Klaus Schulze

Klaus Schulze

Il corriere cosmico

"Corriere cosmico", polistrumentista, antesignano della new age, Klaus Schulze è una figura-chiave per decifrare l'evoluzione della musica elettronica degli ultimi trent'anni. Dall'esordio folgorante di "Irrlicht" fino agli eterogenei progetti degli ultimi anni, ecco la sua storia, i suoi dischi, la sua filosofia d'artista

di Claudio Fabretti + AA. VV.

Il "kraut-rock" è stato uno dei movimenti musicali più rivoluzionari del XX secolo. Le virgolette sono d'obbligo, poiché, a rigore, si dovrebbe parlare piuttosto di un clima diffuso, in una Germania - quella a cavallo tra i Sessanta e i Settanta – esposta, ormai senza più difese, alle urticanti radiazioni del rock d'oltremanica e d'oltreoceano. Clima diffuso, si diceva: anche perché non vi fu omogeneità di stili e d'intenti. Tuttavia, almeno per le compagini più lungimiranti, si potrebbe parlare di una comune volontà avanguardistica; iconoclasta, spesso oltranzista. Il kraut-rock (questo il nome, venato di ironia, con cui si volle definire il rock tedesco di allora) volle partire dagli esperimenti di Stockhausen; tenne conto di certo free-jazz; s'innamorò della psichedelia; rispolverò l'espressionismo. Nello stesso tempo, andava rivolgendo lo sguardo in alto; molto in alto. Era il preludio alla nascita della "musica cosmica", ove quell'aggettivo indicava tanto uno stile, quanto un afflato universale.

All'origine, i Tangerine Dream (la band che codificò il genere), persi, inizialmente, nel vano tentativo di veleggiare al largo sulla scia dei primissimi Pink Floyd ("Electronic Meditations"). Poi, la svolta: "Alpha Centauri", "Zeit", "Atem"… ovvero, l'incanto, la meraviglia, l'estasi di fronte agli spazi siderali. Ma, come dire?, un abbandonarsi, andando alla deriva, che non era esente da sottili sfumature interiori, invero tormentate, drammatiche.
Klaus Schulze (Berlino, 1947), che aveva militato nella band di Edgar Froese, dopo un periodo negli Ash Ra Tempel (Manuel Göttsching, altro viandante cosmico…), se ne ricorda quando, messe da parte le esitazioni, nel 1971 decide di scandagliare in prima persona lo spazio. Dirà in seguito che stava cercando un modo per dare sfogo alla sua fantasia. Musicalmente, il progetto di Schulze si concretizza in un peculiare uso di sintetizzatori, moog e sequencer, finalizzato a creare lunghe suite liquide, racchiuse in pochi, ma suggestivi accordi, e immerse in atmosfere oniriche.
Nell'universo dei Tangerine Dream, i suoni si accumulavano a grappoli, ognuno dei quali spesso seguiva una sua lenta evoluzione spazio-temporale. Ma l'uomo di Berlino pensa a Wagner. Ha in mente una "Endlose Melodie", una sorta di melodia "esponenziale", che si nutre di se stessa e da se stessa trae visioni sconfinate. 

