parlaci della tua tournée...
È un'esperienza interessante che servirà a calibrare al meglio il suono del prossimo album, con viola, sitar e piano credo di aver trovato una giusta collocazione live, almeno per questo momento della mia carriera.

È come un nuovo inizio?
Mmm, sì.

Qual è l’elemento diverso della tua musica come solista rispetto alla band delle Orme?
Stranamente il ritmo. Con Le Orme era impossibile sperimentare soluzioni diverse, è una delle cose che oggi posso fare senza problemi o impedimenti.

Cosa ascolti?
Ascolto molta musica indiana, mi affascina da molti anni e l'ho anche introdotta nella mia musica, ascolto molta musica classica e la band di mio figlio (i Former Life).

Se avessi potuto far parte di una band della grande stagione prog inglese, chi avresti scelto?
Sicuramente Genesis e Emerson Lake & Palmer, e ovviamente gli Yes.

A questo punto gli impegni di Aldo Tagliapietra ci costringono a chiudere la piacevole conversazione, giusto qualche scambio di battute amichevoli con Lino Vairetti degli Osanna e uno scherzoso invito a realizzare un album prog-rock cantato in napoletano da Aldo e poi foto e sorrisi spontanei per un musicista che si dimostra ancora vivace e attento alla musica come esperienza artistica e spirituale.

Discografia

...Nella notte (Holly Records, 1984)
Radio Londra (Electromantic, 1992/1999)
Il viaggio (Club Il Giardino, 2008)
Unplugged (2 cd, Azzurra Music, 2011)
Nella pietra e nel vento (Clamore/Self, 2012)6,5
L'angelo rinchiuso (Clamore 2013)8
Pietra miliare
Consigliato da OR

Aldo Tagliapietra su Ondarock

Vai alla scheda artista

Aldo Tagliapietra sul web

Sito ufficiale
Facebook