Hype Williams - Dean Blunt - Inga Copeland

Hype Williams - Dean Blunt - Inga Copeland

Trip post-contemporanei in bassa fedeltà

Emersi confusamente nell’affollata nuvola minimal-synth e hypnagogica di inizio millennio, Dean Blunt e Inga Copeland si sono guadagnati uno spazio proprio e singolarissimo nel cuore più nebbioso della scena londinese post-Duemila, grazie a un’estetica meta-musicale che assembla cimeli da ogni dove per restituire miniature in stile pop-art, rigorosamente in bassa fedeltà. Ricostruiamone l'intricata discografia, tutta squisitamente "in progress"...

di Roberto Rizzo

Tentare di portare ordine nel capitolo Hype Williams rasenta obiettivamente l’impossibile. Ombre ed enigmi si accavallano fitti su ogni aspetto di questa non-musica: le generalità dei loschi individui dietro lo pseudonimo di un regista di videoclip mainstream, la forma stilistica onnivora e frammentaria, l’identità artistica sfuggente e in continua metamorfosi. Proviamo a rispondere a questi quesiti, ripercorrendone la discografia e con l’aiuto di poche, esigue, tracce mediatiche.

The Attitude Era

La prima versione della storia vuole che Hype Williams sia il progetto riesumato di due artisti tramontati di fine anni Ottanta, i coniugi Father Ronnie Krayole e Denna Frances Glass, sorta di ghostwriter giunti alla decisione di abbandonare il marchio a due giovani londinesi, noti come D. Blunt e Inga Copeland, che ne portano avanti l’immagine nelle apparizioni live.
Stando alla seconda leggenda, invece, Hype Williams è il side-project autofinanziato della nota cantante soul-pop Joss Stone, mentre una terza variante attribuisce il moniker a due individui, Dean Blunt e compagna di origine russa, nota alternativamente come Inga Copeland e Karen Glass. La scelta del mito cui dare credito, a discrezione del lettore.

A confondere ulteriormente le acque di quella che altrimenti sarebbe stata poco più di una spiritosa trovata estemporanea, il materiale sonoro spacciato dietro lo pseudonimo: un’accozzaglia disturbante e apparentemente random di frammenti pop culture, un collage che ammassa senza distinguo indie, mainstream e avantgarde, attualizza nostalgie passatiste da una prospettiva e un background lucidamente piantati nel “qui ed ora”. Quindi disorientare critici e ascoltatori in quattro semplici mosse: a) frullare ogni bozza e passare nello stesso filtro della bassa fedeltà, così da ammantare tutto di una sorta di oniricità un po’ confusa e ubriaca, un po’ hipster 2.0; b) ri-smontare e ri-assemblare i frammenti per presentarli sottoforma di quadretti pop-art che rifuggono ogni significato immediato e che vivono eventualmente solo in un'acuta visione d’insieme; c) giocare costantemente con media, label e distributori, saltando tra etichette e auto-produzioni, inondare il web di digital files, pompare hype attorno al nulla, rilasciare interviste contraddittorie e sibilline; d) presentarsi in outfit ogni volta diversi, dai giubbotti operai agli accessori riciclati, dai capi con le griffe in bella mostra alle mise casual, dalle minigonne alle maschere.
In altre parole, il ritratto del de-costruttivista post-contemporaneo è completato.

I primi tentativi del duo però – una serie di Ep di poco più di dieci minuti ciascuno – lasciano intuire ben poco sul potenziale del marchio Hype Williams: una manciata di stramberie neo-neo-psichedeliche in bassa fedeltà, che attirano l’attenzione dei media settoriali più per il fatto di venire alla luce in concomitanza della moda indie-hypnagogica al varco della decade. Questione di hype in altre parole, nomen omen.
Il primo album compare nel 2010 su Carnivals, senza titolo e con foglie di marijuana in copertina.
Sette tracce a loro volta “innominate” che spiegano in maniera più organica i timidi presagi degli Ep, dividendosi tra suite psych-percussive (“#1”, “#4”) e beat sinuosi (“#3”, “#6”), fino alla fusione psichedelica fra Sessanta e Duemila di “#7” tutto passato al setaccio della fede lo-fi.
Tuttavia la formula di Untitled si distingue poco dalla mole di uscite all’interno della stessa nicchia neo-psichedlica, rivelandosi un ascolto più che piacevole per i fedelissimi del genere, ma poco altro.