L'esordio è dirompente: Irrlicht (1971), la vetta più alta da cui il rock abbia mai guardato le stelle.
L'opera, suddivisa in tre movimenti ("Ebene", "Gewitter" e "Exil Sils Maria"), è uno dei grandi capolavori della "kosmische musik" e della storia del rock. Schulze suona organo, chitarra, percussioni e crea il suono di un'orchestra attraverso diversi strumenti elettronici. "Quadrophonische Symphonie für Orchester und E-Maschinen" si legge nel sottotitolo. In pratica, l'orchestrazione di un tormento, di un'inquietudine, di uno spasmo gelido che lascia vibrare la mente e il cuore dinanzi al mistero dell'illimitato, che, mentre spinge alla sublimazione, evidenzia, di sfuggita, la finitezza del genere umano. L'incanto svela la tragedia di un vagare senza direzioni. "Smarrimento" potrebbe essere un termine appropriato. Smarrimento che esige forme mutevoli, sfuggenti.
Il primo movimento, "Ebene" (23'25"), viene introdotto da un sibilo di tastiere, manco a dirlo, "astrale". Una vibrazione magmatica, fluorescente, dipana un'atmosfera thriller, mentre i violini iniziano a crepitare in lontananza. La potenza immaginativo-descrittiva sviluppata è impressionante. La "Orchester", filtrata dai meandri tortuosi delle "E-Maschinen", è responsabile di una intensità spaventosa, spia dello scontro tra l'uomo (la sua "sehnsucht") e il cosmo, con il suo muto, immobile, accadere. Gli accordi filiformi del synth troneggiano in un fondale vuoto. Droni raccapriccianti ondeggiano rovinosi sulla superficie del silenzio. Il suono si dilata fino all'inverosimile, vertiginosamente, in un terribile delirio di paura.
Schulze condensa il tutto in un mistico amplesso tra musica ambientale ante-litteram e sussulti cosmici. Ma è un "ambiente totalizzante" quello con cui deve fare i conti. Perciò, gli è impossibile descriverne i caratteri atmosferici con semplici pennellate. Ha necessità, dunque, di disporre anche di tonalità metafisiche, impalpabili. Così, i continuum e i suoni protratti all'infinito spostano ulteriormente il baricentro di questo "sinfonismo astrale" verso dimensioni parallele. Anche lo spazio, allora, così come il tempo, risulta essere trasposto, riconfigurato su di una matrice espressionista.
A 9'56", preannunciato da scie abbaglianti che precipitano da qualche costellazione incenerita, l'organo a canne si protende, disperato, in un volo solenne, incastonato in un lago di vortici atterriti. Come un Ulisse moderno, Schulze depone ogni remora e oltrepassa colonne su colonne. La progressione si fa sempre più insostenibile e cadenzata, fino al collasso, liberato in un'esplosione catastrofica.
La musica si accartoccia su se stessa ("Gewitter – Energy rise energy collapse"; 5'38"), impietosamente ridotta a riverbero sintetico senza più l'ardore di "sintetizzare" l'ebbrezza del volo ascensionale, intergalattico, ultra-terreno. E', dunque, la stasi: avvolgente come una nebulosa. Placata la sua temerarietà incandescente, l'organo tesse micro-vibrazioni che sfioriscono esauste, come fiamme strozzate.
Nel terzo movimento, "Exil Sils Maria" (21'27"), il cosmo è ormai già l'inferno adombrato di barlumi paradisiaci. Alla prodigiosa forza titanica di "Ebene" subentra la disperazione del nulla. Lo spazio è definitivamente declassato a mero ammasso di asteroidi impazziti e di pulsar agonizzanti. Come erosa da una de-strutturazione interna, la mimesi cosmica sembra a questo punto capovolgersi in pura apologia del negativo. In questa "spazializzazione psichica del suono" (per dirla con Iannis Xenakis), il flusso emozionale e ininterrotto della psiche trova la sua massima espressività. Poi, proprio mentre la rarefazione ipnotica viene opposta all'intensità del primo movimento, l'indugiare stordito della musica – tra le vibrazioni minacciose e i rumori siderali continui prodotti dai sintetizzatori - si tramuta in una spirale ossessiva. Ma è un'ossessione pacata, invero rassegnata. A 12'48", una luce inquietante (la luce raminga, la "irrlicht"…) sorge dal bordo dell'eternità. E' probabile ci siano scenari sovraumani a emanarne lo splendore irrequieto. Ma ormai il Suono ha più di un presagio di morte. Tra galassie incenerite ed echi riverberati da abissi ancestrali, si lascia inghiottire da quella polifonia del vuoto che è la vera essenza della sublime magnificenza di Irrlicht.

In bilico tra le sinfonie più maestose di Wagner e la psichedelia spaziale dei primi Pink Floyd, Schulze compone un doppio album, Cyborg, che raccoglie quattro nuove suite di venti minuti l'una, suonate da una "cosmic orchestra" di cinquanta elementi. E' una nuova odissea nello spazio in cui le sonorità elettroniche si fanno sempre più psichedeliche, dalla solenne "Synphara" all'ipnotica "Chromengel", dalla vibrante "Conphara" alla tetra "Neuronengesang".
Secondo la critica, le invenzioni fondamentali di Schulze sono due: gli accordi protratti all'infinito (realizzati appoggiando dei pesi sui tasti) e le metronomie del sequencer. Il risultato è una rivoluzionaria svolta nellla musica elettronica, destinata ad essere recepita da un'infinità di gruppi "cosmici" che negli anni Settanta, soprattutto in Germania, daranno vita alla variante spaziale di quel progressive rock dilagante in Gran Bretagna (King Crimson, Genesis, Gentle Giant) e Francia (Gong, Art Zoyd).

A partire da Picture Music del 1973, tuttavia, Schulze ammorbidisce la sua sperimentazione, prediligendo ritmi più marcati e strizzando l'occhio all'elettro-pop. Il nuovo corso più "leggero" frutta un classico come l'incalzante "Totem" e accentua artifici elettronici vicini a quelli di Jean-Michel Jarre.

Blackdance (1974) segna una sorta di "ritorno sulla Terra". Pur ampliando ulteriormente il suo armamentario tecnologico grazie ai nuovi sintetizzatori, Schulze si propone infatti di dare una umanità alle macchine, e non a caso decide di utilizzare per la prima volta una voce umana, quella di Ernst Walter Siemon. Ecco allora i ventidue minuti di "Voices Of Syn", dove arie di Verdi e voce tenorile si abbinano a un'elettronica fredda e percussiva; "Some Velvet Phasing", sorta di ambient ante-litteram con la sua stasi isolazionista; e infine "Ways Of Changes", fragoroso raga e rarissimo saggio di chitarrismo in un disco di Schulze.