Con il secondo album, uscito subito a ridosso, dal titolo chilometrico Find Out What Happens When People Stop Being Polite And Start Getting’ Reel, a dispetto della durata ridottissima (ventiquattro minuti), i due perfezionano la loro ricetta neo-psichedelica in bassa fedeltà da una parte (“Blue Dream”, “Untitled”) e lasciano scorgere dall’altra tracce di quella visione obliqua e interpretabile ancora solo come post-qualcosa, che darà frutto di lì a breve: la disturbante apertura di “Rescue Dawn 2” (un pianto di bebè? un chorus r&b rivoltato?) avvolta di synth trasognati, e soprattutto il primo vero capolavoro della coppia, “The Throning”, una melanconica aria cold-synth su cui la Copeland intona un classico di Sade (“The Sweetest Taboo”), ribaltandone radicalmente il colore.
Troppo breve e abbozzato per potere essere veramente ricordato, Find Out ha tutti i requisiti del disco di transizione, anche nell’economia di un duo, Hype Williams, che della transitorietà e inconcludenza ne fa vessillo.

Continuando a muoversi nel chiacchiericcio e nell’ambiguità mediatica (allo stato attuale non esiste alcun indirizzo web riferito ai due, mentre gli account sui social network vengono creati e cancellati a cadenza regolare), nel 2011 arrivano quindi gli Ep Dior e Kelly Price W8 Gain Vol. II, preludio in tutto e per tutto al terzo e ad oggi ultimo full-length sotto il controverso marchio.

Con One Nation, infatti, la coppia cambia più di un parametro nella sua proposta tutto sommato ancora confusa. Le tredici tracce del disco equilibrano le tipiche sbornie dub-psichedeliche con tutta una serie di nuovi riferimenti: a farla da padrone sono i synth, conditi di ambient-noise, inquietanti monologhi, beat consumati e uno spirito più marcatamente “black”.
Il talento dei due, modesto sul piano tradizionalmente compositivo, si trova tutto nelle efficacissime intuizioni e nel gusto dell’accostamento di schemi carpiti da forme lontane tra loro, a volte persino stridenti. L’elettronica di ordine Novanta sposa così lo space-synth, l’ambient dream-dronica discorsi esistenzialisti pescati da qualche oscuro angolo mediatico, frammenti hip-hop con pulsazioni dub-techno, tutto astratto nel tipico polverone lo-fi che sospende ogni cosa tra realtà e allucinazione. Paradossalmente più imprevedibile e focalizzata a un tempo, la (non)formula Blunt-Copeland è finalmente coniata.

Hype

Nel 2012 finalmente il definitivo e atteso salto di qualità, condito con un contratto discografico vero e proprio (la quotata Hyperdub), una misteriosa collaborazione con il Guardian e una buona dose di hype dai magazine di settore (Pitchfork e Wire su tutti).
Dopo lo split in limited edition con i Demdike Stare per la Honest Jon’s Shangaan Electro, Dean Blunt e Inga Copeland si spogliano improvvisamente del loro controverso marchio e rilasciano a loro nome due progetti diversissimi e di tutt’altro spessore rispetto alle produzioni del passato recente.

Si parla di progetti non a caso, perché The Attitude Era non spartisce praticamente nulla con quanto tradizionalmente si è abituati ad associare al concetto di “album”: nessun supporto fisico, nessuna etichetta, nessuna numerazione di traccia, nessun discorso sviluppato e concluso al suo interno. Un lavoro le cui dimensioni si misurano in megabyte (101) e la qualità in kbps (160).
“101 x 160. Sorry to anyone we promised these tunes to – cannae deal with them anymore.” È il laconico messaggio allegato al file .zip scaricabile tra il 5 e il 19 aprile 2012 tramite il Guardian.
Si tratta di un ammasso di trentatré tracce per la durata di quasi novanta minuti, ordinate alfabeticamente e dai titoli “provvisori” come si trattasse di bozze inconcluse, con l’invito implicito, eventualmente, a ordinarle a proprio piacimento.
Eppure The Attitude Era non potrebbe essere definito altro che un lavoro pop: pop per la spiccata, inedita, propensione a un mesto synthwriting maturata dalla Copeland, pop per gli stili e i riferimenti mainstream chiamati in causa, pop per l’assemblaggio di frammenti mediatici di varia natura (talkshow, sermoni moralizzanti, gangsta-movie), pop per il riciclaggio decontestualizzato di forme alternative e sperimentali (droni, field recordings, garage, uk bass), e pop, infine, per la cornice volutamente random da youtubing in cui tutto è inserito.
Vuoi per i pietrificanti accostamenti, vuoi per le melodie sintetiche di notturna e malinconica bellezza, o per i beneamati fumi lo-fi, a gravare sull’intero “collage” è un senso di decadenza e bulimia, di spossatezza post-contemporanea in cui ci si ritrova incastrati, incerti tra la reazione e l’abbandono alle “danze”.

Hype WilliamsParallelamente a tutto ciò, però, Blunt e Copeland consegnano un altro lavoro, di stampo leggermente differente. Black Is Beautiful è infatti licenziato su disco, per la chiacchierata Hyperdub, e sfoggia una forma più concisa e accattivante. Il tema delle quindici tracce, ordinate questa volta soltanto numericamente (ovvero, sprovviste di titoli), è il black del titolo, espresso sia stilisticamente, con una più marcata impronta hip-hop, che concettualmente, intercalando slogan e monologhi da fonti diverse. Il tutto, però, è ancora una volta annebbiato da synth storditi e sporcizia varia, come passeggiare in uno stato “alterato” alle tre di notte sfilando davanti a reclame, club est-europei, fast-food, turisti ubriachi e mendicanti.
Dean Blunt e Inga Copeland guarniscono così un altro godibilissimo, contemporaneo, trip.
Se il 2012 è l’anno del “coming out” della coppia, il 2013 parte invece all’insegna dei percorsi solisti. Pur registrando di frequente ancora in combo, sulla neonata label congiunta World Music, i due approfondiscono le loro personali inclinazioni: Blunt insegue la sua idea di sound-collage, mentre la Copeland dà forma alla sua curiosa concezione di dream-pop, sospesa tra synth, garage e uk-bass.