Nel 1975 il corriere cosmico berlinese si imbarca in un'altra scommessa temeraria: un concept-album dedicato al suo idolo Richard Wagner. Per Timewind (1975) la navicella di Schulze, così, si trova in qualche modo costretta a sterzare ancora, riavvicinandosi alle partiture più austere e glaciali dei suoi primi due album, ma con un bagaglio di strumenti (chitarre, percussioni, sequencer) e soluzioni melodiche ormai accumulato in stiva. Il ricorso al sequencer, in particolare, forgia un suono incredibilmente arioso, avvolgente e futurista, in netto anticipo sui tempi, tanto che riecheggerà non poco in successivi capisaldi dell’elettronica come “Oxygene” di Jean-Michel Jarre e “Blade Runner” di Vangelis.
Apice dell’opera è la colossale suite d’apertura “Bayreuth Return”, che cita proprio la città bavarese dove il compositore di Lipsia scelse di vivere. Un vento cosmico spettrale spazza il brano sin dall’inizio, insinuandosi come polvere sottile tra le sonorità liquide dei synth. Poi, attorno al terzo minuto, parte uno dei classici colpi di scena di Schulze (avete presente il crescendo di “Ebene”?). I sequencer iniziano a pennellare frasi melodiche celestiali, che si sovrappongono nelle varie tonalità, irradiandosi nel vuoto cosmico, in una spirale sempre più ipnotica e avvolgente, in cui l’ascoltatore finisce letteralmente inghiottito, come un’astronave risucchiata in un buco nero. In questo magma nebuloso di sibili e archi sintetizzati, di modulazioni e pulsazioni sintetiche, dove un ritmo guadagna slancio e l’altro si affievolisce sugli sciabordii delle tastiere, si fa strada la meravigliosa melodia principale, come in un’ascesa progressiva verso una galassia remota, forse irraggiungibile. Questo terrore panico dello spazio, questo senso di perdita di ogni controllo sensoriale – come in un raga indiano proiettato nel cosmo – permea il brano, donandogli un senso di drammaticità realmente wagneriano.
Il secondo movimento, "Wahnfried 1883", prende invece il nome dalla residenza di Wagner a Bayreuth, unendo le parole wahn (illusione) e fried (pace), mentre il 1883 è l'anno della morte del compositore di Lipsia. Più lento e meditativo, senza più pulsazioni e riverberi, in rotta decisa verso l’ambient-music, il brano è tutto giocato sui droni d'organo che fluttuano nell’immane solitudine del buio cosmico, trafitti dalle scariche elettriche dei synth e attorniati da melodie tanto statiche quanto contrite e solenni, come in una sorta di requiem stellare per un corpo celeste. Un altro wall of sound elettronico per un'altra suite monumentale, sulla quale ci sarà chi – come ad esempio gli Orb – costruirà quasi un’intera carriera.
Per molto tempo unico album di Schulze pubblicato negli Usa, Timewind è in effetti il perfetto punto di partenza per avvicinarsi alla sterminata discografia del maestro berlinese, nonché una delle sue opere più cinematiche (quasi un’ideale colonna sonora di un film di Tarkovsky). Nel 2016 è stato rimasterizzato, in una ricca edizione, corredata da un imperdibile booklet – con foto, note autografe e testimonianze d’epoca, inclusa quella dello stesso autore – con l’aggiunta di un secondo cd contenente tre bonus track.

Parallelamente, Schulze tiene in piedi alcune collaborazioni con Cosmic Jokers, Richard Wahnfried e Stomu Yamashta. Quindi, nel 1976, ingaggia Mike Shrieve, ex-Santana, che accentua la componente ritmica del suo sound. Moondawn (1976) si rivela così più accessibile e solare.

A interrompere questo nuovo corso giunge però Mirage (1977), uno dei lavori più freddi e difficilmente fruibili del compositore tedesco. Domina un mood decisamente più buio. Il fratello di Klaus stava morendo, ed il trascorso greve del periodo si riflette nelle sonorità dell’album. “Velvet Voyage” è uno scenario freddo, in sospensione perenne, sorretto dagli sviluppi elicoidali di un suono straniante che è sì figlio diretto delle esperienze più libere e introspettive a nome Tangerine Dream, ma che filtra attraverso la sensibilità dello Schulze solista in ampi manti di moog glaciale. L’epica di “Crystal Lake” è invece uno sguardo lento e ovattato su forme di ghiaccio esili, fragilissime, quasi a sottolineare la transitorietà umana in ventinove minuti di reiterazioni e background sonori ipnotici. Alla ristampa, edita nel 2005, si aggiungerà la sacralità liturgica di “In cosa crede chi non crede?”, brano che completa l’istantanea di un periodo umano e creativo di Schulze particolare e irripetibile, descrivendo il metodo di un artista che non costruisce su un’idea ma lascia che sia l’ispirazione iniziale a guidare il pezzo nelle sue spirali.