Dopo l’ottimo Ep The Narcissist II, in cui vengono taglia-e-cuciti sample provenienti da video internauti e brandelli musicali (tra cui un pezzo di Beth Gibbons), Dean Blunt sforna il primo album a suo nome, The Redeemer, disco che introduce più di un fattore di novità. Nelle intenzioni di Blunt, l’album è un concept sullo stato mentale in seguito a un rapporto sentimentale spezzato, assemblato pescando dagli angoli più polverosi del pop (si individuano Kate Bush, Fleetwood Mac ed “Echoes” dei Pink Floyd) e intercalando schegge di varia natura mediatica, nonché, per la prima volta, trame di organica composizione. In più, il disco mette da parte per la prima volta l’amata veste lo-fi per convertirsi all’alta definizione, mentre i synth perdono il ruolo di primadonna, convivendo adesso con ricchi arrangiamenti orchestrali. Ma, nonostante ciò, al cuore di tutto continua a pulsare la macabra frammentarietà Hype Williams, riorganizzata ora solo in forma più elegante, a mo’ di piece teatrale in diciannove brevi atti.
La sequenza degli atti segue quindi il disfacimento progressivo dell’ordine mentale, frantumando il fragile songwriting impostato in apertura, a partire dalla splendida title track, che prende le mosse da una desolazione portisheadiana (con l’unico cameo vocale, a questo turno, di Inga Copeland) per andare a morire tra urla di origine indefinita e sciabordii che si trascinano per tutta la porzione centrale del lavoro, fino alla toccante “Need 2 Let U Go”, fumosa folktronica a tinte soul e jazz.
“Papi” riporta su binari più rassicuranti, rivoltando “Echoes” in arrangiamento souleggiante à-la Isaac Hayes, oscurato da un incomprensibile count-down e rintocchi di campana, mentre “All Dogs Go To Heaven” strascica per cinque minuti una serenata hypnagogico-psichedelica ad alto tasso alcolico. “Imperial Gold” e “Brutal” chiudono, infine, con due altre quasi-song, un po’ indie-folk, un po’ soul pianistico, il cui (probabile) significato ancora una volta è messo in discussione da un messaggio in segreteria (“and no more messages”).
Vuoto e solitudine serpeggiano per tutta la durata di The Redeemer. Al solito, chi è a caccia di canzoni fatte e finite inevitabilmente dovrà andare a cercarsele altrove: la meta-musica di Dean Blunt conquista o ripugna senza ammettere troppe sfumature di giudizio. Per tutti gli altri, l’improbabile redentore della domenica offrirà una inquietante raffigurazione delle relazioni 2.0, tra sentimento, frasi fatte e insicurezza sedata nell’alcol o digitata alla corte di Yahoo.Answers.

Analogamente, Inga Copeland non indugia in pause o vacanze creative. Il 2013 si apre con un giro di djing (tra cui un’esibizione a Boiler Room) e il breve Ep Don’t Look Back, That’s Not Where You Are Going, tre pezzi che delineano la sua idea di stoned-dream-pop, maturazione dei bignami vocali di The Attitude Era e Black Is Beautiful, sospesa tra ambient ed electro d’origine Uk, tra Burial e i Laika di “Sounds Of The Satellite”, approfondita a ruota dal mixtape rilasciato via SoundCloud Higher Powers.

Split

Nonostante tali premesse, però, l'atteso debutto di Inga Copeland su Lp, Because I'm Worth It, rappresenta un passo in avanti e (più di) uno indietro. Se l'introversa anglo-russa infatti approfondisce il suo lavoro sul ritmo per la prima volta in chiave "compositiva", riuscendo in più di un episodio, dall'altro lato fallisce nell'assemblare un disco davvero significativo e compiuto, limitandosi, ai fatti, ad un Ep allargato (appena ventinove minuti) che tenta di appoggiarsi nuovamente, fin dal titolo, sulla dimensione post-contemporanea della sua proposta, senza riuscire però a rinnovare l'incantesimo e la trance dei capolavori in tandem con l'ex-compagno.

Se la Copeland riuscirà a seguire l'intuizione metodica di Blunt, è quindi un interrogativo da rimandare, ancora una volta, ad un futuro imprecisato.
Lo scherzo di Inga è riuscito nuovamente. Questa volta, forse, meno divertente del solito.

Sempre nel 2014 intanto Dean Blunt ritorna con un altro colpo di scena: la firma per Rough Trade, che in novembre pubblica il suo secondo full-length, Black Metal. Il disco pare lasciarsi alle spalle l'impianto collagistico di The Redeemer, migliorando il piano della scrittura propriamente detta, scarnificando però il suono ad un minimalismo che fa riemergere gli spigoli, questa volta morfologici, di marca squisitamente Hype Williams.

La prima porzione dell'album srotola infatti un'inedita sequenza di ballate notturne e sentimentali, sei bozze brevi ma incisive, mai così prossime al puro songwriting, con Joanne Robertson assunta a tempo pieno a contro canto in buona parte dei pazzi e Blunt che suona sempre più come un rapper decaduto e convertito sulla via di Nick Drake: stonato, misantropo, lirico. Eppure ispiratissimo.
Con lo scorrere dei brani infatti Black Metal si tinge di colori dark, quasi a giustificare il nero pece del titolo e dell'artwork. “Forever” è un semi-strumentale cameristico di tredici minuti in loop, attraversato da un sax sgraziato, splendido nel suo umore malaticcio, “X” assurge ad un'ambience ancora più "noir", candidandosi probabilmente a capolavoro dell'album e asciugando irrimediabilmente il disco in un sordo nichilismo.
Nel suo ultimo scorcio infatti “Black Metal” srotola una serie di numeri ubriachi e sconnessi, come se la saudade dell'abbandono amoroso fosse stata trascesa in cupa schizofrenia: scorrono così senza connessione apparente bassi dub, schizzi hip-hop, synth e droni, ricamati da liriche insolitamente violente e bofonchiate ("Who's hot 2nite/ Whose girl's gonna picked up tonight" - compare qui a mo' di illuminazione un altro fantasma a sorpresa: Adrian "Tricky" Thaws).
La sensazione al termine dei cinquantadue minuti del disco è, in definitiva, non dissimile da quella propinata dal suo predecessore: vuoto, solitudine, depressione metropolitana e parquet cosparso di briciole, calzini sporchi e l'ultimo grammo di erba.

Non contenti del proliferare di uscite, mixtape ed Ep inclusi, nel 2015 i nostri cominciano a produrre in solo sotto pseudonimi a loro volta differenti. Così, mentre Copeland riemerge oscuramente come Lolina (per cui fa uscire un Ep e un ben piu' succulento Live In Paris), Blunt, ormai chiaramente la metà più interessata a mantenere un qualche legame con l'industria, sia per formati scelti (l'album, il singolo), che per contatti con label navigate, invece si ripresenta come Babyfather, il curioso nome con cui torna a bussare in casa Hyperdub, nel 2016, per BBF Hosted By Dj Escrow, un concept-album in realtà non troppo dissimile dai due parti precedenti come Dean Blunt, ma con un piglio più apertamente hip-hop e un decadente ritratto dell'Inghilterra al tempo del Brexit, nonché un cameo di Arca.

Nel 2021 esce Black Metal 2. Dal primo primo capitolo sono passati anni. Era il 2014 e già l’opera lasciava presagire che l’artista stava prendendo una precisa direzione, meno astratta e più intimista. Di irriverente restano il titolo, che sta probabilmente a significare un mood (di metal non vi è nulla), e la copertina, un palese riferimento sarcastico a “2001” di Dr.Dre. Blunt riprende quel medesimo stato d’animo e lo ribadisce con maggior sicurezza: “BM2” è infatti un album di una coerenza totale, dal primo all’ultimo brano. Dean Blunt cita l’African Pessimism prendendosi il gioco di Kendrick Lamar, insiste su suoni da rock-ballad mescolati a una sorta di shoegaze, fa quasi il verso a Lou Reed nelle lyrics e costruisce talvolta un ibrido tra dream-pop e hip-hop su frammenti di senso, parole ripetute con disillusione e malinconia. Un poeta metropolitano si direbbe, “a stranger in a dark room”.
Nel brano “Nil By Mouth” il contrappunto tra Blunt e i vocals di Joanne Robertson (c’è la sua collaborazione in più brani) ci trasporta in uno scenario post-apocalittico: i versi sono frammentati, “Martin” è scomparso, resta solo il deserto, illuminato da una stella splendente. In “DASH SNOW”, Blunt ripete che andrà tutto bene con tono tutt’altro che convinto, mentre in “LA RAZA” canta “it’s time you got to kill, do you’ve got the steel?” su un riff ossessivo che pian piano si apre a una cupa melodia - è proprio questa scelta radicale dell’acustica che segna un netto contrasto con i lavori precedenti. La voce, invece, è quella solita di Blunt, distante e lunare - a partire dalla track “VIGIL”.
Solo a tratti compare il Blunt/Babyfather che verte su un dub trascinato (“SEMTEX”, “MUGU”), mentre c’è solo “WOOSAH” come instrumental (novità assoluta per Blunt) che rappresenta il leit-motiv dell’intero album, con una chitarra acustica mixata ad arrangiamenti ipnagogici. Siamo lontani dall’elettronica e dalla vaporwave degli esordi e “the rot” ne è la conferma; traccia conclusiva di un viaggio al termine della notte, elegia di un sognatore malinconico.