La peculiarità di Klaus Schulze è proprio quella di riporre nel suono solo ed unicamente il proprio animo, consegnando all’ascoltatore il compito attivo di attribuire nuovi significati e nuove identificazioni alle proprie composizioni: un approccio puro, incontaminato, a tratti genuinamente idealista. Senza fronzoli, senza supponenza, senza boria alcuna. Citando lo stesso Schulze, “auguro a tutti una piacevole esplorazione di se stessi, non riesco a esprimerlo al meglio con le parole, perché non sono un poeta ma un musicista”. Nella sensibilità di chi scrive, di caratura inestimabile.

A seguire, però, arriva un lavoro di segno completamente diverso: la sensualissima colonna sonora per il film porno Body Love, del danese Lasse Braun. Quindi, è la volta del barocco X, raccolta di suite dedicate a personaggi celebri del passato, tra cui Nietzsche, von Kleist e Ludwig II di Baviera. Su quest'ultima opera, Schulze riesce a coniugare minimalismo e rumorismo, percussioni selvagge e arie spettrali, dando un saggio delle qualità più drammatiche della sua musica, al punto che la rivista tedesca "Sounds" lo elegge "miglior musicista dell'anno".

Continuando il lavoro di ricerca e sperimentazione, Schulze giunge all'uso del computer e alla sintetizzazione dei suoni, passando dal segnale analogico al segnale digitale. Il suo approdo verso la musica classica si manifesta con una passione particolare per Bach, Mozart, Tchaikowsky, Wagner, Rachmaninoff, senza dimenticare però la psichedelia spaziale dei Pink Floyd e i suoni "colorati" di John Coltrane.

Dopo l'opera Dune (prima volta in cui è presente una voce, quella di Arthur Brown, in una delle sue suite) e lo sperimentale Dig It, Schulze torna con un album magniloquente come Audentity, capace di combinare sonorità più accessibili e audaci sperimentazioni. Ma intanto la musica cosmica è stata riscoperta e rielaborata in salsa new age. E le atmosfere ambientali di Schulze diventano così un prezioso tesoro per una nuova generazione di appassionati, in cerca di un connubio tra musica e spiritualità. Non sempre, tuttavia, la qualità dei suoi album sarà all'altezza del suo talento.

Ma l'artista tedesco darà ancora segni di riscossa con lavori spettacolari come la Dresden Performance, le musiche della Royal Festival Hall o l'opera Das Wagner Desaster-Live. Nel frattempo, la sua sterminata produzione si arricchisce di alcune monumentali raccolte, come i decupli Silver Edition e Historic Edition, e di un'opera per il teatro, Totentag.

L'attività di Klaus Schulze proseguirà per tutto il decennio 90 in bilico tra ritorni di fiamma alla magia del passato e stanchi esercizi di stile, tra album più classici come In Blue ed esperimenti come Midi Classics, un doppio album inedito che vuole essere un omaggio ai grandi classici, riletto all'insegna del suono del Moog, delle percussioni, dell'improvvisazione. Proprio l'imprevedibilità è sempre stata una componente decisiva del sound di Schulze: "La musica - sostiene il musicista tedesco - deve essere un elemento per liberare la fantasia e quindi non può che essere concepita per immagini mentali, che vengono percepite diversamente a seconda di come si ascolta e del luogo dove ci si trova. Quando registro in studio, parto con un tempo di 4/4 sul quale suono una sequenza con il Moog che completo con le percussioni. Poi, una volta soddisfatto della base, aggiungo accordi e melodie. Quando inizio qualcosa non so mai dove andrò a finire, quindi si può dire che ho improvvisato".

Se Jubilee Edition (1997), monumentale pacco di 25 dischi contenenti gli scarti degli album precedenti (per un totale di quasi duemila minuti di musica!), e la serie dei The Dark Side Of The Moog (1994 - 2005), registrati con Pete Namlook, deludono le attese, i due monumentali Contemporary Works vol 1 (2000) e Contemporary Works vol 2 (2002) condensano invece alcune delle migliori intuizioni della produzione schulziana degli anni Novanta.
Il secondo volume, in particolare, vede Schulze affiancato dal vecchio compagno Wolfang Tieopold al cello, da Thomas Kagermann al flauto, violino e voce, Audrey Motaug alla voce, Tobias Becker all'oboe e corno inglese, tale Mickes alla chitarra e Tom Dams a "some groove loops". Rispetto al precedente volume, il clima generale dell'opera è decisamente più rilassato, più omogeneo, le parti ritmiche sono meno preponderanti, però anche la bellezza di alcune parti dei quattro cd "Ballett" con Tieopold non viene raggiunta: il clima dell'opera è più polarizzato sullo Schulze classico, con una forte accentuazione di parti con clima orientaleggiante, specie nell'uso delle voci. Cinque cd, con brani lunghissimi ("The Theme: Rhodes Elegy": 65 minuti, "They Shut Him Out Of Paradise" : 41 minuti) e altri brevissimi di 1-2 minuti, in cui Schulze celebra il suo usuale rito pagano ora dialogando con gli altri officianti (particolarmente belle alcune parti con oboe e acustica), ora pennellando solitario grandi affreschi ma anche disegni infantili, ora facendo solo un mero accompagnamento di sottofondo.
Tra grandi emozioni e grande noia, tra arte incommersurabile e chill-out da disco-bar alto-borghese scorrono sei ore di musica talmente fredda e patinata che alla fine scalda il cuore. Miseria e nobiltà. O forse più semplicemente due chiavi di lettura che si intersecano.