Raffinato, solenne, a tratti ermetico e decadente, Dean Blunt si conferma una delle personalità più interessanti della scena sperimentale contemporanea inglese. Black Metal 2 accompagna l’ascoltatore in una spirale di riferimenti meta-musicali e lo seduce con il suo languido spleen, in un posto dove “è buio, non c’è mai luce”.

Contributi di Angela Bozzaotra ("Black Metal 2")

Hype Williams - Dean Blunt - Inga Copeland

Discografia

HYPE WILLIAMS
High Beams(Ep, self, 2009)5
Han Dynasty(Ep, De Stijl, 2010)
Do Roids And Kill E'rything (Ep, Second Layer, 2010)
Untitled (Carnivals, 2010)6,5
Find Out What Happens When People Stop Being Polite And Start Gettin' Reel (De Stijl, 2010)6,5
Dior (Ep, 2010)
Kelly Price W8 Gain Vol. II (Ep, Hyperdub, 2011)
One Nation (Hyppos In Tanks, 2011)7
10/10 (World Music, 2016)
HYPE WILLIAMS & DEMDIKE STARE
Shangaan Electro (Honest Jon's, 2012)
DEAN BLUNT & INGA COPELAND
The Attitude Era (digital file, 2012)8
Black Is Beautiful (Hyperdub, 2012)7,5
DEAN BLUNT
Gil Scott-Herring OST (Ep, self, 2012)
The Narcissist (Ep, self, 2012)
The Redeemer (World Music, 2013)7
Skin Fade (mixtape, 2014)
Black Metal (Rough Trade, 2014)7
Babyfather: BBF Hosted By Dj Escrow (Hyperdub, 2016)
6,5
Wahalla (w/ Joanne Roberts, World Music, 2017)6,5
Soul On Fire (EP, World Music, 2018)
ZUSHI! (mixtape, self, 2019)
Black Metal 2 (Rough Trade, 2021)8
INGA COPELAND
Inga Copeland (Ep, self, 2011)
Don't Look Back, That's Not Where You Are Going(Ep, World Music, 2013)6,5
Higher Powers (mixtape, 2013)6,5
Because I'm Worth It (self, 2014)
RELAXIN' With Lolina (Ep, self, 2016)
Live In Paris (self, 2016)
Lolina: The Smoke (self, 2018)7

Pietra miliare
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Streaming

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(videoclip da Untitled, 2010)

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(videoclip da Find Out What Happens When People Stop Being Polite And Start Gettin´Reel, 2010)

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(videoclip da One Nation, 2011)

Dean Blunt & Inga Copeland - Face Turn (mastered)
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Dean Blunt & Inga Copeland - 9
(videoclip da Black Is Beautiful, 2012)

Inga Copeland - Trample
(videoclip da Inga Copeland Ep, 2011)

 

Dean Blunt - The Narcissist
(videoclip da The Narcissist II, 2012)

Dean Blunt - Mersh
(videoclip, da Black Metal, 2014)

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