Degno di nota anche il Live@Klangart, ovvero due cd registrati dal vivo al KlangArt festival di Osnabruck il 9 giugno del 2001. Liquide improvvisazioni, suadenti e malinconiche melodie, la sacralità di un organo, sequencer e canto gregoriano, l'imponenza di una sinfonia, la fisicità di ritmi incalzanti, una stasi angosciosa, l'astrattezza pittorica di un violoncello. Questo (e altro) sa essere ancora Klaus Schulze. La musica qui presente non si discosta stilisticamente in maniera drammatica da quella proposta nel monumentale box Contemporary Works vol 1, anche se prevale nettamente lo Schulze classico rispetto a certe nuove tendenze che erano affiorate nell'opera precedente. Meravigliosa la parte centrale del secondo cd, con la presenza del violoncello di Tiepold, ma chi apprezza l'opera di Schulze troverà in questi due cd tutti gli elementi che gli hanno fatto amare la sua musica, anche se non si può non rilevare come alcune parti abbiano l'aria del già sentito, dell'archetipo musicale già acquisito, come alcune note di banalità affiorino qua e là, come a volte ci si trovi di fronte più ad artigianato che ad arte. Eppure c'è sempre un passaggio, una sequenza, un accordo che fa riconoscere il talento, il genio.

Dopo aver passato gli anni Ottanta a produrre una moltitudine di dischi, compresi alcuni clamorosi flop, lo Schulze che si affaccia sul nuovo millennio è un compositore in piena espansione artistica, teso tra ipotesi malcelate di classicismo e taglienti tendenze ritmiche. Nella sua musica è sempre possibile rilevare un'anima, un'angoscia drammatica dell'esistente e del diveniente, un tensione romantica nel senso letterario del termine.

Nel 2005, esce un nuovo album, intitolato Moonlake. Gli spazi siderali di kubrickiana memoria inaugurati con Irrlicht, subiscono una sorta di irreversibile contrazione. Agli sconfinati, oscuri, sinistri, gelidi vuoti interstellari, il compositore sembra preferire adesso l'intimità di uno spazio sidereo prossimo. La Luna quindi, l'oggetto astronomico più vicino al globo terrestre, e, di riflesso, proprio la Terra. Una riduzione, un restringimento del campo d'indagine che tuttavia non svilisce i canoni propri della kosmische musik. Perché si tratta pur sempre di un viaggio, sebbene di minor anni luce.
"Playmate In Paradise", divisa da un inquietante break pinkfloydiano in due frammenti indipendenti, si plasma, almeno nella prima metà, come una lunga cavalcata orientaleggiante à-la Jarre. I lamenti intonati da oscuri predoni del deserto (realizzati in collaborazione con il cantante e violinista Thomas "Fiddle Michel" Kagermann) lasciano il campo, al minuto 14 della suite (lunga 30'), a un sinistro passaggio logico che introduce alla seconda parte, dove i motivi esotici del prologo si trasformano in autentica space music. "Playmate in Paradise", almeno nella sua conclusione, è probabilmente uno dei pezzi più vicini ai Tangerine Dream dell'intera produzione "solitaria" di Schulze degli ultimi quindici anni. Nessuna sorpresa: la musica di Schulze riproduce fedelmente le leggi dell'ambient senza alcun compromesso contaminante. L'aspirazione tende alla linearità, alla ciclicità, a un sentiero monocorde. Il senso del ritmo diventa ora variabile ora costante, in un groove ipnotico e straniante.
Un certo rigore matematico sembra invece il comune denominatore della traccia seguente, "Artemis In Jubileo", costruita sopra un esoscheletro vagamente world. Le due tracce rimanenti, registrate dal vivo in Polonia, a Poznan, per lo spettacolo di luci e illusioni di Gert Hof, il 5 novembre del 2003, si allineano con il sostrato di Cyborg (1973) e Dig It (1980). In "Some Thoughts Lion", l'assillante ritornello fagocitato, rivisitato, dalle tensioni di Blackdance (lo storico album del '74), s'impreziosisce di interpolazioni e paradossi, inglobando, nella seconda frazione, la potenza psichedelica e fuorviante del mini-Moog. Sonorità spesse e primitive, che vibrano di echi spazio-temporali tutt'altro che contemporanei.
Riverberi kraut spadroneggiano nelle primissime battute di "Mephisto", brano che permette all'ex Ash Ra Tempel uno spensierato utilizzo di beat e sintetizzatori in puro stile "Dune" (1979). Tuttavia, la formula del brano mescola elementi tipici dell'universo oldfieldiano di "Amarok" o "T3es Lunas", ai soundscape del(la) Wendy Carlos di "The Well-Tempered Synthesizer".

Mentre prosegue (piuttosto stancamente) la sua lunga teoria di uscite e collezioni (l'ultima, quella dei Ballet, arrivata al quarto volume), Schulze continua la sua attività dal vivo, con suggestivi concerti, impreziositi anche dalla scelta delle location, incluse chiese e teatri antichi.

Nel 2007 esce Kontinuum, e Schulze sorprende tutti. Master at work, nell'accezione più squisita del termine. Lo avevamo lasciato a una sequela di cofanetti ultra-limitati (Contemporary Works), da cui aveva poi estratto parte dei lavori: alcuni buoni (Vanity Of Sounds e The Crime Of Suspense su tutti), altri obiettivamente fuori forma e stanchi (i 4 Ballet). Contemporaneamente, il continuo della proficua collaborazione con il compianto Pete Namlook in onor di Pink Floyd (The Dark Side Of The Moog, le riedizioni da un altro mastodontico box-set di cinquanta dischi, "The Ultimate Edition", a nome “La Vie Electronique” e tanti apprezzatissimi live show.
Schulze non s'è mai fermato, ma Kontinuum è veramente la sorpresa più eclatante. Un disco in cui, dopo anni trascorsi a flirtare con la tecnologia, tornava a riavvolgere fra caldi strati di sequencer e synth, come ai tempi del mai abbastanza considerato Mirage. Lo Schulze scultore di architetture a metà fra il cosmico e l'ambientale, quello che fra un un azzardo e un flusso di suoni ha sempre saputo toccare con gracilità il cuore degli ascoltatori.

A scuotere l'universo schulziano, arriva poi nel 2008 l'inaspettata collaborazione con la voce dei Dead Can Dance, la magnifica Lisa Gerrard. Il primo frutto è l'album Farscape, avvolto in un'elegante confezione bianca. Si tratta di un'unica composizione di 155 minuti, divisa in 7 parti e spalmata su 2 cd dal titolo di "Liquid Coincidence". E' un'opera che nulla aggiunge alla carriera di Schulze e nemmeno a quella della Gerrard: fa utilizzo di tutto l'armamentario elettronico oggi a disposizione del maestro e della sua sapienza musicale, nonché delle indubbie qualità evocative della voce della Gerrard, ma è una composizione ripetitiva che, data anche la sua lunghezza, mette a dura prova la pazienza dell'ascoltatore. Non mancano momenti toccanti, come la prima parte, ma spesso la musica abbandona ogni riferimento e fluttua senza meta, a stento guidata dalla melodia salmodica della cantante.
Ma Schulze e Gerrard non devono dimostrare niente a nessuno e, a parte tutto, è un piacere sublime immaginarseli suonare insieme.

Klaus Schulze & Lisa Gerrard: Dziekuje Bardzo - Vielen Dank è la registrazione del concerto tenuto a Varsavia nel novembre 2008 (l'omonimo Dvd è dedicato invece al documentario "In The Moog For Love").

Il nuovo progetto Shadowlands, annunciato a inizio 2011, arriva a compimento fra mille travagli solo nel 2013. Il disco sembra dall'inizio voler suonare “diverso”: accantonato il retrò, Schulze tenta di riprendere in mano i discorsi più recenti della sua carriera e dar loro continuità, sia nelle durate (che tornano a dilatarsi incredibilmente) che nel sound. Nei quaranta minuti di “Shadowlights” eccoci tornare dunque ai climi affrontati al fianco di Gerrard: stratificazioni di flussi analogici e sequencer poliritmici che incontrano voci dal sentore etnico prima di unirsi, progressivamente, al ritmo cullante delle percussioni. “In Between” trasporta fra grovigli luminosi e flash docili ricordando da vicino la fase digitale, per poi farsi più crepuscolare e sposare di nuovo trame à-la-Farscape in “Licht Und Schatten”. “The Rhodes Violin” si rintana per cinquantacinque minuti nei saliscendi ambientali di Moonlake, mentre la conclusiva “Tibetan Loops” è forse l'unico vero mezzo passo in avanti: una pièce limpida e soffusa che accompagna il canto dei monaci e un buon campionario di strumenti tradizionali.
Schulze si conferma maestro insuperabile nell'evocare immagini e sensazioni tramite la sua musica. Una dote, questa, pervenutagli soprattutto nell'ultimo decennio di carriera, in cui le sue sculture sintetiche hanno avvicinato sempre più scenari cinematografici, abbandonando la frontiera della mente in favore di quella dei sensi. Shadowlands è un disco che scorre senza mai annoiare, ma che – a totale differenza del suo splendido predecessore – suona in toto come ce lo si aspettava, senza per questo trasudare segno alcuno di stanchezza.

Nel 2013, esce fuori, per la prima volta, una registrazione in tandem con il collega Gunter Schickert, musicista per anni avvolto nell'ombra ma oggi nel pieno di una seconda giovinezza, grazie alla ristampa di "Überfällig" (2012), a cui poi farà seguito quella del debutto "Samtvogel".
The Schulze-Schickert Session nasce nel settembre del 1975, tra una tournée in Italia e Svizzera e la produzione del secondo Far East Family Band, "Parallel World". In entrambi i casi, come roadie prima e assistente in studio poi, ad accompagnare l'ex-Tangerine Dream c'è appunto Schickert, ai tempi titolare di quel "Samtvogel" curato proprio da Schulze. E nel mentre di tutto questo, negli studi di di quest'ultimo, nei pressi di Hannover, la coppia trovava anche il tempo di un registrazione a quattro mani.
Sintetizzatori, sequencer e tastiere di uno e la chitarra dodici corde (con stringhe in metallo) dell'altro, in istintiva simbiosi, tratteggiano un'epica cavalcata cosmica che, oltre a rammentare lo Schulze di allora (erano i giorni di Timewind), anticipa - ma in mood più drammatico - gli Ashra (non più Tempel) che verranno, e questo grazie al lavoro di Schickert che in più di un occasione rimanda a Manuel Göttsching. Anzi, ne è l'esatto contraltare. E forse non è un caso che alla chitarra ci sia lui e non altri.
Un'unica traccia divisa in sei movimenti (un po' come successo per "E2-E4" dello stesso Göttsching) per un totale di 45 minuti; ai quali vanno aggiunti, per la stampa su cd, le bonus "Spirits Of The Dead" (solenne e oscura) e "Happy Country Life" (liquida e pastorale).
In ogni caso, per completisti.

Schulze fugge dalla cosiddetta modernità. Il suo è un tempo senza eventi, una dimensione gelida e rarefatta, cronologicamente fuori squadra. Sotto tutta questa polvere, gli strali iridescenti della mitica musica cosmica brillano ancora. La sua escursione trekkie nei reconditi abissi siderali, per il momento, non è ancora un viaggio di ritorno.

Dopo una lunga malattia, Klaus Schulze si spegne il 26 aprile 2022. A dare l'annuncio ai fan è il figlio Max con una breve nota: il pioniere della kosmische musik  tedesca, è morto all'età di 74 anni. A dare l'annuncio, rivolgendosi ai fan, è stato il figlio Max con una nota sintetica: "Con profondo dolore dobbiamo informarvi che Klaus è venuto a mancare ieri, 26 aprile 2022, all'età di 74 anni dopo una lunga malattia, ma tuttavia improvvisamente e inaspettatamente. Non solo lascia una grande eredità musicale, ma anche una moglie, due figli e quattro nipoti. A nome suo e della famiglia, vogliamo ringraziarvi per la vostra lealtà e il vostro sostegno nel corso degli anni: ha significato molto! La sua musica continuerà a vivere e anche i nostri ricordi".

Nel 2022 vede anche la luce il suo ultimo lavoro, Deus Arrakis, l'effigie sulla sua lapide, la gloria postuma e la conclusione di una discografia che ha gettato le fondamenta di tutta la musica elettronica realizzata in seguito. E' una ripresa di alcune vecchie registrazioni dai tempi del suo disco X, allora ispirate all'opera di Frank Herbert; originariamente furono concepite come soundtrack per il film "Dune", e pubblicate infatti nel '79; in seguito, accantonata l'idea di utilizzarle per la pellicola cinematografica, rimasero solo legate al tema letterario. E' stata una telefonata di Lisa Gerrard e lo spunto del remake di "Dune" ad opera di Denis Villeneuve a spingere il compositore tedesco a rimettere mano a quei brani.
Suddiviso in tre parti, il disco si presenta solenne e colossale, in tutto il suo faraonico splendore. La prima suite, "Osiris", in quattro movimenti, introduce la mente dell'ascoltatore nei tempi mitologici delle divinità egizie e delle prime dinastie, con un suono vintage, che sembrerebbe ricordare la sua fase dei tardi anni 70: suono pieno, epocale, visionario. "Seth", la seconda suite, sembra un saliscendi tra le dune desertiche, con un'introduzione che suona come una tempesta di sabbia digitale, per poi seguire con un incedere marziale quanto pacato, come la navigazione della barca solare di Ra e Seth, che nella leggenda trainava il sole dall'alba al tramonto, sopra i deserti del Maghreb.
L'ultima suite, "Der Hauch des Lebens", "il respiro della vita", chiude il quarantasettesimo e ultimo album del maestro della scuola berlinese. Un flebile sospiro di donna echeggia soffuso, al di là della nostra comprensione, su un disteso "requiem vitale", suonato dalle tastiere del maestro. Il pranayama che diventa suono, come il respiro che coagula di nuovo in linfa, all'interno, e ne muove l'organismo, ritornando alla fisicità del ritmo, della propria percezione degli arti, dei nostri corpi. E' il suo shavasana finale, il suo eterno riposo. Un sarcofago viene sigillato con le proprie reliquie, reso inviolabile dai guardiani, in vista del viaggio nell'oltretomba; al contempo, una barca scorre quieta nel delta del Nilo, tra i papiri e le canne d'India; le acque del Nilo cullano un neonato nel loro calmo ondeggiare. Ecco che vita e morte si riequilibrano, complementari. Suono di una forza visiva commovente e assoluta, sempre in grado di creare l'immagine in modo magniloquente e totale.

La scelta di richiamare l'Egitto mitologico nel suo ultimo e mastodontico disco sembra vincente, per un Lp che chiude con molta dignità una carriera costellata di successi non tanto di pubblico, ma di vera creatività e traguardo sperimentale. Una sintesi tanto classica quanto inceccepibile, se non per il fatto che nella sua esperienza c'era ormai rimasto poco da aggiungere o innovare. Archeologia del suono, per speleologi musicali del giorno d'oggi.
Ruhe in Frieden, Klaus Schulze.

 

Contributi di Marco Castagnetto - Musicboom ("Mirage"), Michele Chiusi ("Contemporary Works Vol. 2", "Live@Klangart"), Emilio Saturnini ("Moonlake"), Gaetano LaMontagna ("Farscape"), Matteo Meda ("Kontinuum", "Shadowlands"), Gianni Avella ("The Schulze-Schickert Session"), Matteo Ortenzi ("Deus Arrakis")

Klaus Schulze

Discografia

Irrlicht (Thunderbolt, 1971)
Cyborg (Gramavision, 1973)
Picture Music (Gramavision, 1973)
Blackdance (Universal/Polygram, 1974)
Cosmic Jokers (1974)
Cosmic Jokers: Planet Sit-in (1974)
Timewind (Brain, Virgin, 1975)
Moondawn (Thunderbolt, 1976)
Mirage (Island, 1977)
Body Love (soundtrack, Island, 1977)
Body Love 2 (soundtrack, Antilles, 1977)
X (Logo, 1978)
Dune (Thunderbolt, 1979)
Richard Wahnfried: Time Actor (1979)
Blanche (Logo, 1979)
Dig It (Logo, 1980)
Live (live, Brain, 1980)
Mindphaser (Gramavision, 1981)
Trancefer (Gramavision, 1981)
Richard Wahnfried: Tonwelle (1983)
Audentity (Innovative, 1983)
Dziekuje Poland (Innovative, 1984)
Drive Inn (Magnum America, 1983)
Angst (Thunderbolt, 1983)
Aphrica (Inteam, 1984)
Richard Wahnfried: Plays Megatone (1984)
Interface (Brain, 1985)
Richard Wahnfried: Meditation (1985)
Dreams (Brain, 1986)
En-trance (1987)
Babel (Venture, 1987)
Miditerranean Pads (Magnum America, 1989)
Dresden Performance (live, Venture, 1990)
Beyond Recall (Venture, 1990)
Royal Festival Hall vol. 1 (live, Caroline, 1992)
Royal Festival Hall vol. 2 (live, Caroline, 1992)
The Dome Event (Caroline, 1993)
Silver Edition (1994)
The Essential 72-93 (antologia, 1994)
Le Moulin De Daudet (soundtrack, Virgin, 1994)
Richard Wahnfried: Trancelation (1994)
The Dark Side Of The Moog 1 (Fax, 1994)
Totentag (ZYX, 1994)
Goes Classic (1994)
Das Wagner Desaster-Live (ZYX, 1994)
Historic Edition (1995)
In Blue (ZYX, 1995)
The Dark Side Of The Moog 2 (Fax, 1995)
The Dark Side Of The Moog 3 (Fax, 1995)
The Dark Side Of The Moog 4 (Fax, 1996)
The Dark Side Of The Moog 5 (Fax, 1996)
Are You Sequenced? (WEA, 1996)
Dosburg Online (WEA, 1997)
Schwarz Oder Weiss (ZYX, 1998)
Jubilee Edition (ZYX, 1997)
The Dark Side Of The Moog 6 (Fax, 1997)
The Dark Side Of The Moog 7 (Fax, 1998)
The Dark Side Of The Moog 8 (Fax, 1999)
Trailer (1999)
Contemporary Works vol 1 (Manikin, 2000)
Ballet 1 (Revisited, 2000)
Ballet 2 (SPV, 2000)
The Crime Of Suspense (Revisited, 2000)
Vanity Of Sounds (Revisited, 2000)
Live@Klangart (live, Rainhorse, 2001)
The Dark Side Of The Moog 9 (2002)
Contemporary Works vol 2 (Manikin, 2002)
The Dark Side Of The Moog 10 (2005)
Moonlake (SPV, 2005)
Drums'N'Balls (SPV, 2006)
Ballet 3 (Revisited, 2007)
Kontinuum (SPV, 2007)
Trance Appeal (Revisited, 2007)
Ballet 4 (Revisited, 2007)
Klaus Schulze & Lisa Gerrard: Farscape (Spv, 2008)
Klaus Schulze & Lisa Gerrard: Dziekuje Bardzo - Vielen Dank (live, 3cd, Synthetic Symphony, 2009)
Shadowlands (Synthetic Symphony/SPV, 2013)
Klaus Schulze & Gunter Schickert: The Schulze-Schickert Session (Mirumir, 2013)
Deus Arrakis (SPV Recordings, 2022)
Pietra miliare
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